L'Aids e la striscia di futuro del passato
Un’occasione per riflettere sui primi anni dell’era Aids Intervista a cura di Mario Anelli Babilonia N. 73, Dicembre 1989
Com’è cominciato l’impegno dei gay contro l’Aids in Italia?
Nel 1983 le notizie di stampa definivano l’Aids come “cancro gay” e questo ci aveva enormemente impressionato. Allora non avevamo un’esatta cognizione di cosa fosse in gioco, tuttavia era già presagibile il carattere straordinario dell’evento e delle sue conseguenze.
D’altronde, il primo caso di Aids in Italia ha coinvolto un omosessuale, per diverso tempo il problema della tossicodipendenza è stato sottovalutato, sicché anche da noi sono stati gli omosessuali i “portatori” della malattia, se non dal punto di vista epidemiologico, almeno da quello sociale e culturale.
Quali sono stati gli interventi e come si sono evoluti?
La prima risposta è stata di tipo difensivo, contro il fango che veniva gettato con l’alibi di qualche caso o di un’epidemia americana. Si sentiva il bisogno di fare chiarezza in alternativa alla confusione e alle istigazioni giornalistiche, tanto è vero che l’iniziativa costitutiva dell’ASA è stata un centralino telefonico d’informazione.
Il contatto con gli utenti ci ha dato la misura sia dello spavento e dell’ignoranza, sia della presenza reale di persone coinvolte nel problema. Da qui la necessità di superare una reazione solo politica e di tentare una risposta ai bisogni reali.
Si è scelto così di credere nella possibilità di organizzare in proprio dei “servizi”, sull’esempio dei gruppi stranieri, senza aspettare che qualcun altro lo facesse per noi. La scommessa è stata puntare sull’auto-aiuto, cioè dare una risposta autonoma al bisogno poiché l’Aids era una crisi che richiedeva prese di posizione non procrastinabili.
Scegliere di agire in prima persona non è indolore né facile. Significa anzitutto responsabilizzarsi nella propria vita privata, non solo portare messaggi agli altri, ma assumere l’Aids come problema personale. Un conto è difendere i diritti civili e un altro lavorare per migliorare l’esistenza dell’omosessuale e soccorrerlo come persona concreta e non come soggetto sociale.
Milano è la città più omosessuale d’Italia, la “capitale gay” e anche la capitale dell’Aids. C’è stata da parte dei gay una risposta sufficiente, ti aspettavi di più?
Sì e no, nel senso che non ho mai aspettato che gli altri facessero qualcosa per me, al mio posto, ma ho pensato a cosa potevo fare io per poi chiedere agli altri di accompagnarmi nel percorso.
Certo, di fronte alle potenzialità e al numero di coloro che avrebbero potuto assumersi qualche responsabilità in merito, la partecipazione è davvero minimale, meno di così non si potrebbe. Anche se credo esista una sorta di saturazione dell’impegno per i gay che gravitano attorno ai gruppi politici, in cui esauriscono le loro disponibilità.
D’altra parte, si fanno i conti con la difficoltà di generalizzare l’intervento, perché il volontariato su un problema così particolare comporta la messa in discussione e la ridefinizione dello stile di vita. In un certo senso, la fiducia che abbiamo guadagnato presso molti omosessuali rischia di tramutarsi in un ostacolo, perché consente a parecchi di sentirsi autorizzati a delegare.
Ma l’aiuto può essere differenziato. Per esempio, io sono ecologista e sostengo economicamente il WWF e la Lega antivivisezionista, dato che non posso occuparmene direttamente; bisognerebbe diffondere questo tipo di cultura anche nell’ambiente gay, cioè il riconoscimento e il sostegno di coloro che lavorano per il comune interesse.
Una specie di credito fiduciario: chi decide di non poterlo fare, aiuta altri a farlo in vece sua a certe condizioni. Invece, è sempre imbarazzante chiedere supporto nei locali gay, in quanto si avverte il rifiuto verso la tematica Aids vissuta come portatrice solo di valori negativi. I più continuano a vedere l’Aids come una notte oscura di incubi e una maledizione, per cui l’intervento degli attivisti è sentito come persecutorio.
