Aids: La nuda lampadina della coscienza Il percorso del morire Edizioni Unicopli, Milano, 1995
La morte da Aids è dalle origini messa in piazza, discussa in pubblico. Chi è Hiv positivo è costretto ad ascoltare i discorsi che gli altri si sentono autorizzati ad imbastire sulla "sua" morte: la gente parla con leggerezza, disinvoltura, commiserazione, sarcasmo, compiacimento, scientificità, di ciò che lo aspetta (e probabilmente merita). La fine di quelli come lui è nota e descritta con dovizia di particolari dai mezzi di comunicazione di massa, come pure nei convegni o nelle chiacchiere di quartiere.
Si determina una sorta di invito collettivo rivolto al "malato designato" affinché entri nell'orbita della morte e si adatti a tale prospettiva in qualunque modo, sia pure con disperazione o scempio visibile. L'importante infatti è che le persone con Hiv accettino la definizione di candidati alla morte prematura e dolorosa.
Possono fare i ribelli, mostrarsi in atteggiamenti scomposti o sconvenienti, risultare poco o per nulla collaboranti come pazienti, fare brutte morti, suicidarsi o distruggersi in varie maniere più o meno palesi, va anche bene che muoiano "con dignità" o addirittura dopo aver riscattato esistenze oscure e fallimentari in un ultimo impeto di amor proprio.
La scelta del messaggio e del riferimento ideologico dipende dall'osservatore e dal tipo di lettura che questi predilige. È come se per le strade una voce proclamasse da un altoparlante la lista dei condannati a morte, facendone l'elenco e l’appello: ecco a chi tocca e sappiamo tutti perché.
La persona con l'Aids è molto più mortale delle altre persone, sia perché "sterile" (senza discendenza o con discendenza maledetta), sia perché portatrice di "diversità (che comporta in genere svalorizzazione e svuotamento, una vita deficitaria e marginale).
Anche quando si cerca di valorizzare la convivenza con l’Aids, è pressoché inevitabile un certo grado di forzatura, una violenza sottile ma non per questo meno dolorosa. Che si muoia di Aids o si viva con l’Aids, è quasi impossibile sottrarsi al dazio delle aspettative comunitarie; c'è comunque una tassa da pagare sul piano sociale, una specie di debito contratto con "gli altri'', i nemici quanto gli amici, senza neppure esserne a conoscenza. Insomma, si vive e si muore un po’ per la società.
Il malato è sollecitato a verificare le sue attitudini personali all'eroismo o al martirio, oppure può essere tentato di sperimentare la fuga nell'anonimato più esasperato e innaturale, che spesso sfocia nell'annullamento: così finisce per togliersi di mezzo e "scomparire" in fretta e furia, riducendosi in polvere o costringendosi in un'angustia esistenziale spropositata. È il prezzo di una malattia “epocale”.
Dopo la diagnosi di Aids, la persona è normalmente considerata morente, in fin di vita, non ha più spazio né tempo a disposizione, come il Mattia Pascal di Pirandello: “vivo per la morte e morto per la vita”. Da quel momento non può accadere più niente, possono esserci solo ripetizioni, soprattutto in senso psicologico ed esistenziale.
Le stesse famiglie dei malati e persino le associazioni di solidarietà a volte fanno in modo che nulla accada più. L’Aids si concretizza come dichiarazione di fine e di fallimento di specifici individui, cosa resa più facile nel contesto italiano dalla concentrazione dell'epidemia nelle "periferie umane" della società.
Gran parte dei soggetti malati era di fatto già fuori gioco in precedenza, appartenendo a fasce di emarginati e di falliti e rappresentando, anzi, gli "scarti" della civiltà moderna. L’emarginazione, in effetti, è l'altra faccia della medaglia di un "centro" che viene sempre più trionfalmente sostenuto e che comporta lungo il percorso la perdita di moltissimi individui "inadeguati": lo dimostra anche il riemergere della povertà nei paesi più industrializzati.
In realtà, la macchina della nostra civiltà consumistica "consuma" gli uomini, li distrugge letteralmente. Quelli che non riescono a stare al passo vengono sbriciolati e lasciati per via, mentre gli altri per lo più fanno finta di niente. In alternativa si prospettano e si organizzano interventi di tamponamento, strutture assistenziali che cerchino di porre riparo ai danni provocati da un'impostazione della vita sociale veramente disumanizzante, eppure esaltata come suprema realizzazione dell’uomo.
Le persone con Aids si trovano in una condizione di grande fragilità e vulnerabilità, senza supporti a livello di identità e senza aiuti per diventare soggetti della propria esperienza, con l'aggravante del carico di problemi e di inadeguatezza antecedenti all'infezione. Molti dei malati di Aids, infatti, sono individui che non avevano potuto affermarsi se non in maniera illusoria tramite la trasgressione o la perversione, solo in apparenza contro le regole del gioco.
