Il noviziato della parola rosa carne Moderato cantabile sul saggio di Sara Durantini L’evento della scrittura
• Il noviziato della parola color rosa carne - Umbria Green Magazine“In me l’emozione immediata non è mai occasione di lavoro. L’emozione deve invecchiarsi, infingersi da sola, con il tempo, senza che sia io a infingerla”. Così Kavafis, che si definiva “poeta della vecchiaia”, in un’annotazione datata 8 aprile 1929. Frasi che si adattano all’ispirazione di Durantini quasi come un abito su misura.
In principio c’è la memoria, garante naturale dell’identità personale e sociale, residenza protetta dell’affettività e dell’apprendimento, ben espressa dalle due varianti ricordare e rammentare. In queste pagine è visiva e fotografica, a tratti pittorica, scenografica negli intermezzi e nei raccordi tra capitoli, probabili tracce di un romanzo rimasto nel cassetto.
Il timbro è intonato e giovanile, evocativo delle aule e dei cortili di un antico ateneo emiliano, il che spiega la struttura di tesi accademica ingentilita dalla precoce vocazione narrativa. Si intuisce che l’impianto è stato concepito molti anni fa da una ventenne con la giusta dose di ambizione, dotata di una razionalità lucida ma sovente intralciata e guidata dall’emotività, ansiosa di rivelazioni su di sé e sulla dimensione spirituale. Come direbbe Cristina Campo: “Due mondi - e io vengo dall’altro”.
In tal senso si può parlare di “libro di recupero”, per parafrasare il testo, una ricerca del tempo perduto riprendendo il filo logico di pensieri ineludibili. Le amate francesi (Colette, Duras, Ernaux) sono state memorizzate in modo indelebile proprio perché lette in una stagione di estrema permeabilità e plasmabilità. Figure dunque di formazione, intuite nel complesso con precisione, benché forse non comprese del tutto. Non a caso i loro scritti risultano graditi al palato e divorati avidamente, registrazione fedele di un’assimilazione viscerale preliminare alla condensazione nel cervello.
All’origine si colloca una colta e solitaria signora straniera, una professoressa originaria del sud della Francia, che pur con maniere un po’ brusche crede in Sara e le indica la via da percorrere. Simile a un personaggio di romanzo d’appendice, la docente sparisce all’improvviso per tornare dalla madre malata, lasciando in università un biglietto che è un vero mandato: leggere Annie Ernaux e trovarsi nelle sue pagine (“ti restituirà a te stessa”). Viene in mente ciò che per Roland Barthes è fondativo dell’investimento amoroso: “Ditemi chi devo desiderare”.
Tale substrato e l’età anagrafica dell’autrice rendono ragione dell’effetto di parziale miopia sul contributo delle sorelle maggiori, perché lo sguardo è più paritario che non dall’alto della piena maturità, ma gli elementi ci sono tutti per dire che con “gli anni” la visione sarà più nitida. La studentessa nell’ideale certosa di Parma non esiste più, è proustianamente un Io di ieri, tuttavia ridiventa attuale mediante ricordi e vissuti. La ragazza di allora fa capolino, prende lo spazio e ruba la scena, nel labirinto di specchi le fisionomie si susseguono, sovrappongono, confondono. Sono quindi quattro le protagoniste e quella in copertina sotto i lampioni lungo la Senna è inequivocabilmente Madame Duran(tini).
Non si può non notare che le madrine d’oltralpe sono state donne pubbliche, che molto o troppo hanno dato a vedere, sospinte da ferite narcisistiche nell’arena sociale, con una scia brillante di comete che non annulla le loro zone d’ombra. Ineguali per valore e posizione nella cultura universale, tanto da far presumere che sarà la voce di Colette ad avere più lunga eco, grazie alle radici nella Belle Époque, nel tramonto dell’assoluto che ha preceduto la condanna all’egotismo nel secolo breve.
Scrittrici altresì tipiche e connotate, portate in palmo di mano da una Francia che con la grandeur e lo sciovinismo sa come rendere Regine le sue Marianne. Certo, penne di qualità accomunate dall’amore per le parole color rosa carne e dalla passione fisica messa nero su bianco. L’evento proclamato nel titolo, del resto, non è l’autobiografia, bensì la volontà di ri-vivere scrivendo, servendosi di accadimenti privati resi significativi e comunicativi, e di con-vivere nella storia di una comunità e di un’epoca.