Che tipo di omosessuali si sono rivolti in questi anni all’ASA?
Coloro che richiedono assistenza domiciliare sono ovviamente fra i più svantaggiati, selezionati dal bisogno socio-economico. Vastissima, invece, per i frequentatori dei gruppi di auto-aiuto la gamma di estrazione sociale, retroterra culturale, orientamenti politici, nonché di motivazioni.
Anche dal punto di vista della condotta siamo di fronte a esperienze molto diverse: chi vive in condizioni di soddisfacente monogamia e chi, pur non avendo preso coscienza della propria identità gay, vive con dignità senza sentire il bisogno di frequentare il cosiddetto ambiente.
Ancora, soggetti con una vita sessuale molto promiscua caratterizzata da impersonalità e anonimato, per alcuni dei quali non si è trattato di una “scelta” semplicemente perché non ci sono alternative. L’interessante è stato riuscire a radunare tutti attorno allo stesso tavolo.
Quindi parlare di sieropositività ha portato anche a parlare di omosessualità?
Certamente, tanto è vero che una delle scelte cruciali è stata la formazione di gruppi con delle specificità ulteriori rispetto alla sieropositività (donne, ex-tossicodipendenti, omosessuali) per favorire la comunicazione e omogeneizzare i linguaggi. Il contesto in cui l’infezione è stata acquisita, mentre individua l’appartenenza a un “gruppo” a rischio, cioè a un insieme di soggetti che condividono un’esperienza, apre anche la strada all’integrazione dell’evento sieropositività nella personalità.
Parlare di sieropositività è sempre parlare di persona sieropositiva, di chi è, in cosa ha creduto, quale stile di vita ha condotto, in quale direzione si muove. Anche quando si è malati si è in primo luogo persone, con una storia, dei valori, una fede, delle illusioni, dei limiti e delle risorse.
Enrico Barzaghi è stato la scorsa estate eletto vicepresidente dell’ASA. Che significato ha questa decisione?
Diciamo che è stata una delle maggiori soddisfazioni vedere come, nel tempo, il lavoro messo nell’incontro umano con le persone sieropositive ne conquistasse lentamente la fiducia; fino alla possibilità di andare oltre un semplice gesto di solidarietà, facendo spazio effettivamente all’auto-aiuto e al protagonismo dei diretti interessati.
Enrico è arrivato in una fase in cui avevamo bisogno di tale salto di qualità: poter esprimere una rappresentanza delle persone sieropositive, attribuendo loro un potere decisionale nell’Associazione. Era ed è importante che possano esercitare una funzione di controllo e di vigilanza sull’attività delle organizzazioni in modo che non si operino scelte controproducenti per loro.
È il caso, per esempio, dell’ultimo pieghevole prodotto dalla provincia di Milano in collaborazione con la LILA (“sieropositività non è diversità”): pur con l’intenzione di tutelare i diritti di chi è sieropositivo, si è finito da un lato per connotare soprattutto la diversità e dall’altro per avvalorare un atteggiamento sottilmente discriminatorio, in quanto si creano le condizioni per cui è necessaria l’esistenza di emarginati affinché alcuni facciano politica su di essi.
Il nostro obiettivo, invece, è sempre stata la persona Hiv-positiva e con Aids, relegando la politica al ruolo di strumento. Abbiamo privilegiato la solidarietà.
E in effetti non esiste altrove un punto di riferimento così importante e concreto per le persone sieropositive. Gay ed eterosessuali qui sanno di potersi ritrovare per informarsi, leggere, discutere, in un luogo che consente di approfondire le tematiche relative alla sieropositività, trovare sostegno nei momenti di confusione e fragilità, tessere una rete di rapporti amicali.
