Tutelare la condizione umana nella società del benessere
Nell'ultimo secolo si è via via imposto una sorta di "maternage" sociale, in stretta relazione con il miglioramento delle condizioni materiali di vita e l'estensione del benessere in Occidente, e ciò aiuta a capire molti dei fenomeni attuali di insensatezza e indifferenza relazionale.
Se si incoraggia una realizzazione di sé verso il basso, che privilegia aspetti infantili della personalità, non si può pretendere al contempo maturità e rispetto delle regole civiche.
Infatti, c'è poco da illudersi: i "mostri" della cronaca sono gli stessi ragazzini innocenti esaltati dalla propaganda consumistica, capaci di efferatezza perché è stata vietata loro un'uscita o per ottenere più soldi.
Del resto, anche l'enfasi sulla vita sentimentale e sui bisogni emotivi manifesta il prevalere di un'impostazione regressiva dei ruoli parentali.
L'autoritarismo paterno aveva il difetto di non saper dire sì, il permissivismo materno invece non sa dire no, non sa somministrare frustrazioni. Il modello paterno vedeva nella natura qualcosa da dominare e controllare perché la considerava perversa, una potenza da soggiogare e incanalare.
Al contrario il modello materno si fa travolgere, si fa riempire, rispecchia e si compiace proprio di quello di cui dovrebbe avere terrore, cioè del disordine, del caos, dell'eccitazione, oppure dell'inibizione, dell'apatia e della depressione.La madre si compiace nei propri figli, nei fanciulli o nei ragazzi degli aspetti che di fatto garantiscono la necessità della continuità del ruolo materno.
Il permissivismo, giustificando tutto, autorizza pur senza capire veramente, dato l'eccesso di vicinanza emozionale. Quando non si pone sufficiente distanza nella relazione, la visione risulta alterata. Si impone il rispecchiamento reciproco, si verifica un raddoppio del narcisismo dei genitori in quello dei figli.
Così, mentre non si rinuncia al proprio narcisismo, si porta all'estremo anche quello di coloro che vengono dopo. Si incoraggia nei figli tutto il narcisismo che non si è potuto sviluppare pienamente, ma senza autentica rinuncia.
Fino a qualche tempo fa era normale pensare che molte delle aspirazioni personali a un certo punto venissero gettate alle spalle o proiettate in avanti sui "successori". Oggi questa operazione non sembra più necessaria, sicché si può proseguire nel percorso cosiddetto di autorealizzazione, in pratica inseguendo le proprie fantasie di onnipotenza e di narcisismo.
Ciascuno continua anche da adulto a credere di essere al centro del mondo e di aver diritto a ogni genere di gratificazione, senza dover conquistare credibilità o dover dimostrare la propria "utilità" per il genere umano. Di conseguenza, trionfano l'egocentrismo e l'individualismo culturali, trasmessi insieme al patrimonio genetico ai discendenti.
Non si possono "generare" persone, se non si diventa persone, e non si può certo accompagnare altri a diventarlo.
Per fortuna, il mondo è più vasto della cerchia familiare e bisogna avere il coraggio di chiamare con il loro nome la meschinità di tante relazioni parentali. Non a caso M. Yourcenar ha scritto che gli affetti famigliari "per lo più non sono che mancanza di rispetto" (Fedone o della Vertigine, Fuochi).
La famiglia assolve veramente il suo compito solo se prepara o predispone la formazione di individui che sappiano porsi in relazione ad altri esseri umani nella società. Se l'amore parentale è superiore all'amore per il prossimo si assiste per forza di cose a una caduta della socialità.
Se nessuno "ama" l'umanità, se nessuno si mette in relazione significativa con gli esseri umani esterni all'ambito famigliare, il prossimo scompare.I più si occupano solo della piccola confraternita in cui viene soddisfatto il bisogno di appartenenza e di vincolo, senza dedicare né energie né pensiero alla più vasta comunità.
Oggi viene incoraggiata la tendenza di ogni familiare a preservarsi, perché anche su scala più allargata vi è la riproduzione di un meccanismo narcisistico: ciascuno si specchia nel mondo ponendo allo specchio le domande puerili della fiaba: Chi è il più bello, il più bravo, il più forte, il più ricco del reame?
