Andare incontro alla persona Scuola per Operatori Sociali, Milano, 4 marzo 1988 Quaderno di documentazione COAM n. 3, Comune di Milano, settembre 1993
Nonostante la mole di depliant e opuscoli è molto difficile reperire materiale di documentazione di qualità e comprensivo dei vari aspetti dell’Aids. Tale carenza e la dispersione dei riferimenti informativi è disorientante soprattutto per i diretti interessati e i congiunti.
L’assistenza psicologica non concerne solo l’intervento di specialisti, ma ingloba il contesto ambientale, persino logistico, in cui si svolge il contatto. Sapere che esistono luoghi e risorse dedicate ad una problematica significa poter contare su un contenitore e su soggetti interessati, con effetto di rassicurazione e sostegno pur a distanza. Per chi è angosciato per l’indeterminatezza della stessa definizione di malattia, è confortante poter far riferimento ad uno spazio fisico e mentale nel quale ci si occupa del problema.
Si è detto che l’Aids è una metafora della fine del secolo, tuttavia i fenomeni sociali non sono immediatamente comprensibili nel momento in cui sono attivi nella storia, per cui possiamo limitarci a rilevare che di certo condensa tensioni e contraddizioni dell’intera società moderna.
Ciò significa che la situazione è assai più complessa di quanto lasci intendere l’approccio sanitario. La difficoltà di intervenire ha però un risvolto anche positivo, poiché ogni “crisi” fornisce occasioni di riflessione e forse arricchimento, perché nuovi elementi si presentano nella modalità consueta di pensare e vivere. Una sfida che vale la pena di accettare intenzionalmente, perché l’Aids è qualcosa di “speciale” a prescindere da quel che vogliamo, sia come operatori che come semplici cittadini.
Anzitutto va ben compreso l’aspetto informativo, perché l’informazione non è mai neutrale o pulita, è connotata da chi la produce e da chi la riceve e nei passaggi intermedi. Per i mass media conta “fare notizia”, l’etica è invocata per pro forma, perché importante è vendere e attirare l’attenzione, senza troppo riguardo per le conseguenze.
Pertanto va selezionato cosa leggere e sapere, in particolare sull’argomento del comportamento sessuale.
In Italia scontiamo un’arretratezza clamorosa, che spiega perché gli spot banali sui preservativi incorrano in censure. Non è questione di moralismo, piuttosto di ambiguità, perché è paradossale inserire di colpo messaggi sul profilattico quando non si parla mai di sessualità in termini educativi. C’è una contraddizione stridente tra un mercato che stimola l’erotismo (non necessariamente la pratica) e una facciata culturale che balbetta nell’affrontare in modo ufficiale e serio il tema sessuale.
In secondo luogo, la documentazione sull’Hiv andrebbe elaborata nell’ottica di fare chiarezza e fare accettare quel grado di incertezza che non può essere eliminato, poiché la medicina non può rispondere in “assoluto” ai problemi sanitari.
Il materiale in lettura andrebbe offerto già quando viene accertata la sieropositiva, quale punto di appoggio per un successivo approfondimento. Chi riceve un colpo non può fare veramente attenzione, quindi è inutile spiegare troppo ed insistere su dettagli tecnici, si rischia di creare più confusione. In un secondo momento, dopo un’iniziale assimiliazione, si può entrare nel merito nel corso di un colloquio destinato solo al dialogo, per tener conto degli interrogativi e delle necessità dell’individuo. È utile, per esempio, fornire indirizzi di servizi ed enti cui far riferimento in caso di bisogno o di dubbi.
Non si può negare che vi sia un certo imbarazzo nel servizio sanitario pubblico nei confronti della popolazione omosessuale colpita dall’Hiv, la confusione degli operatori viene pagata dall’elemento più fragile.
L’intervento psicologico si è concentrato più sulla ricognizione e sui dati statistici per ripartire la torta delle competenze (e dei fondi), che non sulla gestione del paziente. Test e questionari puntano ad individuare disturbi e disfunzioni sorvolando sull’effettiva realtà delle persone sieropositive, applicando schemi interpretativi che non aiutano a capire il vissuto e la condizione.