Questo vale anche per gli omosessuali, oggetto di discriminazione sociale (più che di emarginazione) e in particolare sopraffatti da un degrado morale che li punisce sul piano ontologico e li esclude dalla realtà ordinaria, confinandoli nell'identificazione con la pratica sessuale al di fuori della dinamica sociale.
A causa di ciò l'esperienza di diversità non può divenire elemento di arricchimento culturale e civile, ma si riduce a fantasma o deviazione. La maggioranza dei malati è dunque costituita da uomini umiliati e gravemente disorientati, increduli riguardo alla possibilità di vivere in prima persona e incapaci valorizzare la propria identità.
Al di là delle case alloggio, dei sussidi, delle pensioni, dell'assistenza sanitaria, dei posti letto in ospedale, rimane inevaso il problema del bisogno di identità dei malati che è essenziale. L'insistenza sugli aspetti materiali della malattia ha prodotto, mi pare, soprattutto opportunismo e strumentalizzazioni, un affarismo spietato rivolto alla spartizione della torta dei finanziamenti pubblici e privati.
Tuttavia, il discorso assistenziale funziona anche come sistema per mettere a tacere l'esperienza umana dell’Aids, il suo portato antropologico. Secondo il modello interpretativo prevalente dell'Aids si dovrebbe avere una concezione puramente "scientifica" basata sui fatti e sulle informazioni(!), in modo da identificarla solo come una malattia "come le altre", che non deve "significare" nulla, oltre il fatto di costituire una seria epidemia gravante sulle strutture sanitarie e sociali.
Certo, l'Aids è il prodotto di un processo biologico ed è una epidemia causata dal diffondersi di un "nuovo" tipo di virus; ma essa ha anche dei significati per gli uomini. Non perché la si voglia strumentalizzare in senso moralistico o repressivo, bensì perché costituisce di fatto un fenomeno antropologico di grande rilevanza. L'Aids può arricchire o impoverire gli uomini, a seconda delle operazioni culturali che su di essa vengono compiute.
L’Aids può essere il campanello d'allarme per la società occidentale circa il suo declino sul piano dell'umanità (la campana suona per noi, stavolta). Il progresso tecnologico e scientifico ("uno sviluppo senza progresso" come diceva Pasolini) non corrisponde ad un progresso umano; anzi, un certo tipo di medicina va contro, per esempio, la dignità dell’uomo, in quanto non sostiene la coscienza della temporalità della vita.
I compiti evolutivi universali sono oggi completamente disattesi. C'è di che disperarsi e vengono alla mente le parole profetiche e terribili di Cristina Campo: “il povero mondo biochimico di domani dove il pensiero non sarà più che un siero, la coscienza più che un tegumento”.
L’identità della persona con Aids è un vuoto, una mancanza assoluta. Viene attuato collettivamente un rito che comporta la creazione di un "luogo" inabitabile, assolutamente inospitale, in cui non c'è nulla, un vero e proprio deserto: un posto in cui nessuno vuole stare, che nessuno vuole concepire e che non si può neppure immaginare.
La psicologia collettiva delimita in tal modo un ambito in cui vengono deportate o esiliate le persone malate di Aids, lasciandole poi sole e prive di risorse. Le si soccorrerà, semmai, per portare un bicchiere d'acqua, appunto. Oppure per costruire tutto intorno la palizzata dell’assistenzialismo, anche nella versione solidaristica laica e confessionale, poiché talvolta la religione stessa può chiudere le porte della valorizzazione dell'identità dell'uomo. Tutto affinché dall'esperienza non provenga nulla di "nuovo", affinché venga solo riconfermato qualcosa e non ci sia un arricchimento della cultura e del modo in cui si può pensare all’uomo.
Nonostante il gran lavorare che si fa in questo ambito, nonostante anche lo sperpero di denaro e di iniziative, il problema dell'identità, cioè di chi è la persona con Hiv o Aids e di come può convivere con la sua condizione, resta irrisolto perché trascurato o ignorato. Se scegliesse di confrontarsi con la malattia e la mortalità, non sarebbe aiutata quasi da nessuno, se non a patto di accettare di diventare un malato da manuale, seguendo perciò le istruzioni per attraversare il calvario e giungere ad un certo tipo di morte, ben descritta e prescritta dalla medicina.
In alternativa, potrebbe "scegliere" di affidarsi ad una concezione religiosa del trapasso, per consegnarsi all'immortalità o ad un'altra vita, con tutto il corollario di contenuti connessi al superamento delle condizioni materiali dell’esistenza.
Non c'è la possibilità invece di provare a capire in prima persona, autonomamente, cosa voglia dire essere soggetti che subiscono la malattia e l’ostracismo, la localizzazione della sofferenza e della mortalità, e che vengono esautorati della possibilità di essere se stessi e di provare a convivere consapevolmente con tutto questo!
