Prevenzione umana, troppo umana Sito Web Omonomia, 2007
Le mitologie del progresso scientifico e sociale ci si ritorcono contro come un boomerang? Cosa vuol dire nel XXI secolo “prevenire”?
Lungi dal mirare a scongiurare infermità più o meno gravi, e dall'ingaggiare una lotta senza quartiere contro i limiti biologici, credo si dovrebbe puntare ad intendere la prevenzione come forma postmoderna di educazione civica, cioè il processo mediante il quale si può pervenire ad assumere una responsabilità partecipativa del proprio agire, comprendendone non solo le conseguenze psicofisiche personali ma anche le interrelazioni con l'agire altrui e le ricadute sulla società.
Per questo trovo la concezione della “salute” propagandata dall'OMS assurda e fuorviante: può esistere un diritto dell'individuo al benessere a 360 gradi? Garantito e pagato da chi? E per quanti cittadini di serie A?
Comunque sia, la prevenzione implicherebbe, più che un punto di partenza di non compromissione, un orizzonte temporale, la prospettiva di un cammino a tappe, un'idea complessiva del vivere e non un approccio al momento o per il momento.
In questi anni stiamo constatando ove sia giunta la frammentazione della comunità e della vita umana, che ha reso ciascuno un'entità a sé staccata dalle altre nonostante i legami formali e informali, perché oramai è accettata persino la dis-integrazione della fisicità individuale (benché occultata dalla retorica del buon trapianto).
Sicché, l'evoluzione storica che ha portato alla valorizzazione della soggettività esita nell'involuzione della oggettivazione sino alla reificazione (non siamo che macchine biochimiche intercambiabili e manipolabili), nella quale l'uomo è uno strumento ed è possibile l'assemblaggio dei pezzi di cui è composto per scopi “sociali”. Trionfa di nuovo la massa, pur se a rovescio e nell'interesse generale.
Quando si ha il coraggio di interrogarsi sulla prevenzione, si apre una cascata impetuosa di questioni in sospeso: cosa si può veramente prevenire? Chi può farlo davvero? Non ha forse ragione Samuel Butler quando scrive in Così muore la carne: “Ognuno ha una certa quantità di cattive azioni da compiere e da espellere prima di poter agire meglio”? Perché tutti gli equilibri sono a termine, in ognuno di noi c'è una successione di Io egemoni nelle differenti età, e ogni fase o ciclo di identificazione va esaurito.
Quali indicatori e variabili possediamo, nonché strumenti, per modificare gli schemi di condotta basati su pulsioni o “istinti”? C'è qualcosa d'altro al di là della paura a farci desistere astenere fermarci in tempo? Si può annullare il “pericolo”, se è vero che il suo significato profondo rimanda alla prova, al tentativo, al saggiare l'ambiente (tant'è che l'alternativa è tra peritus e imperitus)?
Non è vero che, come in una poesia di Kavafis (Fine), mentre vagheggiamo scampi al rischio certo, veniamo presi alla sprovvista da un'altra rovina, inattesa e imprevista? O che “Passioni fatali sono ovunque, / e non c'è scampo dai destini” (Aleksandr Puškin, Gli zingari)?
Per quale motivo e a che scopo un soggetto dovrebbe tentare di mutare consuetudini associate ad appetiti, circuiti biochimici o a facili gratificazioni? Che ruolo hanno temperamento, costituzione, predisposizioni? Non sarà che tutto rafforza i forti e indebolisce i deboli?! L'errore è veramente fonte di apprendimento? Lo sviluppo di un essere vivente non deriva forse da appropriate inibizioni più che da sperimentazioni?
Nella sessualità agiamo dando espressione a un programma o copione interno oppure ci apriamo e votiamo all'esterno? E gli altri (amici, amanti, medici, psicologi) che ruolo hanno nella “prevenzione” dei nostri incidenti/accidenti sessuali?
È ancora credibile che sia l'ignoranza del bene a far perseverare nel male? Se conosciamo o conoscessimo il bene, lo facciamo o faremmo? In verità, come ha notato tra gli altri Tolstoj, le peggiori efferatezze vengono compiute per o sotto effetto di entusiasmo morale. E allora? Dobbiamo lasciare l'errore dov'è, lasciar sbagliare chi si fa del male o ne fa ad altri? E cosa fare con coloro che non chiedono niente (né di essere aiutati né di essere curati)? Le istituzioni e quanti operano nel campo della salute devono intervenire per limitare i danni alla collettività (secondo criteri di spesa e fondamentalmente finanziari) o per soccorrere i singoli sperduti e in bilico?!
La psicologia apre davvero prospettive o si limita a spiegare in modo convenzionale e opinabile, o addirittura a giustificare l'inevitabile? Aumentare la percezione del rischio è più efficace della punizione e della proibizione? Repressione pedagogica, squalifica morale, svalutazione sociale sono metodi “superati” di contenimento e controllo nella nostra era cibernetica e tecnocratica? Cosa ci offre la cultura odierna in cambio? La farmacologia, le psicoterapie, la sanità di stato?
Le religioni e le scuole di pensiero filosofico possono giocare un ruolo analogo a quello del passato in una società massificata?! La disciplina può ancora essere insegnata, a chi e da chi? La falce della morte e i rigori della legge sono gli unici deterrenti per gli uomini senza qualità? Conta di più la salvezza o la guarigione, l'integrità umana o la salute psicofisica? I pericoli e i guasti temibili sono soltanto materiali e fisici? Nel remoto passato non si ricorreva all'idea dell'inferno (post mortem e per l'eternità) per tener conto delle altre dimensioni sottese all'agire umano?