Sarebbe più produttivo pensare in termini di un disagio psicologico ed esistenziale, che non può essere affrontato in solitudine, senza che ciò implichi ingerenza o indottrinamento da parte degli altri.
Nell’Aids l’elemento collettivo è connaturato sin dall’inizio, la collettività è coinvolta brutalmente in termini di fantasmi e timori irrazionali; inoltre, l’incidenza è maggiore all’interno di gruppi (le fatidiche categorie a rischio) e sono proprio specifici gruppi ad aver cercato di mobilitarsi (specie all’estero). In aggiunta, la tendenza ad isolare ed emarginare fa pensare che il pericolo più grande sia perdere il contatto, la dissolvenza dei legami parentali e sociali.
Di conseguenza la risposta non può che essere anche di tipo corale, nella logica semplice e banale, o se vogliamo “primitiva”, del far palizzata e corpo comune, come accade in tutti i momenti critici nella vita (nascita, malattia, riti di passaggio), non lasciando soli gli individui coinvolti.
Nel nostro caso l’atteggiamento sociale è “negativo”, perché il modello dell’Aids è più segregativo che contagioso. La tentazione di localizzare in alcuni individui il male è sempre attiva, campi di reclusione o sterminio ne vengono prodotti di continuo e senza pudore, a dispetto delle apparenze. Non si può attribuire a questo o a quel regime, questa o quella ideologia politica, fa parte dell’essere umano la spinta ad emarginare, cioè mettere ai margini rispetto ad un centro da salvaguardare. Da qui i cordoni sanitari per difendere la maggioranza dando in pasto alla collettività i gruppi a rischio.
L’intervento collettivo è importante anche perché molti dei soggetti Hiv positivi soffrono di disarmonia o mancanza di sintonia con l’ambiente, patiscono l’intolleranza altrui e la non accettazione propria. Tra gli individui più mal visti nel nostro Paese gli omosessuali figurano al primo posto, quasi il 50% degli italiani li considera con antipatia, dato confermato pure dalla minor percentuale di simpatie suscitate. Non per nulla sono stati i diretti interessati ad attivarsi per l’Aids, perché se avessero dovuto aspettare la società…
Sull’omosessualità l’omissione culturale è enorme, colposa e dolosa, e impedisce agli stessi operatori professionali di approfondire la problematica. Ci si affida al sentito dire, all’implicito della tradizione, dando per scontato di saperne qualcosa. Eppure, la storiografia sta mostrando quanto poco sappiamo del nostro passato, mentre noi tendiamo a considerare il presente come immutabile (cioè non modificabile) e identico alla fase storica precedente. Certo, per quanto si approfondisca il solco delle differenze, esiste sempre una notevole quantità di costanza nella storia. Tuttavia, la continuità va compresa approfondendo le articolazioni del comportamento nelle varie società ed epoche.
L’ottica corale ha guidato la nascita dei gruppi di auto-aiuto come intervento di solidarietà umana e appoggio psicologico, badando a non condensare nel conduttore il potere. Gli operatori in genere si avvicinano ai pazienti ed utenti con la convinzione che dalla loro parte stiano la salute, la risposta, le risorse di cambiamento, mentre dalla parte dell’altro stia solo il bisogno.
L’identificazione nell’altro del limite, del deficit, del problema rassicura chi usa il ruolo per prendere le distanze e conservare il proprio status. Ciò suscita nell’utente atteggiamenti aggressivi o passivi che non aiutano a trovare soluzioni personali. Gli schemi sono validi per tutti in astratto, ma la soluzione non può che essere individuale, cioè attuata nell’esistenza di quello specifico individuo grazie al suo diretto coinvolgimento.
È importante fare in modo che la persona sia protagonista della sua vita, il che è particolarmente difficile per coloro che non si sono mai posti la questione del crescere, evolvere, diventare una persona. In principio si è soltanto individui e si diviene persone mediante un processo molto faticoso ed impegnativo.
