E liberaci dal male: Aids e omosessuali
In Italia il silenzio sull’Aids, messo all’indice solo nelle manifestazioni pubbliche, è anzitutto quello dei gay, che ne hanno fatto un pietoso velo da stendere sulla vergogna di aver tentato in ogni modo di ignorarne l’esistenza.
La commedia degli equivoci delle campagne di informazione viene replicata a ogni stagione, come se fossimo all’anno zero, e persino le principali organizzazioni sociali aspettano che le istituzioni facciano il primo passo, preoccupandosi soprattutto di non rovinare la festa alla vezzeggiata “clientela” gay, esigente in fatto di ipocrisia.
È sconfortante ritenere lusinghieri i dati ricavabili dalle dichiarazioni di intenti riguardo all’uso del preservativo nei vari questionari d’indagine, se si considera quanto in altri paesi occidentali l’Aids abbia contribuito all’evoluzione dell’immagine sociale dell’omosessualità e la spinta impressa all’elaborazione di modelli di socialità gay non centrati sul sesso.
Sorprende l’approccio ancor oggi enfatico da parte delle associazioni e della pubblicistica gay alla questione delle precauzioni nella vita sessuale, trattata soltanto come un prodotto negativo dell’epidemia contingente e quindi come una forzatura repressiva e transitoria, vuoi da coloro che tentano di imporre il profilattico con la minaccia della morte vuoi da coloro che si adoperano per renderlo gradito presentandolo come un passaporto per la libertà erotica.
La sottolineatura dell’estraneità del preservativo rispetto alla sessualità gay o della eccezionalità dello sforzo richiesto per adottarne l’uso, manifesta il prevalere di una concezione antistorica francamente preoccupante in chi si occupa di problematiche sociali.
Sconcerta altresì l’insistenza sulla necessità di un linguaggio “esplicito” per far giungere il messaggio preventivo ai gay, i quali in genere si ritengono e sono ritenuti brillanti, intelligenti e creativi, oltre che “tanto sensibili”, tranne quando si tratta di recepire informazioni sul sesso e sull’Aids!
Non ci si rende conto della pervicacia del pregiudizio antiomosessuale implicito nel reputare opportuno o persino indispensabile il ricorso alla gergalità sessuale per farsi intendere dai gay; con quanta noncuranza si ignora la squalifica di molte campagne mirate che rendono gli omosessuali dei destinatari degradati alla pari dei tossicodipendenti abituali e “irrecuperabili” o di altri emarginati, per i quali l’unico intervento previsto è la cosiddetta riduzione del danno.
Viene invocato il pragmatismo per giustificare un’operazione sommaria di rassegnazione a una visione svilente della sessualità; così, la terminologia e le immagini “dirette” pretendono di descrivere e registrare il dato di fatto dell’omosessualità e invece prescrivono un copione e veicolano una grossolana mistificazione, in cui la brutalità delle parole bara sulla banalità del pensiero sottostante.
In realtà, la reiterazione sempre più formale e sempre meno motivata delle iniziative di “sensibilizzazione” (informazioni riciclate e ovvie, profilattici gratuiti e a costo mentale zero, invito all’effettuazione periodica del test di screening), esprime la svalutazione e la scarsa considerazione in cui sono tenute le vite delle persone omosessuali da parte dei protagonisti, pubblici e privati, delle campagne di prevenzione.
Quel che caratterizza il nostro Paese nel contesto anche solo europeo è l’assoluta mancanza di dibattito e di messaggi sugli stili di vita, visti dagli esponenti dei gruppi gay organizzati come attentati alla libertà di azione sessuale (soprassedendo sulla plateale assenza di libertà di pensiero nella sottocultura omosessuale!).
Così, l’esecuzione rituale del test può apparire una maniera “attiva” e persino “militante” di affrontare il problema, mentre al contempo vengono dati per scontati rischi, inerzia comportamentale, inamovibilità di abitudini apprese, impossibilità di elaborazioni alternative e di strategie diversificate.
Domina, in verità, tra i gay una sostanziale passività fino al vero e proprio fatalismo rispetto alle malattie legate all’esercizio del sesso, essendo per molti la catena di montaggio della gratificazione erotica l’unica modalità conosciuta e riconoscibile di manifestare la propria omosessualità.
