L’erica in fiore e le cime tempestose di Emily Brontë
• L’erica in fiore e le cime tempestose di Emily Brontë - Umbria Green MagazineUna ragazzina tutta sola che canta vecchie canzoni, dondolandosi tra i rami di un ciliegio, mentre osserva le pecore che brucano nella brughiera e tende l’orecchio a un’aria gentile che sfiora l’erba. Così Virginia Woolf descrive Emily Brontë a un secolo dalla sua nascita, attribuendole il raro dono di liberare la vita dai fatti, trascendere la realtà e suggerire la spiritualità sì da rendere inutile il corpo. Un’ambizione titanica di andare oltre l’io individuale, per lanciare un grido a nome dell’intera razza umana di fronte alle potenze eterne:
Più felice sono quando più lontano posso portare la mia anima dalla sua casa di creta in una notte ventilata in cui la luna splende e il mio occhio può spaziare tra mondi di luce
Quando non sono e nessuno è accanto né terra né mare, non cielo sgombro di nubi ma solo spirito completamente vagante attraverso infinita immensità (n. 45, 1838)
Il suo diretto interlocutore è l’universo, con leggi inflessibili e senza mediazioni, ma oneste e affidabili, a differenza di quelle degli uomini, che in ogni epoca si inginocchiano davanti a Dio e venerano la malvagità, spergiuri e adoratori del crimine, pronti a calpestare verità e giustizia.
In Cime tempestose è la Natura a generare e modellare i personaggi, inseparabili dall’ambiente rigido e inospitale, addolcito solo dalle distese colorate e profumate dell’erica in piena fioritura. Nel dialetto dello Yorkshire, difatti, wuthering è il suono del forte vento quando passa sopra i tetti, quell’aria gelida che favorisce un’esistenza letargica, fa ammalare chiunque e può uccidere.
Le stagioni e i fenomeni meteorologici occupano la scena alla pari, tanto è vero che il romanzo è rubricato tra le opere di narrativa che più danno spazio al paesaggio, in sé stesso contenuto letterario. Finanche il linguaggio usato è selvatico e nodoso, come una radice rivestita di muschio. La parola primavera ricorre venticinque volte, inverno ventitré, estate ventidue, la fattoria sulla collina è circondata da miseri abeti e roveti, deformati e con le braccia protese a elemosinare un raggio di sole.
I protagonisti, espressione dei caratteri duri e scabrosi della comunità rurale, appartengono più al regno naturale che al consorzio civile. I loro nomi sono espliciti: Heathcliff vuol dire roccia coperta di erica, Hindley sentiero di cervo, Hareton lepre. I rapporti sono caratterizzati da franca aggressività e spietato egoismo, digrignar di denti e scontri senza esclusione di colpi alla stregua di belve feroci. La sessualità è assente e non per pudore vittoriano, perché dietro la stessa patina di incestuosità si intravede un’estraneità ai legami interpersonali, il riferimento agli accoppiamenti tra animali o alle “nozze tra maggio e il suo giovane amante, giugno” (come scrive Emily in una poesia del 5 marzo 1844).
L’amore è passione misteriosa e inquieta, simile all’attrazione che solleva la marea verso la luna o spinge l’acciaio contro il magnete. La pace è possibile giusto per i defunti, come sulle tombe di Cathy e Heathcliff, col cielo benigno, le falene che svolazzano tra le campanule. Per i loro figli, tuttavia, sembra possibile trovare un paradiso nei mesi estivi: per il piccolo Linton è stare sdraiato in una giornata di luglio in mezzo alla landa, sotto l’azzurrità e la luce incontrastata; per la piccola Catherine è cullarsi tra le fronde di un albero con la brezza che spira da occidente, bianche nubi luminose che passano rapide.
Brontë è un’autentica “figlia della tempesta”, memore di quella alla quale ha assistito impavida a sei anni, con esplosione di torba e inondazione. Il suo genio si rivela appieno nella produzione poetica, semplice e immediata come le parabole evangeliche, frutto di un’immaginazione che dalla fanciullezza dell’anima giunge dritta al cuore.
Nei drammatici componimenti il respiro vitale del pianeta è una sorta di compagnia delle buone opere che dà conforto e soffia via lo sconforto oppressivo. La psiche con i suoi incubi e tormenti, i sensi di colpa e i pensieri vili, può venire bonificata e acquietata, la visione dell’orizzonte infinito e la carezza delle correnti aeree allentano i morsi della tensione, sedano il pianto irrefrenabile.
Sfumato il senso di totale e irrimediabile sventura, ci si ritrova liberi e ci si meraviglia di contemplare ancora il perenne fondale di bellezza del creato. Così, il passato può essere una mite sera d’autunno, il presente un verde ramo fiorito dove un uccello posa e trae forza per riprendere a volare, il futuro un mare abbagliante e glorioso.
Tra l’autrice e il mondo fisico c’è “simpatia”, le cose piangono, tu piangi, la neve scende sulle foglie cadute in autunno, ma torneranno a vivere, il loro destino e il nostro è il medesimo, non può essere altrimenti, perciò dobbiamo proseguire il viaggio senza scoramento. Il semplice spettacolo di armonia e sacralità di ciò che è intorno a noi ci dà ali per volare ad alta quota, fa rinascere la sensibilità artistica, offre doni gratuiti e impagabili, l’equipaggiamento necessario per far buon viso alla sorte: È calma e immobile quasi tetra
così assoluta la solitudine
ma pure amo indugiare qui
e accordare il mio umore a quello della natura Quando il cielo sorride con amore e luce
e la terra corrisponde con abbagliante vivacità
in un simile scenario, in una notte così
le creature terrestri non dovrebbero accigliarsi
(n. 147, 20 agosto 1842). Mattia Morretta (aprile 2021)