L'involuzione del corpo
"Da giovani il corpo è abito di gala, da vecchi - la bara da cui cerchiamo di fuggire!" (Marina Cvetaeva, Lettera del 20 luglio 1923 a A.V. Bachrach)
Invecchiare è un fenomeno naturale, eppure è uno dei fattori più conflittuali nella vita dell’uomo moderno. Un tempo la vecchiaia era sinonimo di saggezza e dignità, oggi equivale a una sorta di sconfitta definitiva. Il contesto socioculturale, in effetti, influisce sull’atteggiamento psicologico degli individui di fronte al processo di invecchiamento rendendolo del tutto indesiderabile. Così, non appartenere più alla categoria dei “giovani” diventa un dramma che si recita sul palcoscenico del corpo.
Quando si dice che l’involuzione parte dai 45-50 anni si descrivono i fatti in modo improprio, poiché lo sviluppo umano non è simile a una curva che raggiunga l’acme nella mezza età e poi scenda inesorabilmente. Il deterioramento mentale, per esempio, comincia verso i 25-30 anni e si può dire che si inizi a invecchiare già dalla nascita.
Se distinguiamo nell’esistenza tre fasi, crescita, maturità e senescenza, possiamo affermare che si invecchia dalla fine della crescita e non della maturità. È a partire dalla ossificazione delle cartilagini epifisarie (20-25 anni) che la massa corporea prende a diminuire progressivamente.
Ciò che caratterizza l’invecchiamento dal punto di vista biologico è la riduzione graduale del numero di cellule dell’organismo, cosa che avviene in maniera diversa a seconda della tipologia cellulare.
Il sistema nervoso e quello muscolare invecchiano prima di altri perché sono composti da cellule non rinnovabili. La medicina enuncia le modificazioni funzionali e anatomiche che avvengono nel corpo e ci offre l’immagine ben nota dell’anziano quale “adulto deficitario”.
Tutti gli apparati, da quello cardio-vascolare a quello urinario, risentono negativamente del tempo, sinché si giunge alla menomazione della capacità di adattamento specifica dell’età avanzata.
I cambiamenti più evidenti si manifestano a livello dell’involucro, la parte cioè più a contatto col mondo esterno: diminuzione della statura, della elasticità cutanea, della vista, dell’udito e del tatto, e via dicendo.
Essere e sentirsi vecchi I concetti biologici di involuzione e senescenza non hanno immediato riscontro nell’esperienza soggettiva. Ci si può sentire vecchi a quindici anni e in qualche misura a ragione, come ci si può sentire giovani a settanta. Del resto, questi termini vanno considerati con più elasticità e con molteplici sfumature di significato. Dal punto di vista psicologico ed emotivo si ha a che fare con condizioni solo in parte legate all’età anagrafica. In genere, al giro di boa di ogni decennio l’individuo ha una percezione più netta dei mutamenti somatici, soprattutto a causa della coscienza del tempo che passa. Il ritmo dei cambiamenti fisici e psichici non è lo stesso in tutti i periodi e può essere maggiore tra i 20 e i 30 anni che non tra i 30 e i 40; la fase di passaggio dei trent’anni può essere problematica quanto quella dei quaranta o dei cinquanta. È pur vero, però, che il numero di alibi per evitare la consapevolezza dell’età decresce in proporzione alla lunghezza della strada che si ha davanti. Eppure attualmente l’ansia di apparire più giovani riguarda perfino chi è nella piena giovinezza. Nessuno pare potersi sottrarre all’ingiunzione a restare in eterno giovane, tanto che la vera pornografia consiste nella bruttezza e nella vecchiaia. Più procede il cammino della scienza e più si ha l’impressione che il corpo sia un nemico da sconfiggere, per via del suo destino mortale e della sua suscettibilità alla decadenza. Se c’è chi ritiene cinquanta anni la durata naturale della vita umana e tutto il resto un sovrappiù dovuto alla particolari condizioni ambientali, c’è pure che prospetta un limite medio di cento anni in assenza di gravi patologie. Certo, le prospettive di longevità danno un senso del tutto nuovo alla mezza e alla terza o quarta età, tuttavia è legittimo il sospetto che l’invito a sfuggire all’invecchiamento procuri notevoli inquietudini e complessi. L’industria della bellezza e della chirurgia estetica dà sollievo alle ansie che ha generato, sul terreno corporeo si combattono estenuanti battaglie per impedire che la vita lasci le tracce. Qualunque mutamento appare pericoloso e difficile da accettare, a meno che non si tratti di un’opera di ringiovanimento. Il presente scompare nel tentativo di fare del futuro una versione riveduta e corretta del passato. Qui è in gioco un’inerzia psichica che infantilizza e che aspira ad una sorta di stabilizzazione definitiva, cambiare senza che niente cambi ne è lo slogan. La coscienza del corpo Camminare insieme al proprio corpo diviene sempre più problematico in una società che offre modelli posticci e bisturi o protesi per risolvere conflitti psicologici. Non è mai stato forse tanto disagevole invecchiare, da tutti i punti di vista, ed è facile allora che a 50 anni i conti non tornino. L’involuzione è un periodo critico per la coscienza di sé, facendo da contraltare all’adolescenza di cui condivide i problemi rispetti allo schema corporeo e alla disponibilità sessuale. È frequente che si sviluppino fenomeni di de-personalizzazione e sintomi ipocondriaci, anche sullo sfondo di equilibri più o meno precari raggiunti in precedenza. La rappresentazione mentale del corpo condiziona l’idea che ci facciamo di noi stessi, degli altri e del mondo. Per questo la sensazione di una trasformazione fisica peggiorativa altera il modo di vivere e di sentirsi vivi. La perplessità si alterna con il pessimismo nel confronto con un declino avvertito come