Non deve sorprendere, allora, che MTS e Aids finiscano per diventare in qualche modo “un rischio del mestiere”: per un numero consistente di individui fare l’omosessuale vorrà dire esporsi orgogliosamente alle prove e ai pericoli della sessualità, nonché portarne con disinvoltura i segni e le cicatrici (medaglie al valore?!).
Non può neppure meravigliare, di conseguenza, che vi siano (sull’esempio dei paesi in cui il mercato gay è più strutturato) individui che rinunciano da tempo a precauzioni pur minimali confidando sulle terapie efficaci e sull’aspettativa di vita dopo la diagnosi di infezione da Hiv (come era già accaduto per altre malattie veneree, per esempio la sifilide).
In parte, sono atteggiamenti favoriti dalla propaganda “ottimistica” del conservatorismo omosessuale, che ha posto l’accento sulle cure e sulla profilassi per uscire dall'incubo Aids.
Il discorso delle precauzioni, d’altra parte, andrebbe valutato nel quadro del generale aumento della agibilità sessuale su scala mondiale e con sempre minori barriere culturali, poiché essa impone e imporrà, volenti o nolenti, il ricorso a nuovi dispositivi di sicurezza e contenimento degli effetti collaterali di una “libertà” a torto ritenuta gratuita e priva di conseguenze.
In questo senso, il ricorso al profilattico dovrebbe già rappresentare un corollario pratico della più globale nozione di autotutela e responsabilità civile per chiunque scelga modelli di comportamento che prevedano molteplicità e facilità dei contatti fisici, mobilità o nomadismo affettivo.
Il preservativo, pertanto, andrebbe concepito come un presidio sanitario alla stregua delle norme e dei prodotti validi per il turismo o il transito in determinate aree del pianeta, oltre che uno strumento utile per organizzare in maniera consapevole e realistica la soddisfazione di differenti bisogni riguardanti l’area sessuale (come un tempo era richiesto e concesso ai maschi eterosessuali quale spartiacque concreto tra la gratificazione estemporanea e privata e le incombenze connesse al ruolo familiare e sociale).
Ciò dovrebbe valere a maggior ragione per i sostenitori dell’ideologia che fa del sesso un bene di consumo e al contempo una moneta corrente di scambio interpersonale, in un mondo trasformato in un villaggio globale ove gli individui sono progressivamente più privi di “frontiere” e più esposti a mescolanze indiscriminate (comprese quelle microbiologiche).
L’uso del condom costituisce, comunque sia, soltanto un elemento minimo di riconoscimento del contesto sociale attuale e non indica in alcun modo una coscienza della sessualità e delle sue implicazioni relazionali.
La maggioranza degli uomini, in effetti, percepisce il sesso come un dato di fatto della vita collocabile al di fuori della dimensione storica e delle concrete opportunità ambientali (intendendo con ciò i fattori biologici e quelli socioculturali). Ci si aspetta, quindi, di praticarlo senza applicarsi a un lavoro di conoscenza e di riflessione su se stessi.
Valutazioni, ragionamenti e analisi sulla propria natura sessuale, sui bisogni espressi nella sfera sessuale e affettiva, sui limiti soggettivi e sulle limitazioni oggettive, sono visti con sospetto e giudicati negativamente in quanto psicologicamente dispendiosi e destinati a rendere meno “naturale” e “spontanea” la sessualità (a meno che non si tratti di apprendere le parole d’ordine della divulgazione sessuologica sulle zone erogene e sui mille espedienti per incrementare il piacere o le conquiste!).
Va sottolineato che il preservativo per ridurre il rischio di contagio può essere accettato senza far ricorso ad altro che ad una motivazione egoistica, in assenza di qualsiasi riconoscimento del significato dell’esperienza sessuale e dell’analogo diritto altrui all’integrità.
Per molti rassegnarsi a farne uso per necessità (mai per scelta!) sarà l’impegno massimo profuso in una dimensione come quella sessuale idealizzata quale spazio di diritti unilaterali e di pretese assolute di gratificazione, in cui non sono ammesse sconfitte né previste imboscate (se non quelle programmate in proprio!).
A quel punto il lattice sarà al contempo barriera meccanica contro il potenziale danno biologico correlato all’incontro con un altro essere umano e lasciapassare simbolico per sentirsi autorizzati a evitare qualunque rapporto emotivo ed affettivo con i partner.