Per offrire agli altri l’opportunità di essere persone è necessario essersi posti la questione non accontentandosi di vivere come semplici individui. Non si tratta di imporre percorsi esistenziali impossibili, velleitari o impropri, bensì di incoraggiare l’idea di una evoluzione praticabile per vivere una vita a propria dimensione. Ciò significa individuare le risorse altrui e non accanirsi sui limiti, non pensare soltanto allo stato di bisogno, anche di fronte ad uno psicotico o ad un minorato mentale.
Oliver Sacks ha ben mostrato cosa possa comportare una scienza “romantica” (secondo la definizione del neurologo russo Lurija), che si avvicina all’altro con una disposizione alla comprensione e ad aprire gli occhi, per non rinchiuderli in gabbie concettuali e non ridurli a fenomeni marginali o banali. Si finisce così per nascondere a sé e agli altri la possibilità di un mutamento o uno sviluppo, anche nelle condizioni più gravi. Per capire l’altro dobbiamo utilizzare noi stessi quali filtro.
Lo psichiatra H.S. Sullivan ha scritto che “siamo sempre soprattutto umani”, in qualunque circostanza, quindi le esperienze sono comprensibili, benché non in modo totale. Esiste un nucleo talmente intimo da non poter essere comunicato a nessuno e in nessun caso, ed è questa la vera “vita privata”, una gabbia che siamo impossibilitati ad aprire a chicchessia.
La personalità dell’operatore è decisiva andando oltre la grammatica e i trattati, i corsi di aggiornamento e formazione, perché è necessaria la volontà di immedesimazione, aprendo la mente all’intuizione e al ragionamento. Pensare è un processo di apprendimento articolato che richiede applicazione ed esercizio, assumendone la responsabilità.
Si tratta di continuare ad imparare e pensare, formarsi opinioni acquisendo conoscenze e non passando da uno stereotipo all’altro. Il rischio del normale percorso di studi è di applicare con automatismo quanto alcuni hanno visto e detto anzitutto a se stessi e poi all’intera realtà, mentre è sempre necessario passare per una metabolizzazione ed una rielaborazione personale. Ogni contenuto va vissuto dentro di sé per poter operare verifiche sugli altri.
Nel rapporto con gli Hiv positivi è fondamentale favorire il recupero dell’individualità, sostenere nel riprendere potere sulla propria vita, perché la percezione più comune è che il controllo sull’esistenza trapassi nelle mani dei medici o si sposti in un ambito remoto e inimmaginabile, la cellula linfocitaria trasformata in officina in cui il virus lavora contro il corpo, a suo danno e sue spese.
La responsabilità del soggetto viene ridotta al minimo, vista la scarsità di informazioni, l’insufficienza di cure e la carenza di supporti. Sentire di poter far poco o niente annichilisce, prima di riacquistare fiducia nelle proprie capacità è indispensabile l’aiuto e lo stimolo positivo da parte di qualcuno, affinché si accetti di fare un lavoro di adattamento e arricchimento individuando le aree di possibile sviluppo.
Di solito l’incontro con l’establishment sanitario è passivizzante e generatore di dipendenza. La terapia, benché precaria e perciò gestita con più rigidità ed autoritarismo, è il coltello nelle mani dei medici, così pure la conoscenza di una verità ulteriore che deve restare nel loro cassetto. Conservare una quota di conoscenza nell’ambulatorio medico crea confusione nel rapporto, benché sembri essere nell’interesse del paziente che desidera credere nelle soluzioni possedute da figure di autorità.
Quando ci confrontiamo con situazioni di grande incertezza e con pochi strumenti a disposizione per averne un quadro complessivo realistico, ci serve sapere che altri siano in grado di vedere le cose con obiettività. Molto dipende da come questa fantasia o speranza viene gestita. Al paziente si può proporre quel che può fare autonomamente occupandosi di aspetti di alimentazione, esercizio fisico, meditazione, tutto ciò che gli dà un ruolo e un compito, un progetto finalizzato al benessere.
Spesso i sanitari non vanno al di là dei controlli e della prospettazione di accertamenti, non provano neppure a stimolare il paziente ad occuparsi di se stesso e ad individuare quel che più fa al caso suo apportando giovamento alla sua salute, non solo fisica.
