La solitudine del giglio gentile Nell’estate del 1923, a venticinque anni, Federico García Lorca componeva La canzone del ragazzo dei sette cuori, venuta alla luce solo più di quattro decenni dopo perché rimasta tra le carte di un amico granadino, nella quale confidava alla madre di aver smarrito il più genuino palpito affettivo gareggiando col vento e cedendo alle pressioni del mondo che chiedeva il suo canto. Sintesi drammatica del conflitto tra vocazione personale e rispecchiamento delle aspettative altrui. Ma nell’intera opera si compenetrano sensibilità alle angustie della condizione femminile, fascinazione per la virilità rustica, percezione della vulnerabilità omosessuale e incessante consapevolezza della morte.
• Art a part of culture, 14 luglio 2023“Così resterà Federico davanti al futuro: eternamente giovane”, sosteneva Jorge Guillen, letterato, docente universitario e amico del poeta, che in lui contemplava il mito romantico del genio in gioventù (Federico in persona, 1960), sottolineando che nella convivialità non portava mai le sue pene, già trasfigurate nell’espressione lirica tragica. Le parole usate da Neruda per tratteggiarlo sono eloquenti: “Rideva, cantava, musicava, saltava, inventava, faceva scintille. Ingenuo e commediante, cosmico e provinciale, splendido mimo, pauroso e superstizioso, raggiante e gentile” (Confesso che ho vissuto, 1980).
Sembrava che il suo proposito fosse fare del vivere una continuazione o un’estensione della fanciullezza nel borgo andaluso di Fuente Vaqueros, ove era nato il 5 giugno 1898 in Calle de la Trinidad. Un paesino di campagna a quindici chilometri da Granada, in un orizzonte di uliveti, boschi, cime innevate, con le acque del Genil che scorrevano nel verde per incontrare in lontananza il Guadalquivir. Su La Voz nel febbraio del 1935 ancora ribadiva: “Tutta la mia infanzia è villaggio. Pastori, campagna, cielo, solitudine”.
Sotto la maschera sorridente e gioiosa si può nondimeno agevolmente celare la tristezza patibolare o un vissuto di infermità, perché l’attore attira l’attenzione altrui per distrarla dalle zone che intende tenere in ombra. Rafael Alberti riferiva che Federico in compagnia non poteva evitare di intrattenere, per rendere la condivisione una bella recita, anzi un puro gioco, ma era tanto solare quanto tenebroso, ripartito tra gusto della vita e ossessione della morte. Egli stesso constatava che nel suo cuore v’erano “l’amore e la burla del morire” (lettera del 1927 a Jorge Zalamea), perciò interpretava teatralmente anche le malattie che lo colpivano facendone uno spettacolo. Difatti era sia drammaturgo che poeta, e nell’ultima stagione soprattutto regista e impresario.
“La mia agonia cercava il suo vestito”, confessa ne Il bimbo Stanton (1929), indicando l’oscuro presupposto del registro coreografico e del trasformismo. Giunto qualche anno dopo in Argentina dà ai giornalisti un’immagine di scrittore per elezione e scelta, nonché di play boy o encantador: “Io non mi preoccupo di nulla, non voglio preoccuparmi di nulla. Voglio divertirmi, godere la vita, vivere!” (La Nación, 14 ottobre 1933).
Da un lato dunque la superficie luminosa ed effervescente con e per gli altri, dall’altro lato la profondità solitaria e tombale: “In ogni cosa vi è insinuazione di morte. La quiete, il silenzio, la serenità, sono iniziazioni. La morte è dovunque. È la dominatrice” (Critica, 10 marzo 1934). Persino la calma, l’immobilità del riposo e i piedi fermi del dormiente fanno presagire il decesso, rievocando i defunti adagiati sul letto visti da piccolo.
Lorca amava mimare con gli amici il gesto consueto di prendere tra le braccia la madre minuta, cogliendola di sorpresa e cullandola come una bimba. Da lei, Vicenta Lorca Romero, granadina e maestra a Fuente Vaqueros, riteneva di aver ereditato l’intelligenza, intendendo l’acume e la visione poetica. Dal padre, Federico García Rodríguez, agricoltore e proprietario terriero, gli derivavano la passione e l’impulsività solare. Nella Canzone sciocca un tenero dialogo intaglia il cammeo dell’eterno amor filiale: “Mamma. / Voglio esser d’argento. / Figlio, sentiresti molto freddo. / Mamma. / Voglio esser d’acqua. / Figlio, sentiresti molto freddo. / Mamma, / ricamami sul tuo guanciale. / Questo sì. / Subito.”. D’altronde si somigliavamo fisicamente, specie nel volto.
La prima prova saggistica di studente diciannovenne svela in modo aperto il processo di trasfigurazione cui sottopone la figura femminile in generale, laddove si spinge a sostenere che gli uffici sacerdotali dovrebbero essere compiuti da donne, le cui mani “rosei gigli” si addicono ai bianchi merletti e le bocche possono accostarsi al calice come melagrane: “Uniche labbra iniziate, per la loro bellezza e il loro significato simbolico, a ricevere le mistiche e ineffabili armonie del sangue dell’Agnello” (Impressioni e paesaggi, 1918).
Assistendo a una funzione in un monastero infatti era stato impressionato dai monaci rozzi, scuri di pelle, con dita sporche e villose, un eccesso di materialità in contrasto con la dolcezza e la liricità dei riti sacri. Del resto nella corrispondenza con Ana Maria Dalì, sorella del grande pittore, il linguaggio è vellutato e carezzevole, lei è sempre “sirena e pastorella”.