La realtà viene coperta da illusioni e da sogni, perché si desidera evitare la presa d'atto dei fondamenti oggettivi ed universali dell'esistenza. Si richiede l'autorizzazione a fare i propri comodi e ad attuare le fantasie di grandezza, delegando agli esperti il compito di sistemare qualche giocattolo rotto, di intervenire quando proprio le cose sfuggono di mano, quando non si sa più a che santo votarsi e il malessere, o il senso di vuoto o di angoscia (nonostante tutti gli status e le cose che si possiedono) si fa sentire.
Lo scrittore norvegese J. Gaarder dice che la vita è una lotteria in cui tutti i biglietti sono vincenti. Il fatto di essere venuto al mondo è di per sé un biglietto vincente, poiché nel corso dei millenni l'evoluzione della specie ha già portato all'estinzione di chi non doveva o non poteva procedere.Pertanto anche là dove ci siano piccoli elementi di "valore", esiste comunque un capitale, esiste comunque un grandissimo potenziale.
Naturalmente ciò ha un significato del tutto diverso dall'uguaglianza pretestuosa del presente, il cosiddetto "egalitarismo" che ci vorrebbe tutti uguali dal punto di vista della potenza. Ognuno costituisce una potenza finita dato che nessuno uomo possiede una potenza infinita. Le risorse sono limitate, ma non sono tutte uguali e uguali per tutti. La democrazia di massa invece garantisce il trionfo della mediocrità e non potrebbe essere altrimenti.
La società del benessere diffuso estende i benefici ma non moltiplica i talenti. Un certo grado di impoverimento culturale e di disordine è strettamente connesso con la redistribuzione del potere nelle periferie sociali. Ne risente pure l'identificazione dell'individuo, che non è più motivato o forzato a strutturare un centro dentro di sé, ma pensa a se stesso in termini di aspetti parziali e periferici: sono ciò che vuole la mia pancia, la mia pelle, il mio sesso.
Viene meno perciò il processo di acquisizione di un' identità profonda e di conseguenza anche lo sforzo di realizzazione e di massimizzazione delle risorse tenendo conto dei limiti.
Se al disordine sociale si assomma il disordine individuale, ci si può forse aspettare che esistano poi ordine, organizzazione, costruttività?! Molti filosofi e pensatori sostengono che non esiste altra salvezza che l'etica individuale.
È impensabile garantire una vera morale "di massa" ed è finito anche il tempo delle esclusive potenti appartenenze ideologiche.D'altronde, gran parte dell'etica di gruppo si tramuta in alibi per impedire ai singoli di responsabilizzarsi individualmente.Il modello potrebbe essere quello dell'etica pagana, che non si impone a tutti e non è universalistica, ma richiede al soggetto di scegliere volontariamente di diventare sovrano di se stesso, di porsi il problema dell'auto-governo, della conoscenza delle proprie parti basse e delle componenti primitive.
Ciò può avvenire naturalmente tenendo conto della complessità del nostro contesto rispetto ad altri momenti storici. Noi abbiamo in termini di massa il problema che un tempo riguardava l'aristocrazia governante, perché tutti gli occidentali sono "regnanti" con un potere spropositato in rapporto all'effettiva potenza e alle occasioni educative.
Non possiamo fare finta di niente o millantare credito: se tutti vogliono essere "re", devono meritare di esserlo e i singoli vanno aiutati a strutturarsi come nazione, come popolo, a diventare capaci di autodeterminazione.
È esattamente il contrario di quello che viene fatto attualmente, perché tutti i figli del benessere vengono incoraggiati a liberare le loro componenti regressive o le loro richieste di gratificazione, senza pensare alle limitazioni e senza rendersi conto che agli altri viene imposto il ruolo di "strumenti" (qual è il loro "valore d'uso"?).
Non abbiamo altra via d'uscita, se non quella di riconoscere cosa sta accadendo e tentare di resistere all'incantesimo del mercato onnipotente. Nonostante i vantaggi e i comfort della società del consumo, l'impalcatura della realtà è quella di sempre e adattarvisi rimane il compito di ogni membro della specie.