Infine, sanno di potersi organizzare e lavorare per sé e per gli altri, anche se sono pochi coloro che possono arrivare a dedicare una parte della loro vita all’attivismo sull’Aids. Il messaggio straordinario che oggi persone come Enrico portano avanti, se non esistesse l’ASA, non avrebbe mai trovato voce o acquisito il significato sociale che attualmente possiede.
Una delle cose più discusse di questo periodo è l’opuscolo che hai scritto, “Dire Fare Baciare, il sesso al tempo dell’Aids”, in particolare il paragrafo sulla castità come scelta. Cosa rispondi?
Dovrei rispondere con un’enciclopedia! Mi fa sorridere l’idea di essere “noto” solo per questa posizione, quasi disconoscendo tutto il resto. Credo esista una certa malafede nelle critiche rivolte a tale opuscolo, che del resto ha radici interne alla realtà del mondo omosessuale.
In parte è in gioco un atteggiamento difensivo a livello emozionale, poiché uno degli aspetti più temibili della crisi Aids è la sollecitazione al cambiamento, la richiesta di modificare il proprio comportamento sessuale, riguardo al quale i gay sono molto più confusi di quanto si creda. La coscienza della sessualità nel mondo gay è più presunta che effettiva. Per i più la sessualità non è stata oggetto di una riflessione che ne abbia fatto un’espressione della personalità. La reazione contro l’idea stessa della castità mi pare manifesti il disorientamento di chi non riesce a individuare in quale direzione possa andare il mutamento in atto o richiesto e teme che qualcuno dall’esterno ne approfitti. Si pensa che il singolo gay sia incapace di operare scelte in campo sessuale, il che corrisponde in parte a una percezione reale, nel senso di una certa involontarietà della condotta. Ma ciò autorizza a maggior ragione a operare affinché sempre più persone possano scegliere il tipo di espressione sessuale a loro più congeniale, comprendendo nel ventaglio di opzioni pure la castità. Altrimenti si incoraggia una concezione fatalistica della vita sessuale, che riflette soprattutto la paura della responsabilità individuale (cioè “quanto dipende da me?”). D’altronde, il problema è trovare modalità attuali di affermare l’omosessualità nell’era dell’Aids. Non è detto che debbano essere sempre le stesse le sue espressioni nella storia. L’ASA era nata per supplire alle carenze delle strutture sanitarie pubbliche. Cosa è cambiato in questi anni? Il nostro obiettivo non era solo “supplire” ma anche agire in parallelo all’istituzione. Tuttavia questo è praticamente inevitabile dato che i servizi pubblici non hanno ancora organizzato una risposta seria al problema. Va ricordato che persino gran parte del lavoro svolto nell’istituzione è dovuto a persone collegate a realtà sociali private. La nostra opera è di continua pressione sull’amministrazione comunale e sulle Ussl affinché strutturino un’attività di assistenza domiciliare e si faccia strada il concetto di “accompagnamento psicologico”, che vuol dire tener conto delle dinamiche emozionali delle persone dal momento in cui decidono di sottoporsi al test. Dell’ASA fanno parte anche professionisti, cioè medici, psicologi, assistenti sociali. Questo è un punto di forza da un lato. Non potrebbe però rappresentare una difficoltà per l’affiliazione di altre persone? Ritengo non esista un problema del genere, se non a causa di una cattiva gestione. La presenza di personale qualificato è stata davvero un elemento che ci ha contraddistinto. Tuttavia è vero che la materia prima sono i volontari, persone “comuni” che scelgono di andare incontro a chi vive l’esperienza dell’Aids, identificandosi in modo positivo con il beneficiario dell’intervento. L’ASA è diventata parallelamente sia più specializzata, perché è necessario qualificare l’offerta, sia più generalizzata, nel senso di aperta alla presenza di quanti sono interessati a collaborare nello specifico dell’Aids, indipendentemente dalle loro competenze. Del resto, le professionalità sono solo strumenti e sbiadiscono di fronte al significato dell’esperienza. L’ASA ha promosso un incontro