Va detto che l’elogio dell’originalità ed eccezionalità della triade, resa trinità laica, rischia talora il soggettivismo e l’agiografia, santificando anche ciò che sarebbe opinabile o non edificante. Perché la saggistica, a differenza della letteratura, ha un intrinseco orizzonte etico, cioè un senso civico e non solo figurato. In ciò gioca un ruolo il piacere definito smisurato, immenso, commovente, il vissuto di pienezza che trabocca, dovuto al coinvolgimento totale, la contentezza del parto dopo una gravidanza tenuta segreta, perché le tre gemelle nascono da una immedesimazione che si fa identificazione sedimentata nel profondo.
Un appunto può riguardare l’aura psicoanalitica di parecchi passaggi, che risente di una conoscenza indiretta. A cominciare dal fatto che il seme della teoria freudiana viene gettato proprio a Parigi, ove Sigmund Freud si reca, tra l’ottobre 1885 e il febbraio 1886, con una borsa di studi per seguire un corso sull’ipnosi di Jean-Martin Charcot. Dell’insigne clinico Freud traduce difatti in tedesco le lezioni sulle malattie del sistema nervoso, e un decennio dopo, nel 1895, pubblica insieme a Josef Breuer i notissimi Studi sull’isteria, che danno ufficialmente il via alla inquietante “novità” della psicoanalisi, vocabolo usato per la prima volta nel 1896.
Il testo sembra d’altronde procedere per libere associazioni, tornando circolarmente sugli stessi nodi problematici, corsi e ricorsi della frustrazione nel legame con la madre, giochi proibiti nel giardino d’infanzia con spine taglienti e crudeli. Sicché il discorso fluisce scivolando sulla cresta dell’onda e in superficie, la scrittura “corrente”, per parafrasare l’autrice, dà un’intensa soddisfazione sfuggente, è trasparenza il cui baluginio non fa vedere attraverso e non esclude un fondale sabbioso.
La parola levigata rimbalza sull’acqua e genera cerchi concentrici, poi svanisce in un esito ammantato dal dubbio, intenta a cogliere l’attimo fuggente accetta spesso di perdere l’essenza. Qua e là la lingua appare medianica, ispirata dalle personalità evocate in seduta spiritica, dettata dal subconscio; altrove è onirica, come i sogni che ricordiamo e che richiederebbero intervento della coscienza per essere integrati nel processo di autoregolazione della psiche.
Un palese merito del saggio è che costituisce un esercizio riuscito di “calligrafia” e di cura dell’espressione nell’attualità di analfabetismo e gergalità, la dittatura del non verbale e della fruibilità immediata o irriflessiva. Tra tanti improvvisatori del fraseggio, sedicenti esperti, pensatori di terza mano e riciclo web, conforta sapere che c’è chi si dà da fare, si ingegna e s’impegna per capire ed elaborare con la propria testa, offrendo agli altri il frutto migliore di un lavoro silenzioso e nascosto. A dispetto di “professori”, baroni e consorterie di potere che dominano l’industria editoriale. Ed è ancor più lodevole perché l’intelligenza delle donne soffre come e più del cuore, patisce l’inedia e la carestia di princìpi nutritivi, è una facoltà che aspira a venir utilizzata e finalizzata nell’interesse generale e non familistico.
Al di là delle tesi e delle interpretazioni sulle scrittrici e le loro opere, Durantini dà perciò il buon esempio del percorso in salita della preparazione sulle “sudate carte”, da cui deriva il diritto ad aver voce in capitolo con cognizione di causa, non per clientelismi o concessioni politiche, anteponendo la materia grigia alle quote rosa.
Non ultimo, incoraggia una via di realizzazione più riservata e artistica, che si potrebbe riassumere nell’ammonizione di Voltaire a conclusione del Candide: Il faut cultiver notre jardin. Dopo aver pagato pegno al mondo esterno, ci si mette in salvo dedicandosi a ornare e abbellire l’interiorità, la sfera dell’immaginario e del pensiero, da condividere nelle affinità elettive.
Mattia Morretta, 23 aprile 2021