La nascita di un essere umano rinnova la necessità della sfida di adattamento all'ambiente, che impone di spendere tutte le risorse proprie dell'essere, senza risparmio; in particolare nell'epoca dell'adolescenza che è il momento cruciale del debutto: o ce la si fa oppure tutto è perduto.
Attualmente moltissimi genitori hanno paura che i figli non ce la facciano, o meglio destituiscono di senso le prove. Essi mettono in dubbio la necessità della lotta: perché bisogna riuscirci? Perché bisogna provare la sofferenza, riconoscere l'importanza dell'autonomia, della solitudine, dei limiti dell'uomo?
Si danno da fare per evitare persino le domande, credendo di poter alleggerire il carico esistenziale dei loro figli, in nome di un pretestuoso amore che è anzitutto amore per se stessi. Se si amassero i propri cari, non si cercherebbe di evitar loro quel che è indispensabile.
Dobbiamo essere consapevoli del fatto che solo ciò che si considera necessario diventa possibile. Tanto è vero che solo situazioni eccezionali, come la guerra e la malattia mortale, provocano la "ricomparsa" delle facoltà di convivenza col dolore, di coscienza di sé, di confronto con i limiti.
La questione oggi è semplice: perché fare un progetto di sopravvivenza nel deserto, quando tutti possono stare comodi in poltrona nel loro salotto?! Anche chi ammette che la realtà è diversa da quella rappresentata, è portato ad optare per la vita sulle nuvole proposta con tanta seduttività. A chi importa che l'individualismo cieco destrutturi la rete sociale, quindi impoverisca l'umanità, annullando la trasmissione culturale?!
Per fortuna, possiamo nutrire la speranza che, nonostante i tempi bui, ad ogni nascita risorga la possibilità di identità umana, indipendentemente dai fattori ambientali contingenti. C'è qualcosa che vale sempre la pena di "tramandare" : l'importanza della tutela della fragilità della vita.
Forse, l'unica cosa che è davvero indispensabile per la coscienza umana è il senso del valore dell'esistenza, indipendentemente da ciò che ha dato a ciascuno. Operare tale scelta significa di per sé "essere salvi"; è già mettersi a riparo e non aver più bisogno di alcuna consolazione.
Per arrivare alla meta, si tratta di guardare con i propri occhi la realtà per quello che è, oltre tutti i paludamenti, dietro tutte le stratificazioni del presente e della socialità. La società stessa consta di una vera e propria struttura (organizzazione comunitaria della vita umana) e di una serie di sovrastrutture e stratificazioni secondarie di interdipendenza.
Oggi la componente primaria è addirittura contraddetta dai modelli di pseudo socialità o socialità simulata. Ci illudiamo di poter vivere di rendita, dell'impalcatura e delle fondamenta storiche, senza dover contribuire ulteriormente e anzi potendo destrutturare a piacimento.
Sempre più ci si rifugia nel piccolo eden della vanità in cui la terra serve come palcoscenico e gli uomini sono come coreografia in quanto proseliti della religione dell'uso e consumo.
L'imperialismo edonistico saccheggia e disbosca il mondo delle relazioni umane incurante degli effetti a lungo termine e con un ritmo che diviene via via più incalzante.
Troviamo una esemplificazione straordinaria di ciò nella situazione descritta da Simone Weil nell'opera Venezia salva, che tratta della congiura degli spagnoli per impossessarsi di Venezia nel 1618. Uno dei congiurati improvvisamente "vede" la città con i suoi abitanti, e da quel momento non può più assecondare il progetto distruttivo e omicida, e deve per forza denunciarlo e denunciarsi al consiglio dei Dieci. La città è salva grazie ad un gesto di attenzione pura, pagato in prima persona.
Se vogliamo proteggere la realtà, dobbiamo accettare di non scaricare all'esterno la nostra sofferenza, diventando capaci di soffrire dentro di noi.
Per non manipolare, abusare, distruggere la vita, dobbiamo diventare consapevoli del potenziale distruttivo che esiste nel rapporto tra noi e gli altri, tra noi e la società, tra noi e la realtà. Dobbiamo smetterla di consolarci idealisticamente con la "bontà" della nostra umanità o delle nostre illusioni. La gran parte della gente infatti si dice: "ma che male fa sognare? Se voglio essere felice, che male faccio agli altri e a me stesso?!". Sognare fa molto male.