L'enfasi posta sulla fine nella comune rappresentazione sociale dell'Aids (ma anche da parte di alcuni settori del volontariato) rischia di fare del tempo da vivere solo ciò che precede la morte, quindi una sorta di preliminare rispetto all'unico evento rilevante e significativo. Vivere, a quel punto, è esclusivamente procedere a testa bassa o a testa alta verso il buco nero dell'annientamento, e tutto ciò che rimane da fare è prepararsi alla morte.
Alcuni malati possono di conseguenza essere tentati di superare la paura di morire sfidando la morte, cioè cercando di controllare la propria morte con un "gioco" di anticipo (qualche volta con larghissimo anticipo). C'è chi vive perciò come se fosse costantemente sull'orlo del precipizio, facendo tutti i giorni le prove del tracollo e forzando gli altri nel ruolo di infermiere, assistente o becchino.
Quel che per diversi aspetti è fisiologico nella malattia invalidante, cioè il disinvestimento progressivo della realtà esterna, diventa per alcune persone sieropositive una modalità abituale di difesa anche in condizioni di relativo benessere. Si assiste ad una più o meno rapida riduzione del metabolismo esistenziale, con blocco dei moti vitali, delle emozioni e dei sentimenti, poiché la gran parte delle energie è concentrata nel lavoro di auto-imbalsamazione e di "fissazione" dell'entourage.
Le azioni principali sono volte a prevenire cambiamenti e novità per non essere colti alla sprovvista di fronte alle sole evenienze attese, quelle negative; il resto è considerato deviazione dall'unica meta certa e necessaria. Ogni cosa e persona deve dunque essere al suo posto, immobile in un luogo o in una funzione, rendendo il panorama e l'ambiente di vita abituali noti in ogni dettaglio, prevedibili e previsti. La morte sarà soltanto l'ospite di riguardo lungamente atteso e finalmente giunto.
Non va dimenticato, per altro, che nell'Aids non si ha a che fare con un'infezione acuta, breve e decisiva. Al contrario si assiste al verificarsi di una successione di insulti all'identità fisica della persona e il malessere diviene qualcosa con cui ci si accompagna continuamente e per anni.
Non è la morte istantanea e improvvisa che gran parte degli occidentali contemporanei auspica per sé, né la morte che sopraggiunge nell'arco di un breve periodo di limitata sofferenza. Lo scrittore Hervé Guibert (1991) l'ha enunciato molto lucidamente: “Certo era una malattia inesorabile, ma non era fulminante, era una malattia a pianerottoli, una lunga scala che portava sicuramente alla morte, ma di cui ogni gradino rappresentava un apprendimento senza pari, era una malattia che dava il tempo di morire e che dava alla morte il tempo di vivere, il tempo di scoprire il tempo e di scoprire finalmente la vita”.
A sua volta, il regista Derek Jarman ha sottolineato l'importanza nella malattia della consapevolezza del tempo a disposizione per prepararsi alla morte. La continuità della coscienza della propria mortalità e della precarietà di ogni certezza, nel corso di un lungo periodo, per anni, giorno dopo giorno, determina una situazione esistenziale del tutto eccezionale, in cui vivere è camminare su un filo teso nel vuoto: restare in equilibrio è in sé mezzo e fine.Di converso, spesso è inapplicabile nell'Aids la definizione di malattia terminale o di stadio terminale, se non in circostanze particolari.
Questo comporta sovente un accanimento eziologico e terapeutico dissimulato, un interventismo mascherato da tutela della vita in quanto ogni giorno in più di sopravvivenza è un tempo utile per i progressi della ricerca scientifica: potrebbe sempre sopraggiungere la terapia risolutiva, sia per la guarigione che per la remissione. I malati di Aids sono in questo senso superficie di intervento ideale per una medicina bellicosa e maternamente aggressiva.
La persona si confronta di continuo con infezioni opportunistiche, tumori, malattie e con una notevole quota di sofferenza cronica, che va al di là del problema del far fronte all'idea della morte o al processo del morire.
Nell'Aids è molto difficile trovare una collocazione equidistante tra il polo del moto cieco e afinalistico (vitalismo frenetico che pretende di intensificare le percezioni e le emozioni) e il polo della quiete fatalistica (rassegnazione fino all'immobilità e alla marcescenza).C'è molto dolore quindi associato all'Aids in termini fisici, psichici, morali e, non ultimo, ontologici per via del fenomeno di proiezione collettiva.