Avere un progetto e uno scopo è importante per tutti, a maggior ragione per chi sa che molte delle sue certezze sono rimesse in discussione, le difese abituali compromesse, le fonti di soddisfazione ridotte. L’Hiv positivo si trova di fronte all’idea impenetrabile della fine e del limite. Se gli operatori non riflettono sul medesimo tema, comunicano facilmente rassegnazione o fatalismo: “Stai bene per poter stare bene”, una tautologia se non si offrono suggerimenti e non si identificano risorse.
Per questo la valutazione non può limitarsi al “sangue” o alle ghiandole, lo stato clinico, ma deve riguardare la persona, mettendo in luce la personalità con i suoi sistemi difensivi, le forme di soddisfazione e le modalità di rassicurazione.
La persona non scompare a causa della diagnosi, può restare in ombra per un certo periodo, la scena può essere occupata da ansia e fobia che rendono stereotipato il comportamento; poi però tornerà a galla l’individualità, se si permette che ciò accada.
Va facilitato il ruolo attivo della persona nelle condizioni problematiche, che siano malattie o sofferenze psicologiche, pur accogliendo il desiderio di affidamento e interdipendenza. Tutti proviamo l’esigenza di regredire e contare su qualcuno che possa più di noi, per qualche tempo. Se non è soddisfatto diviene un bisogno con risvolti drammatici, come nei malati di professione o coloro che si rifugiano nelle patologie quasi fossero l’unica via di scampo.
I gesti che compiamo, le parole che usiamo in determinati contesti sono carichi di senso e conseguenze, perciò dobbiamo averne coscienza e ragionare in termini di dovere da compiere. Va favorita l’autonomia rispettando l’esigenza di “dipendenza” transitoria o periodica.
Proprio riconoscendo la fragilità umana e lo stato di bisogno momentaneo possiamo promuovere l’assunzione di un ruolo attivo, come avviene nell’età dello sviluppo passando dalla simbiosi all’indipendenza. Può esserci una fase guidata di con-fusione emozionale con l’altro che prelude alla ridefinizione delle identità distinte.
La capacità di adattamento umano è fortissima, non si deve credere che il sieropositivo non trovi un modo per convivere col suo nuovo stato, a parte i casi di grave compromissione preesistente o nuovi fattori incidenti nel presente (abbandoni, perdita del lavoro, eccetera). I meccanismi della sopravvivenza possono rivelarsi controproducenti o restrittivi, perché tornare indietro o azzerare comporta la perdita degli elementi che potrebbero determinare sviluppo.
Il rischio è perdere il senso e rompere la continuità della propria vicenda esistenziali. La sieropositività spezza in maniera radicale la linearità perché introduce la prospettiva della morte, sia in concreto che in senso metafisico, poiché le probabilità di non ammalarsi sono minor di quelle di sviluppare l’Aids.
L’idea dei co-fattori nella progressione può dare al soggetto lo stimolo per lavorare su di sé, darsi nuove regole e migliorare l’auto-tutela, facendo molto per se stesso in generale, più che adottando stili di alimentazione, sport, massaggi e trattamenti psicologici.
Sappiamo che lo stress gioca un ruolo pure sul sistema immunitario, un altro modo di dire che siamo un tutt’uno, infatti Groddeck sosteneva che esiste un inconscio della cellula, cioè di ogni parte di noi. La regola è la costante compresenza di elementi somatici e psichici, l’eccezione è il contrario.
Alla persona va trasmessa la fiducia nella possibilità di apprendere dall’esperienza, evitando la rimozione di quanto è accaduto con tale evidenza perché si finisce per perdere se stessi insieme alla ferita. L’esperienza è un fattore di arricchimento che contrasta la tendenza primaria all’inerzia, psicologica e forse biologica.
Quando si verifica un evento nuovo all’inizio si tenta un’espulsione oppure un inglobamento mascherandolo con elementi riconosciuti già interni al sistema, per ricreare l’omeostasi di base. Ciò rischia di essere riduttivo più che nocivo, perché di fatto il flusso esperienziale non si può interrompere a dispetto delle nostre operazioni di controllo e fissazione dell’ordine.