Un modo, in ultima analisi, per sostituire o ignorare la conoscenza, la comunicazione, la partecipazione alle relazioni in quanto persone intere. Ciò nonostante, con o senza “precauzioni”, siamo sempre passibili di ferite e in ogni caso latori di messaggi.
Una riprova del diverso senso dato alle precauzioni dai vari individui, si ha quando si tratta di usare il preservativo per non trasmettere ad altri virus ed infezioni. In tal caso è l’elemento altruistico a essere in primo piano, dovendo far appello al senso del dovere per non far pagare agli altri i propri problemi e avendo cura di tutelare i partner persino dalla loro stessa incoscienza.
In secondo luogo, si misurano allora con precisione la capacità di autogoverno e le motivazioni di ciascuno, dovendo affrontare per forza compiti gravosi per imporre a se stessi limitazioni, accettare frustrazioni, inserire in una prospettiva più ampia il gesto di intimità sessuale, elaborare strategie relazionali, etc.
E’ importante, tuttavia, ricordare che spetta ad ogni persona il riconoscimento e la presa d’atto dell’esistenza di un rischio implicito nella vita sessuale, corrispondente all’assunzione della responsabilità di adulto (che prevede oneri e doveri, non soltanto potere e diritti).
Non si dà, infatti, una sessualità senza rischi e senza costi, poiché essa è sempre accompagnata da un’ipoteca creativa o generativa (a livello individuale e interpersonale), sia che venga praticata sia che venga sublimata o repressa.
Dobbiamo tener presente, infine, che le terapie e le profilassi hanno modificato la diffusione, il decorso e le sequele organiche delle malattie veneree (benché meno di quanto si creda, perché è ancora elevatissimo il loro prezzo in termini di salute generale e riproduttiva), ma non hanno cambiato il significato della sessualità e le sue implicazioni etiche, nonostante lo scenario attuale possa far pensare il contrario.
Analogamente, la realizzazione di vaccini e trattamenti efficaci per bloccare o impedire l’infezione da Hiv e le altre malattie trasmesse sessualmente, non potranno eliminare il problema della coscienza e della responsabilità umana nei comportamenti sociali più rilevanti.
Indipendentemente dall’Hiv e dalle varie patologie veneree, gli esseri umani sono e restano capaci di procurarsi intensi piaceri e grandi dolori, spesso contemporaneamente; come sono pure in grado di sostenersi nella vita con impegno e coraggio o di darsi l’un l’altro la morte con assoluta leggerezza.
Se nel mondo occidentale si ha ormai una visione dell'Hiv come di un’epidemia immobilizzata, comoda e rassicurante, è perché la catastrofe annunciata riguardo alla diffusione eterosessuale del virus non si è verificata e anche perché l’equazione Aids uguale disgregazione sociale e povertà si è imposta con la forza dei grandi numeri e con la complicità del pregiudizio culturale.
Nel costante e raramente incruento processo di contrattazione tra società e individui, l’Aids ha rappresentato per gli omosessuali sia una minaccia di annientamento (di eco biblica e secolare) sia un’opportunità di mutazione antropologica, avendo portato all’estremo limite la coscienza della potenzialità e dei pericoli insiti in una sessualità priva di vincoli e allo stato puro.
Quel che è accaduto dopo l’identificazione di una patologia quasi fatta su misura per i rappresentanti della trasgressione organizzata (intorno ai due principali buchi neri della liberalità moderna, la droga e il sesso), al punto da poter sembrare creata ad arte, non poteva prescindere dalla storia della ridefinizione della sessualità in atto nell’ultimo secolo e dei suoi risvolti in termini di controllo sociale.
In un certo senso, infatti, per gli omosessuali l’Aids ha solo comportato la trasformazione da gruppo socialmente disprezzato (ritenuto composto da individui malati nel corpo o nella mente e corrotti dal punto di vista morale) a gruppo socialmente a rischio in quanto ricettacolo di patologie infettive e con alta probabilità di morte prematura.