La realtà sociale va contro la possibilità dell'adattamento e della convivenza, richiedendo semmai che i malati spettacolarizzino il loro stato rendendolo pornografico (eccitante). È la vivisezione in diretta. Si chiede che qualcuno si offra per poter mostrare che anzitutto i malati esistono e sono "visibili", e in secondo luogo che essi soffrono in maniera spaventosa, oppure che, nonostante tutto, conservano "verve" e "savoir faire", sono cioè "disinvolti", secondo l'ultima immagine di malato di Aids proposta dalla televisione.
La forte specificazione dell'Aids porta pure ad una possibilità di intensa connotazione personale della malattia e della morte: è la mia malattia, questa è la mia morte. Ne risulta una caratterizzazione che conferisce o può conferire identità. Quel che Rilke già all'inizio del secolo lamentava come perdita, cioè la scomparsa della morte “autentica", storicizzata e ricca di soggettività, pare poter tornare a verificarsi nel caso dell'Aids. Si tratta infatti di una morte inserita in una vita determinata: si muore allora secondo come si è vissuto.
Qualcuno ne ha fatto e ne fa un'occasione di vanagloria, mitomania a rovescio o narcisismo reattivo; altri hanno cercato e cercano di usarlo per affermare una coerenza esistenziale alla luce di categorie culturali o ideologiche (la gloria del paria, la diversità come lievito artistico); altri ancora vi hanno trovato e vi trovano una opportunità di identificazione costruttiva e positiva.
Proprio dalla cura di sé nella malattia "diversa" parte perciò il lavoro di recupero del senso della propria storia e dei propri vissuti: l'amore di sé e della vita come doni irripetibili. Ne può originare un percorso di individuazione che ricapitola il passato e inaugura la realizzazione di sé nel presente.
A quel punto si può articolare la ricerca di percorsi autentici per vivere come persone con Aids, districandosi nella giungla dei luoghi comuni e dei prodotti televisivi, degli abusi sociali e persino filantropici. Per alcune persone, in particolare se giovani e supportate da una attitudine all’idealismo, le componenti narcisistiche della personalità possono essere poste al servizio di una causa superiore anche in mancanza di prospettive di guarigione.
Il malato può allora ritenere in qualche modo "accettabile" il sacrificio della propria vita inquadrandolo nel contesto di una battaglia di portata sociale e di alto valore morale. In tal caso, è possibile pensare di morire sul fronte di guerra e la malattia può apparire come una prova da affrontare per contribuire alla lotta del bene contro il male, nella speranza di aiutare altri malati e la comunità a sostenere il confronto con la minaccia alla vita. In quanto situazione stra-ordinaria, caratterizzata da tensione emozionale e morale, risulta realizzabile ciò che altrimenti sarebbe solo ipotizzabile da un punto di vista teorico.
Gli effetti di un certo tipo di solidarietà sono stati davvero straordinari, soprattutto nel Nord America e nel Nord Europa. Qualcosa si può trovare anche in Italia e Milano è stata, almeno in parte e per un certo tempo, una piccola "oasi" ove si è sperimentato il tentativo di "capacitare" le persone con Aids, cioè renderle in grado di assumere la propria condizione in maniera consapevole ed esplicita.
Si è trattato di applicarsi meticolosamente e severamente, in maniera carbonara, cioè di nascosto, senza riflettori e senza squilli di tromba, al lavoro sull’identità. I diritti sociali, sanitari, civili sono importanti, ma in qualche modo “ovvi", il vero diritto dimenticato e che richiede il maggior aiuto è proprio quello dell'identità sul piano esistenziale.
Sovente gli interventi per tutti gli altri aspetti dell'Aids sortiscono l'effetto di mettere a tacere l'esperienza delle persone coinvolte. Per esempio, si pensa in genere che i malati di Aids abbiano bisogno di case alloggio. Eppure, le comunità si rivolgono solo ad alcuni malati, che, oltre a costituire una fascia molto ristretta numericamente, rappresentano anche i soggetti più svantaggiati dal punto di vista famigliare, economico, sociale. Essi dunque non rappresentano le persone con Aids, che vanno al contrario pensate come soggetti "normali".
Tale pensiero, infatti, sarebbe vantaggioso per la stessa società, dal punto di vista sia operativo che culturale. Occorre pensare che l'Aids riguardi persone "normali", cioè non fuori dal gioco, inserite in contesti familiari comuni, dotate di cultura e capaci di realizzazione professionale; in pratica, bisogna concepire l'Aids come una condizione che potrebbe riguardare "chiunque". Non fosse altro perché questo è il futuro dell’Aids, se è vero che il contagio eterosessuale costituirà la modalità principale di diffusione dell'infezione nei prossimi anni.
Converrebbe allora ragionare in anticipo sugli sviluppi dell’epidemia, abituandosi a pensare che l'Aids riguardi una persona "comune" e non l'emarginato o chi ha bisogno di sussidi e comunità di accoglienza, e questo anche a livello sociologico e sul piano della programmazione dell'assistenza sanitaria, ma soprattutto dal punto di vista "umanitario".