Viviamo tutti con un copione schematico di fondo per limitare il numero di variabili da controllare, ma ciò costituisce uno svantaggio nel momento in cui ci è richiesto un riadattamento, che è in fondo l’essenza dell’evoluzione, poiché evolvere è migliorare rispetto a quel che si era o si è stati.
Occorre ratificare il ritorno alla normalità col recupero delle proprie caratteristiche, lasciando però margini per l’accettazione più profonda dell’accaduto in termini di consapevolezza e potenziale apprendimento o “guadagno”. In tal modo si trova qualcosa di positivo anche nelle situazioni drammatiche o tragiche, dalle quali altrimenti si desidera solo fuggire.
Per molti operatori l’alternativa è tra consolare e semplificare o banalizzare. Incoraggiare la normalizzazione è giusto, ma non vanno demonizzati lo squilibrio e la crisi. Semplificare equivale spesso a minimizzare, impoverendo l’individuo e instillando sfiducia nelle sue capacità di far fronte a prove impegnative.
Dopo un periodo di compenso grazie alla negazione tornano ad agire le problematiche costitutive della condizione di sieropositività. A quel punto molto dipende dal sostegno relazionale (parenti, amici, partner), dagli stimoli costruttivi di chi accompagna e sa mostrare la prospettiva evolutiva.
La semplificazione è un'altra maniera di lavarsene le mani, inducendo le persone a non chiedere nulla più di cose materiali, così non disturbano con verità e sofferenze indesiderate. Quindi sarebbero da evitare sia la sottolineatura della negatività sia il riduzionismo con l’alibi di lasciar libero l’individuo di vivere come vuole.
L’intervento per avere senso ed efficacia va sempre calibrato su misura. Per esempio, il gruppo di auto-aiuto non è la panacea per tutti, alcuni si giovano dell’aiuto individuale o della semplice rete di conoscenze, i contatti autogestiti tra Hiv positivi e/o parenti e partner, per lo scambio e la condivisione in modo più informale e nella quotidianità.
Il lavoro inizia ancor prima della diagnosi di sieropositività, a partire dalla promozione della scelta volontaria di fare il test Hiv. L’esame sierologico è stato propagandato come strumento di prevenzione in sé e per sé, ma sono le precauzioni e la norme di condotta a poter prevenire un contagio. Inoltre, il test non implica una riflessione più articolata sul comportamento sessuale.
Fin dal principio l’Aids è accompagnato da schiere di worried well, cosiddette “persone sane ma tormentate”, senza rischi oggettivi o con rischio minimale eppure angosciate oltremisura. Per tanti ipocondriaci e fobici l’Aids è diventata la nuova “tentazione” irresistibile, un catalizzatore di moventi inconsci e irrazionalità tale da indurre scompensi psichici.
Soggetti ansiosi e talora visibilmente disturbati vengono sottoposti al test Hiv un numero esorbitante di volte ratificando lo spostamento della patologia mentale sull’Aids. Avendo un’origine emozionale e irrazionale, il timore dell’Aids non trova contenimento o risposta nel risultato negativo, anzi, se ne serve per auto-mantenersi e crescere. I motivi oggettivi mancano, però quelli soggettivi abbondano per sentire di avere a che fare con l’Aids, perché la fobia è un prodotto artigianale e una proprietà privata, usata per risolvere sbrigativamente conflitti interni o per esprimere di nascosto alcuni contenuti.
In effetti la paura del contagio spezza a volte il falso equilibrio di una personalità fittizia, una personificazione di sé inadeguata che giunge al limite e trabocca con l’inquietudine generata dall’Aids.
Nella consulenza andrebbe introdotto da subito il concetto dell’utilità del ragionamento sul proprio modo di vivere la sessualità e la salute.