Persino negli USA il National Research Council ha sostenuto che l’epidemia ha “un effetto irrilevante sulle strutture e sul futuro delle istituzioni sociali”, nonostante la decimazione di decine di migliaia di gay professionalmente attivi ed economicamente produttivi, a dimostrazione del fatto che gli omosessuali non erano e non sono considerati rilevanti per la società, cioè non vengono visti come partecipi del lavoro di costruzione e sostegno della struttura di fondo della comunità umana.
La connotazione di “gay” situa il soggetto e l’intero gruppo al di fuori della realtà comune e della quotidianità, tanto che anche la ricollocazione avvenuta per opera della malattia si presenta con i caratteri di una visibilità allucinatoria, legata a un fenomeno non ordinario e in qualche modo artificiale, talvolta addirittura associato alla mondanità (casi di Aids tra artisti, personaggi del mondo dello spettacolo o della letteratura, etc.)
E’ il pericolo messo in luce da vari intellettuali gay riguardo alla visibilità transitoria imposta dalla tragedia dell’Aids, correlata a una morte imminente che al contempo sembra promettere l’invisibilità duratura per una specie ormai segnata.
L'Hiv si profila così sempre più quale croce dei gruppi con minore potere economico, politico e sociale, non solo nel terzo mondo, ma anche nel nostro. Il rischio è che anche l’Aids passi senza lasciar traccia dei concreti tentativi di evoluzione dei modelli di vita sociale, sperimentati da alcuni gruppi omosessuali in molti paesi occidentali.
In Italia, la recente normalizzazione di ogni genere di sessualità, superficiale quanto rapida, si è solo sovrapposta alla nostra arretratezza esistenziale e culturale insieme, rendendo la situazione dell’omosessualità particolarmente complessa e confusa.
La verità è che in Italia gli omosessuali costituiscono effettivamente un gruppo debole e povero, privo di strumenti culturali adeguati alla sfida della trasformazione sociale e quindi esposto soprattutto alla violenza disgregatrice dell’Aids senza poterne utilizzare la valenza ideale.
Il ghetto gay italiano rappresenta davvero una sorta di periferia marginale dell’umanità, in cui regnano il degrado e la miseria relazionale assimilati, fatti propri e trasmessi da tutti coloro che vi accedono, sollecitati dalla propaganda di settori specifici di mercato e persino di associazioni, nella convinzione di dare in tal modo espressione ai propri bisogni sessuali ed affettivi nell’ambiente più adatto.
I circuiti commerciali e i luoghi d’incontro per gay divengono allora un mondo popolato di individui senza scrupoli, spietati e brutali nei loro contatti intimi: “uomini” come sono o sanno esserlo coloro che si sottraggono all’obbligo di uniformarsi alle regole della società, in libera uscita dalla identità di soggetti adulti e responsabili.
I “quartieri” gay si rivelano popolati da controfigure e da morti viventi che come bulldozer spianano tutto quel che trovano sulla loro strada nell’aspirazione al godimento e all’affermazione di fantomatici diritti.
In simili contesti indifferenza, egocentrismo e opportunismo fanno da padroni e da cattivi maestri in assenza di qualsiasi riferimento a concreti esempi di maturità e civiltà, e in mancanza di un serio lavoro nei circoli territoriali sulla creazione di modelli di socialità improntati alla solidarietà e alla moralità.
Sottratti a clamorose costrizioni, non più forzati a sposarsi, a fingere o mentire, per di più liberati da colpevolizzazioni ed esemplari punizioni sociali, i più si ritrovano abbandonati alle loro presunte aspettative e voglie in quanto “gay”, costretti a pensare solo a se stessi, travolti dalla corrente delle possibilità illimitate di divertimento, indecisi tra il dedicarsi esclusivamente all’hobby del sesso o l’erotizzare tutti gli interessi e il tempo libero.
Per molti non c’è neppure la responsabilità verso terzi (coniuge e figli, per esempio) a fare da freno alla escalation dell’egoismo obbligatorio, cosicché i bisogni pur legittimi di piacere e libertà individuale divengono facilmente pretese assolute che assorbono tutte le energie rischiando di distogliere le risorse da altri compiti altrettanto importanti.
La vita del singolo gay appare così chiusa su se stessa, priva di apertura verso la dimensione pubblica e segnata dalla mancanza di veri legami formali di tipo inter-personale, che raccordino l’individuo al gruppo sociale; di fatto, la stessa coppia gay è per lo più talmente paritaria da escludere l’interdipendenza e da funzionare come contratto privato rinnovabile e facilmente scindibile.