La società potrebbe così guardare all'Aids come ad un'occasione di umanizzazione e gli stessi malati potrebbero costituire un serbatoio e un patrimonio di umanità per tutti: illuminando i valori fondamentali ed essenziali dell'esistenza. La filosofia dell'auto-aiuto potrebbe di conseguenza estendersi a livello comunitario contrapponendosi alla corrente impostazione individualistica e narcisistica.
Le persone dovrebbero in questa ottica essere incoraggiate e messe in grado di costruire un'immagine di sé comprensiva della debolezza e del limite, arrivando a decidere di intervenire su di sé e sulla realtà in modo responsabile, ricercando anche l'aiuto degli altri, anzi, riscoprendo il senso della condivisione e dello scambio sul piano esistenziale. Da questo punto di vista, si può dire che il lavoro fatto negli scorsi anni è stato indirizzato anche a dare una patria alle persone con Aids espropriate di un luogo e di un territorio, estromesse dal consorzio umano che rifiuta malattia e morte.
Tali persone hanno bisogno di ritrovare se stesse e la propria identità, e contemporaneamente di recuperare e conquistare l’appartenenza, diventando membri di una "comunità", di un popolo che abita una patria ed elabora una specifica cultura. A livello internazionale ciò è molto evidente in relazione ai "riti di lutto" affermatisi via via nelle realtà più colpite dall'Aids: le fiaccolate commemorative e la coperta dei nomi, per esempio. In tal modo, viene ribadito che le persone con Aids "appartengono" a qualcuno.
I morti di Aids, infatti, non possono essere nominati perché altrimenti i familiari possono patirne conseguenze, e se vengono enumerati è solo per essere meglio archiviati o per sfruttare i numeri a fini epidemiologici o economici (la corsa ai finanziamenti!). Sono morti che non possono essere rivendicati, non si può dire: questo è mio fratello, è il mio amante. Le coperte, allora, testimoniano che ci sono stati calore, intimità, affettività, in una parola c'è stato e c'è un mondo intorno alla persona malata, non si è trattato e non si tratta di individui isolati e ciascuno per proprio conto.
Occorre, d'altronde, guardare con occhi aperti la questione della malattia da vivere tra le mura domestiche. Spesso si tratta di una morte "anticipata" proprio a causa del confinamento nell'angustia familiare, spacciata per recupero degli affetti che contano. Ben strano progresso per un individuo adulto morire tra le braccia della famiglia di origine!
Ovviamente le stesse associazioni di volontariato possono non assolvere al compito di offrire una ospitalità o una patria morale. Le associazioni sono fatte da e di persone, pertanto vi si ritrovano diverse impostazioni e concezioni dell'uomo. Dietro la "solidarietà", è naturale, si nascondono molto opportunismo e negazione dell’uomo.
Del resto, chi si avvicina all'esperienza dell'Aids lo fa per un "interesse" personale che dovrebbe venire sempre esplicitato, rifuggendo dall'altruismo generico e vago della retorica sulla bontà. Chi si occupa di Aids deve offrire la garanzia di una concezione dell'uomo e della solidarietà, cioè dei valori che motivano e sostengono le scelte in questo campo.
Per quanto riguarda i malati, sono rari i casi di persone che riescono a rendere anche visibile la vivibilità conquistata, ma ne esistono anche in Italia e molto vicino a noi. Sono queste le persone con cui è possibile, volendo, il dia-logo.
Naturalmente se si accetta di entrare in intimità con un altro essere pensante, che è la forma più difficile di intimità interumana: confrontarsi con l'altro come persona che pensa e non ha smesso di riflettere su di sé e sulla realtà, che intende vivere intensamente la propria esperienza fino in fondo: "la mente lucida e arzilla, ma il corpo che cade a pezzi - una nuda lampadina in una stanza altrimenti buia e in rovina" (Derek Jarman, Blue).
Con un essere pensante è possibile solo un rapporto paritetico, in cui lo svantaggio che impedisce la parità per il malato è trasceso e reso secondario. L'accompagnamento significa allora essenzialmente essere presente e rendere possibile qualcosa. Consci della situazione di svantaggio (il limite, la regressione e il bisogno) dell'altra persona, si tratta di favorire il recupero e l'individuazione delle sue risorse. L'altro si riappropria di quel ha già, non viene riempito dall'esterno.
È la stessa differenza che passa tra educazione ed insegnamento. Nell'educazione si opera nell'ottica dell’estrazione, si lascia che emerga dal soggetto quanto è presente in lui di valido, si lavora per consentire all'altro di esprimere la sua piena umanità.
Ciò naturalmente non può avvenire in base ad uno schema rigido posseduto dall'educatore, semmai chi sta accanto può fungere da "esempio''. Non si mira a produrre "copie", bensì a rendere ciascuno diverso, unico e irripetibile. Proprio l'opposto dell'indottrinamento, che vuole tutti uguali, ripetitivi, simili nella vita come nella morte.