Dopo la diagnosi si presenta il problema dei controlli periodici, ai quali ciascun paziente attribuisce significati differenti. Per alcuni è rassicurante sapersi “controllati” e tenere i conti dei linfociti, per altri fonte di angoscia e smarrimento, in ogni caso andrebbero inseriti in un progetto complessivo di cura, ben al di là di cifre e indici di laboratorio.
Lo scopo non possono essere le statistiche e la sorveglianza epidemiologica, pur utili per l’organizzazione sanitaria, perché non esiste una ragioneria dell’anima e dei sentimenti.
Ci sono pazienti che vedono rimessa in discussione l’esistenza ad ogni verifica e visita, avvertendo la spada di Damocle sul capo (“quanto tempo ho ancora da vivere?”). Un eccessivo carico psicologico impedisce di dare agli esami il giusto peso, a maggior ragione se non si adottano contromisure dando spazio ai vissuti del singolo. Sottoporsi a regolari controlli non è l’unica maniera di prendersi cura di sé e attribuirvi troppa importanza finisce per scoraggiare dalla ricerca di altri mezzi per migliorare la vita.
La fame di informazioni mediche è sovente una fuga dalla percezione della fragilità emozionale e mentale. La notizia che siamo “mortali”, benché ovvia, è sempre inattesa e destabilizzante, nessuna “corretta informazione” può evitare la sofferenza associata alla consapevolezza della fine. La conoscenza, tuttavia, può permettere una previsione al posto della reazione di emergenza.
Quando si è colpiti all’improvviso da un evento inatteso si verifica una disorganizzazione della condotta, con ridondanza, stereotipie e dispersione di risorse. Gradualmente si può fare un quadro della situazione, disporre i vari elementi sul tavolo e individuare i collegamenti elaborando una strategia di comportamento costruttivo.
Parlare di persone sieropositive e non di sieropositivi è importante perché predispone a pensare ai pazienti come persone in senso completo. Il termine sieropositività si riferisce solo alla presenza di anticorpi nel siero di sangue, prima dell’Aids non identificava tipologie di pazienti; ora è un’etichetta e una sorta di sentenza senza appello, che forza l’individuo a riassumere tutto se stesso e la sua esistenza nella definizione medica e sociale.
Con le parole produciamo molto bene e molto male, esse hanno un grande potere su di noi, per questo va fatta attenzione al linguaggio e alla comunicazione cercando di non subirne il condizionamento negativo.
La letteratura si dimostra spesso più utile della saggistica e della medicina per comprendere la condizione umana. Nella novella di Luigi Pirandello Il dovere del medico il protagonista, che ha ucciso il marito della amante, vede la sua vita condensata in quell’unico atto e radicalmente trasformata. Una delle rivelazioni più significative di Pirandello è che noi non siamo nei nostri atti, dobbiamo sempre far differenza tra le azioni e la persona.
Non essere “costretti” nei comportamenti e nei fatti nel caso della malattia è fondamentale, perché apre la possibilità del cambiamento e del rinnovamento anche solo di senso superando il passato.
Gli altri ci sorprendono per il coraggio o le soluzioni che inventano in situazioni difficili, nella misura in cui consentiamo a noi stessi di “meravigliarci” con l’investimento fiducioso del presente.
Fattori specifici e contingenti, culturali, di maturazione affettiva, possono impedire di recuperare o reintegrare i sistemi difensivi messi in crisi e temporaneamente inutilizzabili. La negazione va dosata per potersi occupare d’altro prescindendo da ciò che ci affligge, pur continuando a tenerne conto. Il pensiero sulla malattia è ricorrente, nonostante l’apparente adeguatezza una parte della mente è altrove e rende ardua la presenza e la partecipazione alle relazioni.
Normalmente le nostre vite danno l’impressione del formicaio, con un continuo andare e venire, agire, intersecarsi con altri; i momenti di riflessione su chi siamo e come viviamo sono pochi e solitari.
Nella sieropositività per un certo tempo il mondo si ferma e il soggetto prende coscienza di esistere in maniera quasi allucinatoria, prendendo a prestito parole di Pasolini: “Ora sono un deserto del tutto esplorato, sono tutto coscienza. Non c’è più alcun mezzo per salvarmi” (Atti impuri).