Come sempre accade quando l’uomo è “libero” di rispondere solo a se stesso, la misura dell’individualismo è frequentemente perduta per strada insieme al senso delle conseguenze della propria vita e della propria fine. Avendo la sensazione di pagare solo in proprio e di essere padrone assoluto della propria esistenza, non riconoscendo o non percependo vincoli di sorta (né con la specie né con la collettività), è quasi inevitabile la tentazione di spendere e perdere tutto fino all’annullamento di sé, anche senza ricercare giustificazioni o cause, nobili o ignobili che siano.
Non deve stupire se ne derivano disperazione e malattie, che a loro volta spingono a rincarare la dose e a proseguire a testa bassa nell’ebbrezza distruttiva dell’autolesionismo travestito da originalità e orgoglio.
Quel comportamento che qualche decennio fa i gay americani chiamavano “vivere sulla corsia di sorpasso”, è oggi aggravato nel nostro paese dalla mancanza di sanzioni interne ed esterne all’ambiente gay. Tocca, infatti, esclusivamente al singolo individuo darsi limiti e fare scelte, dato che non gli è possibile contare su una cultura d’appartenenza che valorizzi l’auto-determinazione responsabile e l’auto-aiuto.
Proprio per questo molti cercano disperatamente qualcosa che blocchi il loro girare a vuoto sulla giostra della diversità intuendo la sua seconda natura di ruota della morte.
Frequentemente è l’Hiv lo sbocco e la meta di strade oscure e a senso unico. La realtà tenuta fuori dalla porta della propria vita, resa in tal modo caricaturale e vuota nonostante il trucco, la palestra e i sorrisi di circostanza, torna prepotentemente sulla scena e chiede di essere riconosciuta.Può non essere troppo tardi per recuperare umanità, ma non è compito alla portata di chiunque.
Ecco perché si può affermare che l’Aids ha dato e dà al sesso tra uomini una gravitas che non è solo carico e peso, ma anche importanza e valore.E’ come se si fosse verificato il trapasso dal sesso alla sessualità, in corrispondenza del mutamento sociale dell’identità gay: acquisendo fisionomia di persone (uscendo dalla zona d’ombra dell’anonimato), gli omosessuali diventano capaci di azioni vere e proprie anche nell’ambito sessuale e non soltanto di atti.
La sessualità è, infatti, caratterizzata dagli aspetti di responsabilità che si aggiungono agli elementi di gioco e divertimento del sesso; conseguenze, progettualità, valenza sociale, scambio e contrattualità ne sono il corollario. Entra dunque in campo qualcosa che introduce anche nelle relazioni omosessuali la tematica generativa.
Gli eterosessuali sono da sempre costretti a fare i conti con l’eventualità del concepimento e quindi a sentirsi responsabili di questioni di vita e di morte. I rapporti omosessuali e gli omosessuali sono stati invece considerati fino alla comparsa dell’Aids una zona franca, in cui era possibile giocare con la dimensione sessuale sfuggendo al dovere nell’esercizio del sesso, come se esistessero solo crediti e nessun debito.
Se la sessualità è il discrimine tra adulto e pre-adulto, è perché poco dopo la pubertà non è più possibile il puro gioco col corpo e con i genitali; la soddisfazione sarà autentica, dopo un periodo di apprendistato e di prove, solo a condizione di fare sul serio, cioè di riconoscere la serietà della gestione del patrimonio sessuale quale strumento di piacere e quale mezzo che ci collega al ciclo della vita e della morte (sul piano della specie e su quello della società umana).
In questo senso, chi non è in grado di accettare l’idea della morte implicita nell’identità sessuale e nel potere di esercitare la sessualità, non è neppure in grado di “trasmettere” la vita e dare/ricevere piacere, ma può soltanto dedicarsi ad una sorta di autismo sessuale ed è votato alla dispersione del seme tanto quanto alla sterilità esistenziale.
Tutto ciò riguarda e riguarderà sempre più le persone omosessuali, se non verrà perduta o dispersa la consapevolezza della propria umanità integrale, alla cui definizione anche l’Aids ha contribuito.
Mattia Morretta (Babilonia n. 189, giugno 2000)