Un'educazione così concepita presuppone una filosofia di accompagnamento e una concezione della persona, che spesso sono assenti anche in chi opera nel volontariato e nell'assistenza. L’individuo possiede magari molte informazioni di tipo tecnico, nozioni e modelli astratti, ma non lavora sul piano dell'elaborazione personale.
Un canone di umanità è fondamentale, il sommo bene per l’uomo, come ha scritto Karoline Von Gunderrode, è l'umanità, cioè la moralità; mentre per la dimensione animale il sommo bene coincide con la salute, la conservazione di sé e la riproduzione. Sul piano spirituale, infine, dovremmo poter sviluppare il rapporto con l'infinito.
Chi non possiede un'idea personale di umanità, non può incoraggiare altri a ritrovare la propria umanità, in genere fa il contrario, lavorando per ingabbiare, inscatolare, ridurre. Ne derivano i malati tipici, i diseredati tipici, e via dicendo. Si impedisce in tal modo la diversificazione e si ostacola la conquista dell’autonomia, che può coesistere anche con la mancanza di autosufficienza materiale. In pratica, nell'assistenza si riproduce la situazione del rapporto genitore-figlio. Se il genitore si sente capace e "potente", facilita l'autonomia del bambino, se si sente impotente o non realizzato, lo controlla e gli impedisce l’autodeterminazione.
La persona malata è costretta a regredire dalla invalidità e viene mortificata nella sua libertà fisica (quella animale del possesso del mondo, della terra percorribile), tanto che Hervé Guibert ha potuto dire in un suo libro che la perdita della lontananza è un tratto distintivo della malattia inguaribile. Diventa essenziale lo spostamento verso l’interiorità, volta al recupero della libertà metafisica, così come nella vecchiaia l'uomo passa dal rapporto con il mondo esterno e dalla logica dell'avere al rapporto col mondo interno e alla filosofia dell'essere.
D'altra parte, c'è da chiedersi se sia poi così importante arrivare "composti" o "scomposti" al momento dell'addio alla vita. La dignità non è meglio applicata e spesa nella vita piuttosto che nella morte?! Se si tratta di far fronte agli ultimi anni di vita, tanto varrebbe dare il meglio di sé alla vita e il peggio alla morte (che non può avere la peggio). Occorrerebbe riuscire a vivere come se si dovesse durare per sempre e al contempo si potesse morire entro dieci minuti.
Le persone con Aids possono, se supportate, percorrere questa strada. Il contesto che rende possibile un simile evento va in effetti creato; altrimenti si verificano solo casi eccezionali di "accettazione", presto archiviati anch'essi.
A livello sociale vanno creati spazi in cui lavorare all'elaborazione dei temi della sofferenza, della malattia e della morte, per riprendere a farli circolare fra la gente. L'imperatore Adriano, nell'omonimo romanzo di M. Yourcenar, dice: “Il lutto è assimilato oggi a una incontinenza, a una dissolutezza grossolana; si ammette di piangere la morte di qualcuno, ma a patto che ci si consoli abbastanza in fretta”. Ciò vale anche per noi, visto che non è più permesso di "portare il lutto" onorevolmente e non si viene più accompagnati nel processo del cordoglio.
È molto importante invece capire che siamo di fronte a fenomeni naturali ed essenziali per l’uomo, che affondando le radici nella sfera evoluzionistica e nella biologia. Il cordoglio è un processo che si dipana nel tempo, richiede tempo e passaggio attraverso fasi consecutive a livello emozionale, affettivo e cognitivo. Alla grande e diffusa sofferenza relativa a questi ambiti è ormai invalso l'uso di rispondere con la medicalizzazione.
È veramente grave e assurdo che alla sofferenza si risponda con le pillole, che la depressione e il dolore conseguenti a una perdita affettiva vengano curati con gli psicofarmaci! Anche questa è una forma spaventosa di espropriazione dell'esperienza e di deprivazione dell’uomo.
Dobbiamo considerare che l'ansia e la depressione si sono evolute nel corso dello sviluppo della specie come risposte di adattamento all'ambiente per aumentare le possibilità di sopravvivenza.
Pertanto, sopprimere un'emozione sgradevole adatta alle circostanze (piangere e soffrire per la morte di un congiunto è naturale), significa impedire alla persona di trovare una modalità di adattamento. Non è un caso perciò che si verifichi un incremento di disagi psicologici e di disturbi psichiatrici correlati a tali fenomeni, cioè all'impossibilità di elaborare le perdite e le separazioni.