nazionale dei gruppi gay che si occupano di Aids. A che scopo? Si è voluto offrire un esempio propositivo di cosa sia possibile realizzare quando cooperano persone ben motivate e organizzate. È importante che si crei un coordinamento di tutti coloro che cercano di fare qualcosa contro l’Aids in Italia per costituire un polo di riferimento alternativo all’associazionismo politico sull’Aids. Si stanno già verificando cambiamenti notevoli nei rapporti tra gruppi gay delle varie regioni e stanno emergendo le reali disponibilità a collaborazioni fattive sul tema. Noi siamo inoltre interessati a far entrare nella commissione nazionale di lotta contro l’Aids del Ministero della sanità un rappresentante delle persone sieropositive e uno delle Associazioni che si occupano esplicitamente di Aids. Il sesso sicuro è uno degli slogan ricorrenti dei gay nella battaglia contro l’Aids. A che punto siamo nell’ambito della prevenzione sessuale? Penso che ciascun omosessuale sia stato costretto a imprimere una “frenata” alla propria vita sessuale e persino al proprio modo di pensare al sesso. Tuttavia, non è affatto scontato che la paura iniziale e tale frenata abbiano avuto come conseguenza un reale cambiamento della condotta sessuale. Alcuni si sono limitati a prendere confidenza col preservativo usandolo una volta ogni tanto; altri ne hanno fatto un fattore distintivo dei loro rapporti sessuali soltanto laddove il partner sia anonimo, affidandosi invece all’istinto e alla fiducia nel caso di partner ben vestiti, intelligenti o conosciuti in discoteca! Non è mai stata fatta una vera campagna di educazione, al di là dell’informazione comunque scarsa e talora di parte. Si dà per scontato che i gay agiscano in modo consapevole nella vita sessuale, perché in Italia l’Aids è più diffuso tra i tossicodipendenti eterosessuali. Ma ci si fanno molte illusioni e si rischia di cadere nelle mistificazioni. Credo che il lavoro sul sesso sicuro sia ancora tutto da cominciare. Come hai vissuto questa esperienza a livello personale? Devo riconoscere che io stesso alcuni anni fa non avrei potuto prevedere un impegno tanto intenso per l’Aids. Anche in passato il mio interesse è sempre stato rivolto soprattutto alla politica del “prossimo”, alla relazione interpersonale, magari in gruppo. Dopo l’iniziale identificazione con "la causa” degli omosessuali il mio coinvolgimento è stato più intimo grazie all’incontro con le persone in carne, ossa e anima. Ha preso così forma il desiderio di dimostrare attivamente che esiste la possibilità di scegliere non solo di non fuggire, ma all'inverso di andare incontro e stare vicino a chi è chiamato in causa dall’Aids. A un certo punto si è trattato di dire molto semplicemente “sono qui con te, andiamo avanti insieme”. Ne ho guadagnato enormemente. Sono molto grato a chi ho conosciuto su questa strada. L’Aids è stato per me l’occasione di tradurre in atto e portare alla sua logica conseguenza una antica “vocazione” all’altruismo, all’amore per molti a fronte del consueto amore per pochi o per un solo essere umano. Potrei dire, accettando di essere frainteso, di preferire in qualche modo le persone che “soffrono”, che sono cioè in condizione di porsi domande. Sentirmi "simile” a una persona sieropositiva non è questione di martirio né una specie di mitomania a rovescio. Non c’è neppure un merito particolare in questo. È solo il mio modo di essere uomo oggi. Sono cosciente di voler offrire una testimonianza, qualcosa di più perciò di un’esperienza personale. Credo molto nelle conseguenze e nella lezione dei gesti. I significati della vicenda umana dell’Aids divengono e diverranno patrimonio degli altri, anche di coloro che non vi partecipano. Nel nostro gruppo ci sentiamo un po’ come le donne troiane descritte da Christa Wolf nel libro Cassandra, e a volte parafrasando la veggente anch’io dico: “Eravamo grate perché ci era concesso il privilegio più grande che esista: fare avanzare una sottile striscia di futuro nell’oscuro presente che abita ogni tempo”. Mattia Morretta (dicembre 1989)