ineluttabile, l’intero essere risulta rimesso in discussione a partire dai dati esteriori. L’immagine ci svaluta socialmente, la quotazione cala nel lavoro e nello svago. Il corpo appesantito e segnato ridimensiona il senso di noi stessi e del nostro valore, persino nel privato ci espone a mortificazioni e frustrazioni. Se il corpo ci tradisce, non sta più dalla nostra parte, il raggio delle nostre possibilità relazionali si riduce ed è difficile non sentirsi menomati. Può instaurarsi un vissuto di estraneità che porta ad aumentare le distanze da se stessi: questo corpo non è il mio, non sono io quello nello specchio! La soluzione per alcuni è la rassegnazione a vivere in una prigione, talora con un gusto un po’ morboso per la fatiscenza, oppure l’adeguamento ad uno stereotipo di persona ormai giunta al limite. L’unico interesse diviene quello di conservare quanto si ha sul piano dei rapporti interpersonali, senza più progetti a lungo termine. Ci si abitua a chiedere e dare poco, quel minimo per sopravvivere con decenza, cercando di ignorare il problema dell’aspetto. Altri focalizzano l’ansia sui segni e sintomi fisici, vanno a caccia di malattie, interpretando alla lettera la decadenza. Sull’organismo spostano un timore più generale riguardante l’identità personale nel suo complesso, le energie creative vengono spese in questo laboratorio che produce patologie artigianali. Altri ancora ingaggiano una lotta con l’esteriorità a colpi di diete, massaggi, ginnastica e cosmetici. C’è comunque un sottofondo di disperazione poiché non si crede di potercela fare e di resistere indefinitamente. A volte a fasi di entusiasmo, di cure e di attenzioni per l’immagine, seguono fasi di rinuncia e di stanchezza. Esausti ci si lascia andare: come sarebbe bello essere accettati per quel che siamo! Ma carnefice e vittima sono la stessa persona. L’occhio malevolo con cui ci si guarda si trasferisce nel mondo, così ci si attende dagli altri solo un giudizio critico impietoso. Si sta sul chi va là per cogliere commenti, ironia, pettegolezzi che purtroppo non mancano. Emerge una certa interpretatività nei contatti interpersonali, che fa del vicino e del prossimo un potenziale nemico o perlomeno un giudice. Lo sguardo altrui è un esame dal quale si esce per forza mortificati, si può giungere a vergognarsi di sé, a giustificarsi e chiedere venia perché non si è all’altezza dell’ideale televisivo o cinematografico. C’è chi passa al contrattacco sottoponendosi a stress di ogni genere per apparire energico e seducente, lo scopo è diventare un tipo “giovanile”, termine che sigla l’incapacità di accettarsi come essere in divenire. Sentirsi nella propria pelle Non sembrano esistere alternative tra la rassegnazione e l’incoscienza, dal momento che i messaggi culturali in proposito sono contrastanti. L’interrogativo “cosa penseranno di me?” vale sia per coloro che non stanno al gioco dell’eterna giovinezza e si travestono da vecchi, sia per coloro che si rifiutano di conformarsi al ruolo di vecchi e si travestono da giovani. A una certa età “non sta bene” una cosa e il suo contrario, sicché si fa di tutto tranne vivere nel proprio presente. Accettarsi è un problema che si ripresenta di continuo nel corso dell’esistenza. Crescendo si perde qualcosa, ma si guadagna anche qualcosa d’altro. La coscienza dei limiti imposti dall’età e dal corpo è in effetti pure consapevolezza delle opportunità che abbiamo per vivere una vita a nostra dimensione. Il confronto con la realtà può essere salutare e necessario affinché gli anni non passino invano. Questo non significa rinunciare a fantasticare e a progettare altre modalità di essere e di apparire, anzi. In verità è tutta la personalità a trovarsi coinvolta in un processo di ridefinizione, fare bilanci serve anche a rendersi conto di quanto ancora è possibile fare e delle scelte da compiere. Il problema è quello di porsi nell’ottica di una evoluzione e di una ricerca che non sono mai concluse e non dipendono né dall’età né dall’aspetto fisico. Proprio il contrario della preoccupazione ansiosa che spinge a tenere i conti di tutte le modifiche dei tessuti, della forma e del volume corporeo, del colore e del numero dei capelli. In tal caso il corpo - involucro come carta di credito prende il posto della persona che smette di crescere e capire. Si può davvero dire che si tratti di una nuova immagine con cui il soggetto maturo dovrebbe confrontarsi? Non è forse “nuova” solo perché si è vissuto lontano mille miglia da se stessi, sempre pronti ad occultare i segni del tempo e ad insabbiare la questione della identità? Trasformarsi in vigilantes della propria immagine fisica significa perdere l’occasione di apprendere dalle esperienze e rifiutare di ascoltare le verità interiori. Può essere utile ridipingere le pareti o rifare l’intonaco, ma se dietro la facciata tutto crolla non ha senso l’apparenza ingannevole. Il nostro compito è di abitare il corpo e viverlo come “nostro”, stabilendo comunicazioni fra interno ed esterno per sentirsi unitariamente in cammino. L’invecchiamento non è una fatalità o una maledizione, più semplicemente è la storia di ciascun individuo. Anche dal punto di vista biologico esso non è uniforme per tutti e a maggior ragione dal punto di vista psicologico. Chi ha saputo attraversare il tempo accettando le fatiche e le gioie dei cambiamenti, si ritrova poi arricchito e con strumenti più adeguati per affrontare la diminuita integrità corporea. C’è un piacere fisico e mentale di essere ad ogni età. Stare bene con se stessi, sentirsi nella propria pelle: è questo che conferisce ad una persona il fascino inimitabile dell’autenticità. Mattia Morretta (1987)