Non esiste una cultura della relazione, non esiste una "educazione sentimentale", cioè ai rapporti interpersonali. Proprio per questo occorrerebbe promuovere l'educazione relazionale e non quella sessuale, che costituisce un aspetto importante ma non prioritario dei rapporti interumani. Le relazioni dovrebbero essere oggetto di riflessione e approfondimento: come ci si unisce e come ci si separa, su quali basi, su quale modello culturale, con quali significati.
Su tali tematiche oggi non c'è lavoro a livello comunitario, mentre si promuove solo la scomparsa dei segnali di sofferenza in pubblico. È il caso del lutto, le cui manifestazioni esteriori sono importanti anche per il contesto, poiché comunicano l'esigenza di un sostegno esterno e di una riduzione delle richieste/aspettative altrui riguardo al soggetto che ha patito una perdita. Chi è in lutto vive una crisi di presenza, essendo abbarbicato al passato e a chi non è più, e necessita di un ambiente adatto che favorisca gradualmente il reinvestimento della realtà.
Chi ha perso una persona cara ha bisogno di esprimere delle emozioni non camuffate e non contraffatte. Per esempio, dopo una prima fase di "stordimento" in cui sembra che non sia accaduto nulla, l'individuo sperimenta una intensa aggressività che ha anche fondamenti biologici e istintuali. L'aggressività è un modo di reagire alla perdita che si inscrive nella storia evolutiva della specie, in quanto l'essere soli espone al rischio della predazione.
La perdita della "figura di attaccamento”, secondo la definizione di J. Bowlby, attiva una risposta istintiva per certi aspetti ingenua, in quanti l'aggressività mobilitata dalla separazione mira al recupero e alla restaurazione del legame anche quando è evidente l'impossibilità del "ritorno" del congiunto.
Qualunque separazione comporta l'emergere di una forte aggressività il cui destino dipende da molteplici fattori interni ed esterni all’individuo. Molte operazioni vengono compiute nel tempo per evitare di prendere atto dell'avvenuta separazione e dell'irreversibilità della perdita, al di là della valutazione razionale dei fatti.
Le persone che stanno accanto sono di grande importanza nel percorso di rielaborazione, se accettano e accolgono le emozioni e i vissuti contraddittori del soggetto in lutto. Ci sono questioni e argomenti di cui è necessario parlare proprio nell'ottica di un progressivo reinvestimento del presente, quale preludio a una nuova e autentica progettualità.
Tali bisogni sono ancora più evidenti laddove, come nel caso dell’Aids, la perdita avviene per una grave malattia, con un lungo periodo di sofferenza e di assistenza a tempo pieno. Spesso una persona in particolare, e comunque più degli altri, è coinvolta nell'assistenza fino in fondo. Le resta perciò, dopo la morte del congiunto, un bisogno quasi inerziale di impegno costante, di assiduità.
Per questo motivo alcune organizzazioni di volontariato richiedono che sia trascorso almeno un anno da una perdita, prima di ritenere possibile un'attività assistenziale verso altri malati. In effetti, potrebbero esserci troppi motivi personali per continuare a restare in una situazione i cui contenuti non sono stati elaborati.
Il volontario in tal caso continuerebbe a vivere nel passato, senza poter affrontare la nuova esperienza. Non si può dare quel che non si ha, sicché, non ci si può reinvestire in una relazione nuova, se non si è ancora usciti da quella precedente.
Tutti questi contenuti andrebbero fatti circolare nella quotidianità, quindi anche al di fuori dei contesti scientifici o didattici. Dovremmo, dobbiamo parlare delle perdite, di cosa è un legame, di come ci si avvicina agli altri, eccetera. Di fatto, ci si può legare a un altro essere umano, solo se si accetta di potersene separare. Una relazione paritetica si fonda sulla separatezza e sulla consapevolezza della possibilità della perdita.
Si tratta di promuovere una cultura di vita, non una cultura accademica, in modo che le persone non siano abbandonate a se stesse o alla mercé della società dei consumi. L'umanità va "educata" e noi possiamo coltivare il nostro livello di umanità, soprattutto oggi che rischiamo di venirne espropriati.
In principio sono necessarie delle isole, delle riserve o oasi protette, da cui partire poi per promuovere una nuova coscienza a livello comunitario. È fondamentale un impegno sul terreno della fiducia nella capacità di confronto con il dolore e la mortalità. Freyberger ha scritto che il morire dovrebbe diventare concepibile come l'ultima crisi della vita che, al pari di quelle precedenti, aumenta la coscienza di sé e la consapevolezza della realtà. In quanto tale, la crisi finale può risultare non solo una sfida, ma anche qualcosa che vale la pena di vivere: un'esperienza che può incrementare il senso di realizzazione umana della persona.