Di fatto è la morte a ribadire che noi siamo proprio noi e la nostra storia non può essere quella di un altro. Individuarci significa dare di noi un individuo unico e irripetibile, riconoscendo debolezze, incertezze, paure, le azioni compiute e la responsabilità complessiva. Con la consapevolezza compare il problema di cosa fare di noi, di darci e gestire la libertà di essere.
La casa in cui giravamo in penombra o a occhi chiusi viene illuminata a giorno e in un primo momento non riconosciamo più i riferimenti e persino la nostra identità. Poi piano piano si verifica una assuefazione alla luce, vediamo dove sono realmente collocati gli oggetti, dove sono le porte d’ingresso e di riserva, le finestre, i ripostigli, gli elementi cioè che costituiscono la nostra personalità.
Se ci si limita a sentire non è possibile mentalizzare i vissuti, attuare un’opera di appropriazione cognitiva e culturale. Anche se in noi esistono saggezze e forze misteriose, che non avremmo mai sospettato di possedere. Quindi occorre darsi fiducia perché possediamo un enorme potenziale di adattamento e cambiamento, cui fanno riferimento le religioni d’Occidente e d’Oriente. Il mago e il taumaturgo in verità non fa che prendere a piene mani da colui che vi si affida, non travasa la sua energia, piuttosto attiva quella altrui.
Attivare le fonti della persona in difficoltà è determinante, mettendola in condizioni di credere nelle proprie risorse per compiere azioni che aumentano l’autostima. Molti hanno accumulato delusioni e fallimenti, si aspettano che le soluzioni e le risposte vengano soltanto dall’esterno, sono abituati a chiedere e pretendono che le risorse siano fuori di sé.
La mole dei problemi da affrontare nella fase iniziale della sieropositività spaventa e può paralizzare, è una montagna che non si sa come scalare e non si ha la motivazione per tentare. Chi potrebbe fidarsi completamente di se stesso quando ci si sente traditi in prima istanza dal corpo, quando si presume di aver accolto un nemico che minaccia di dare la morte?
L’incertezza è tragica, ancor più per chi ha che fare col limite e la dis-identità. Non riuscendo a scorgere il fondo del pozzo, può venire la tentazione di buttarsi per superare l’incognita e l’attesa. Gli stessi sintomi patologici sono “assaggi di morte” per familiarizzarsi col mistero e avere a che fare con qualcosa di concreto.
La profezia connessa alla diagnosi di sieropositività induce molti a cadere nelle braccia di una sorte di sventura, vivendo il benessere come un lusso che non ci si può permettere. Del resto, dopo uno shock non si è mai del tutto convinti di esserne usciti indenni, si cercano i residui e le tracce, oppure si prospetta una ricaduta. Sicché a volte c’è auto-produzione di sintomatologia e disagio, quasi come ambiti di residuo potere.
La vita può apparire d’un tratto “ridicola”, le preoccupazioni altrui su aspetti secondari dell’esistenza, persino i fatti politici e la deriva del pianeta. Ciò che si faceva prima perde senso perché è cambiata la posizione ontologica dell’individuo, a parte le privazioni effettive. Quando ci si sente fragili ci si attende più facilmente aggressione dall’esterno, come se dall’interazione potessero derivare solo cose negative.
Parte dell’aggressività personale viene proiettata fuori perdendo una componente importante del potere di agire nel proprio interesse. Proprio il recupero del potenziale “aggressivo” consente il passaggio ad una fase costruttiva e riparativa, evitando la regressione che rimpicciolisce e porta a dipendere passivamente dall’ambiente.
Il ritiro è utile al principio e quando c’è un indebolimento significativo, poi però c’è il rischio di perdere il contatto con la realtà e i punti di intersezione con gli altri. Ci si chiude in una torre o ci si esilia in un luogo remoto che impedirà a chiunque di raggiungerci, portando alla rinuncia definitiva alla comunicazione.
Il messaggio andrà inviato molte volte affinché l’uomo isolato e sfiduciato risponda, tornando a credere nella relazione umana.
Mattia Morretta (1988)