Più ci si illude, più si fanno sogni diurni che adulterano i riferimenti del mondo oggettivo. Lawrence d'Arabia ha scritto: “coloro che sognano di notte scoprono, al risveglio, la vanità di quelle immagini, ma quelli che sognano di giorno sono uomini pericolosi, perché può darsi che recitino il loro sogno ad occhi aperti, per attuarlo”.
Quanti oggi sono disposti a tutto pur di realizzare il loro "sogno"? non importa quante persone rischino di venire calpestate lungo il percorso, né che la realtà venga fatta a pezzi, ciò che conta per loro è continuare a sognare. Le illusioni costano moltissimo, soprattutto perché accumulano debiti e distruzioni, e perché deprivano della capacità di assumere la sofferenza su di sé.
La sofferenza che non si assume su di sé la si distribuisce a piene mani agli altri, non c'è alternativa. Il circuito del male vive di questo, del continuo passaggio dall'uno all'altro nell'alternanza subìto/agìto. Soltanto fermando la sofferenza su di sé e soffrendo in prima persona si dà concretezza all'assunzione della propria responsabilità. Per farlo, però, è necessario un ''soggetto", qualcuno che accetti il pagamento del debito pur in solitudine, cioè senza aspettare che lo facciano anche gli altri.
Siamo arrivati al punto che, per fare "bella figura", dobbiamo evadere e mostrarci irresponsabili. L'esistenza diviene sempre più "superficiale" e i rapporti più "approssimativi", come sostituire il mare con una piscina. Ci si imbarazza di usare la lingua "estinta" dei messaggi sostanziali e di non conoscere il linguaggio della modernità.
Possiamo certo apprendere i nuovi alfabeti del computer e degli strumenti tecnologici, ma non è questo il punto. Fra gli uomini la comunicazione fondamentale rimane "stabile" nei secoli, perché riguarda la struttura portante dell'identità di essere umano: le sue domande e i suoi problemi nel confronto con i limiti, con le risorse, con il senso dell'esistenza e della morte.
La finitezza e la vulnerabilità dell'uomo rimangono i nodi che giungono al pettine di ogni vita umana. Non c'è uomo che non debba passare di qui, anche se dichiara di essere interessato soltanto alla "superficie" e agli status symbol della "leggerezza" (l'ultimo modellino di telefonino piuttosto che il turismo sessuale).
Le varie "tentazioni" nel deserto cittadino sono tutte deviazioni dalla meta. E noi che cosa facciamo di fronte all'inquietudine, se non tentare di sopprimerla, se non narcotizzarci e narcotizzare gli altri? Offriamo pillole per non sentire quel poco che veramente andrebbe sentito e sofferto per crescere, per fare quel "passo" senza il quale tutto il resto è inutile.
L'efficacia di un linguaggio apocalittico, tuttavia, è di breve durata. La maggior parte delle persone, che pur concordano sulla "decadenza", ritorna poi compiaciuta e soddisfatta a un sistema di vita che fa dell'evasione dalla realtà un punto fermo e persino una sorta di contro-valore.
La crescita sul piano umano non è ritenuta sostanziale, perché importa solo la realizzazione sulla sottile striscia superficiale dell'attualità, che garantisce il diritto alla libera gratificazione. In particolari momenti di commozione, o sotto l'effetto di una malattia o di una difficoltà, siamo capaci di simulare un pentimento o una resipiscenza riguardo ad aleatorie esigenze spirituali.
Di fatto, regnano la disumanità e la stupidità. C'è da fare a gomitate tutti i giorni per mantenere la rotta, anche contro corrente; per non rendersi complici dell'impostura; per non cedere alla pressione sempre più insistente a firmare il contratto di accesso ad uno degli oramai innumerevoli paradisi artificiali.
D'altronde, la maturità impone proprio la cessazione di ogni appoggio esterno, poiché, come recita la massima orientale, "l'essere si basa solo su se stesso".
Mattia Morretta testo originale in "L’erba voglio: la realtà saccheggiata dalle illusioni" Conferenza 3 marzo 1997, Liceo Scientifico Leonardo, Milano Pubblicato col titolo “La civiltà del disagio” in Una Città, n. 61, agosto-settembre 1997