Ciò è reso possibile solo da un contesto che accetta e non nega sofferenza, sentimenti, vissuti. Il che non vuole dire che bisogna prospettare una verità accecante, ad ogni costo, in maniera roboante e sistematica. Significa invece operare per creare un "ambiente" in cui può divenire plausibile e praticabile la convivenza consapevole, in cui la fiducia nelle proprie capacità di confronto con la realtà può trasformarsi in un dato di fatto. Partendo dall'idea della possibilità di essere persone con Aids, si può agire per caratterizzare tale condizione come un'arte o come un lavoro, a tempo pieno naturalmente; un tempo tutto da giocare e da spendere, durante il quale si può accettare di arrendersi all'idea della perdita del Sé (la paura fondamentale dietro la morte) e, cessando di opporsi a questa perdita, acquisire la logica del "tutto da guadagnare". Si assiste così al realizzarsi di piccoli nuclei di persone che con-vivono, anche nel senso di vivere insieme, con l’Aids, cercando strategie di sopravvivenza morale ed elaborando in quanto gruppo ritualità di accompagnamento. L'esperienza dei singoli, se viene potenziata, diventa storia e si trasferisce in una cultura, attraverso un linguaggio e un’iconografia specifici. È qualcosa di simile a quanto riferito da Oliver Sacks a proposito del suo incontro con i non-udenti: “prima di conoscerli li chiamavo sordi e ne avevo una concezione puramente medica, poi li ho chiamati Sordi (con la S maiuscola), perché sono un popolo”. Sono in gioco quindi un’identità, una dignità e una cultura che vanno riconosciute e rispettate, anche facendo in modo che la convivenza con condizioni difficili sia possibile. La situazione sociale creatasi intorno all'Aids ha portato, in effetti, anche ad una reazione al tentativo di rimozione e negazione di temi esistenziali nella cultura moderna. Proprio le persone malate hanno consentito il ritorno del "rimosso" e grazie alla umanizzazione del loro stato hanno umanizzato la società. Non è idealismo tutto ciò, benché corrisponda in particolare soltanto ad una minoranza di malati. È fondamentale che qualcuno lavori affinché questo possa accadere. Tutti abbiamo bisogno che qualcuno creda in noi, prima di poter credere in noi stessi. Lo scopo di ogni uomo è realizzare se stesso, trovando e articolando le proprie parole, qual è il proprio posto nel disegno generale, la propria voce nel coro. C'è bisogno di credere che l'Aids sia un'esperienza umana vivibile. Se ci si crede, prima o poi si constata la "comparsa" nel proprio ambiente di persone che riescono ad affrontare consapevolmente l'Aids e poi, talvolta, a farsi portavoce di un messaggio umanitario a livello sociale. È un grande rivolgimento anche questo: che i malati non solo e non tanto vogliano discutere dei trattamenti medici, ma vogliano soprattutto apportare elementi culturali e spirituali per arricchire la società cui appartengono e che pure non li ha sostenuti nella ricerca di un'identità e di strategie di convivenza. Siamo tutti più ricchi perciò, pur senza saperlo. La normalizzazione in atto da qualche tempo del fenomeno Aids, tuttavia, ha tra le altre conseguenze anche la riduzione degli aspetti di idealità e di valenza culturale della malattia, correlati all'impatto sulla società nei primi anni dell'epidemia. Chi vorrà morire in battaglia in tempo di pace?! Morire in tempo di guerra, per quanto tragico e terribile, è più comprensibile e ha più senso del morire in un'epoca di pace e persino sfacciato benessere. Nel momento in cui l'Aids non è più una sfida da raccogliere sul terreno dei valori e dei significati antropologici, diventa molto difficile creare le condizioni favorevoli ad una connotazione etica e sociale dello status di malato di Aids. Trovare motivazioni personali per abbracciare "la causa” dell'Aids appare già oggi quasi sconveniente, forse grottesco e anche un po' da "stupidi". Morire pubblicamente di Aids potrà presto sembrare un anacronismo, come accettare una decapitazione in piazza: non c'è da aspettarsi di far bella figura. Il malato di Aids della seconda metà degli anni novanta rischia di essere solo un malato come tanti, che ha poco da dire sul piano esistenziale e forse è addirittura conveniente che taccia, divenendo potenzialmente ancor più responsabile di avere una malattia sempre più “prevenibile". La burocratizzazione e la professionalizzazione del volontariato, d’altra parte, producono banalizzazione e retorica, facendo della solidarietà un contenitore le cui opache pareti impediscono di rendersi conto dell'assenza del contenuto, qualcosa quindi che vale quel che sembra e vale perché sembra. Per fortuna, mai niente va perduto. "né entrate né uscite, ora nessun bisogno di necrologi o giudizi universali sapevamo che il tempo sarebbe finito dopodomani all'alba abbiamo lavato i pavimenti e pulito perbene la cucina non ci avrebbe colti impreparati" (Derek Jarman. Blue ) Mattia Morretta (1995)