Ci si impegna a “cambiare” per sfuggire a un male o per non perdere un bene? Si tenta seriamente di modificare una condotta per evitare patologie e per non morire, o piuttosto per liberarsi (magari illudendosi) da dipendenze schiavitù vizi abitudini malsane, quindi per amore di libertà o per vivere meglio?
Se l'azione e persino l'inazione ci proiettano irreparabilmente nella catena mondana delle cause ed effetti, non è più opportuno far riflettere sull'assunzione di responsabilità, commisurata alle capacità e alle circostanze? Quando la “trasgressione” e l'ebbrezza del vivere pericolosamente diventano fenomeno di massa, rimane possibile rintracciare un significato individuale nel mettersi alla prova?
Come ignorare che l'umanità è composta di tutti i tipi di uomini, compresi quelli che sfidano le regole civili, godono rischiando, sfregiandosi e mutilandosi, contagiano e depredano, etc. Cosa si può “eliminare” del patrimonio umano? Poiché il male va riconosciuto quale polo dialettico, proprio per non omaggiarlo surrettiziamente o inconsapevolmente, in che modo ridurlo o frenarlo?
Qualche commento viene allora spontaneo sulle iniziative attuate negli scorsi anni nelle scuole medie inferiori e superiori sul tema Hiv. L'unico vero risultato prodotto sembra l'aver fatto breccia nel mondo emotivo e fantastico dei più sensibili. Chi ha tenuto "lezioni” e “dimostrazioni” pratiche non ha considerato che la paura vissuta prematuramente, prima di poter concepire (con facoltà intellettive adeguate) la sessualità, porta alla prevalenza del pensiero magico sulla razionalità.
Immaginare di dover “lottare” o “difendersi” dall'Hiv aprioristicamente e in astratto, anni prima della oggettività e in assenza di valorizzazione dell'intimità, può fare solo danni. Perché gli “studenti” medi sono per lo più essi stessi oggetti e non soggetti.
In mancanza di un'impostazione pedagogica e culturale viene perciò amplificata l'emozionalità (terrori, posizioni difensive elementari e rigide, rifiuti e rimozioni totali), compromettendo la formazione di difese più articolate e flessibili.
L'alternativa sarà tra il farsi trascinare dai timori ad occhi chiusi e il fidarsi ciecamente del potere del nozionismo, quindi tra una schiavitù interna e una dipendenza esterna. Le conseguenze peggiori riguardano talune personalità predisposte (impressionabili e suggestionabili), cioè quanti non sanno soprassedere, ignorare, negare, archiviare “le cose dei grandi” in attesa di prenderne visione al momento opportuno e di farne esperienza.
Mobilitatisi per una battaglia irreale, avendo temuto il baubau o l'uomo nero, non riconosceranno il vero pericolo in carne ed ossa o con la maschera fuorviante del caso umano con cui solidarizzare. Educare, pertanto, comporta una riflessione su cosa non dire, quando dire, perché e con quale finalità, più che con quali modalità.
Ci sono consapevolezze e risorse che maturano progressivamente: non si può possedere a 20 anni la visione della vita che si conquista a 40, compresa la compiutezza morale. Nel rapporto con i giovani noi possiamo evocare con maggiore o minore convinzione una coscienza futura, suscitare il desiderio di una padronanza di sé a venire, attingendo alla dote antropologica universale.
La spensieratezza giovanile va vissuta per poter accedere alla autentica serietà dell'età adulta, ed ogni periodo storico ha i suoi divertimenti e le sue topiche dell'arte di temprarsi. Fare, però, del capriccio e dello “sballo” gli unici scopi ed interessi della giovinezza è deviare lo sviluppo dell'esemplare umano e garantirne l'infantilismo cronico (a vantaggio dei mercanti e dei populisti?!).
Dobbiamo perciò imparare ed insegnare a selezionare all'ingresso le informazioni, farci promotori di una paradossale “ignoranza” volontaria che separi il grano dal loglio, mirando a creare un filtro interno protettivo (un vero e proprio scudo), perché maggiori dati e mezzi tecnici non corrispondono a conoscenze più elevate, anzi mettono in crisi inutilmente il sistema, chiamato ad ordinare e integrare troppi input al di là della loro utilità e della loro attendibilità.
Come ha scritto Elias Canetti: “Oggi non sapere troppo è una questione di pulizia dello spirito” (La Provincia dell'uomo), e, poiché non siamo computer, ciò che più ci serve nel viaggio dell'esistenza è una buona bussola, fatta di criteri personali, piedi per terra e umiltà. Anche per il fenomeno Aids vale l'invito a stimolare il ragionamento affinché non ci si assoggetti al dettato altrui, a riconoscere i punti deboli, ciò che ci rende vulnerabili ed esposti, indipendentemente dall'Hiv, incoraggiando un lavoro di accettazione dei limiti soggettivi e di potenziamento delle risorse per farvi fronte.
L'aiuto più impegnativo di fatto è quello a pensare, a formare impalcature critiche e formulare giudizi, rafforzando quel “principio direttivo” interiore che Marco Aurelio ha tratteggiato nei Pensieri: l'essere umano capace di facoltà giudicante (“ecco ciò che sei in realtà”) e di facoltà operativa (“proprio te cercavo”), che aspira a fare di ogni evento, favorevole o avverso, materia di consapevolezza e virtù. Nella prospettiva di farsi carico di se stessi eppure guadagnare in levità.
Mattia Morretta, Omonomia, aprile 2007