Non a caso il personaggio del Giovane nel poema drammatico Lasciamo che passino cinque anni (1931) dice a proposito della Fidanzata: “Devo allontanarmi per metterla a fuoco, questo è il termine giusto, nel mio cuore”. E una volta incontrata non soffre perché lei l’ha tradito, soggiogata dal Giocatore di rugby che agisce da bruto e parla poco, ma per la perdita del riferimento ideale: “Tu non significhi niente. È il mio tesoro perduto. È il mio amore senza oggetto”. La vera morale della favola tuttavia è un’altra: se la gioia si dissolve appena toccata, conviene limitarsi ad attenderla, sperarla.
Accostandosi ai maschi eterosessuali Lorca subiva il fascino della muscolarità e della fertilità, stando vicino alle femmine ne assorbiva e amplificava i contenuti più critici e fragili (narcisismo estetico e patimento). Nell’opera teatrale Mariana Pineda è evidente l’immedesimazione nell’eroina ottocentesca martire della libertà, malinconica e appassionata come lui, lo stesso vale per le protagoniste del Romancero gitano, a cominciare da Soledad Montoya.
Una delle poesie più note si intitola La sposa infedele e ruota attorno al veto dell’innamoramento a causa del fatto che lei è coniugata, appartiene già a un uomo (facile il riferimento a Edipo). Inizia con la frase: “E io che me la portai al fiume / credendo che fosse ragazza, / invece aveva marito” (1928).
Nel Martirio di Sant’Elualia, prima del trionfo bianco della neve e degli angeli sul corpo carbonizzato, si indugia con sadismo sui particolari dei supplizi rosso sangue. In maniera analoga si descrive il clima torrido di predazione nell’incesto tra Thamar e Ammone, con la brama che fa spumeggiare gli inguini e stridere i denti del giovane di fronte alla vista della sorellastra nuda il cui fiore viene martirizzato, perché nel rapporto tra maschio e femmina è implicita la violazione, lo scoccare e piantare la freccia nel bersaglio. In tali casi lo spostamento sul piano religioso e mitologico rende possibile l’estrinsecazione dell’aggressività verso l’altro sesso.
La Belisa di Amor de Don Perlimpín (1929), maritata all’anziano protagonista grazie alle trame materne, è ridotta a mera anatomia erotica, una cosa volgare senz’anima (“Il tuo corpo! che non saprei mai decifrare!”). In una certa misura Lorca si riflette nell’uomo maturo, che si infiamma per la bellezza muliebre, ma non può e non vuole accoppiarsi, così come non può essere amato, mentre sono gli amanti di lei, reali e immaginari, a farlo al posto suo.
Pure nel Retablillo de Don Cristóbal (1931) sono gli altri a goder la sposa del personaggio centrale e non il coniuge. Colei che non è stata amata e invano ha atteso la dolce serenata, infine immersa nel silenzio, è Doña Rosita la Soltera (1935), ingannata da un uomo partito per il Sudamerica, che le invia lettere pur essendosi ammogliato nel frattempo.
Dietro la figura della “zitella” sacrificata all’ipocrisia moralistica, in verità tale per “scelta”, cioè per preservare un autonomo stato fisico e sentimentale, si può ben intravedere il poeta stesso, l’omosessuale che non può essere diverso da ciò che è: anormale per amore, fedele alla sua idea di amore.
Altra creatura drammaturgica è La Zapatera prodigiosa (1930), giovanissima consorte di un anziano calzolaio, contestatrice dei pregiudizi che vogliono la femmina “monaca o straccio per strofinare”, insofferente alle pretese dei maschi di farne trastullo per i loro appetiti, desiderosa di libertà almeno sul piano fantastico di fronte a una sorte che le riserva una vita mediocre.
“Nascere donna è il peggiore dei castighi”, sentenzia l’ultima opera, La casa de Bernarda Alba, risalente al 1936 e rappresentata postuma nel 1945. Una madre dispotica, vedova due volte, costringe le figlie alla reclusione tra le mura domestiche per conservare il decoro e impedir loro di esser donne. Nel convento profano, carcere degli istinti e delle passioni, ove deve regnare il silenzio (parole iniziali e conclusive del testo), non possono che crescere la morbosità e la deformazione della personalità.
Il fidanzato (Pepe el Romano) per motivi di interesse della primogenita (Angustias), diviene oggetto delle aspettative di tutte le sorelle, che convergono su di lui come raggi su una lente innescando l’incendio, preludio della morte della vittima designata (la minore Adela), l’unica che abbia osato sfidare la mamma assaggiando il frutto proibito. La frustrazione sessuale e lo stigma, la “verginità” obbligatoria e la dignità quale baluardo sociale, esprimono e coprono al contempo la complessa condizione esistenziale dell’autore.
Federico in effetti aveva tanto sofferto per la necessità di vincere le proprie passioni e tener conto della vulnerabilità della sua figura pubblica, col rischio di vedere l’affettività sgretolarsi e dover bere il calice amaro della solitudine amorosa (L’ombra della mia anima, 1919). A ventitré anni confessava all’amico Adriano del Valle di mostrare agli altri la rosa molto rossa, con la sfumatura sessuale della peonia, ma di sentir dentro un giglio impossibile da annaffiare; per questo cercava di prender gusto alle marionette dell’infanzia, preda di un fantasma che lo incalzava con odio, un gufo che ne rodeva il cuore.
Nella Canzone del ragazzo dei sette cuori (1923) rivela alla madre di possedere sette cuori e di aver cantato per il mondo con la sua bocca di sette petali, sette ragazze con lunghe mani l’hanno portato nei loro specchi, eppure non trova più il suo corazon, altrove assimilato a mariposa (farfalla) e a cigarra (cicala) o definito “tanto incerto”. Conviene ricordare che nella sua stanza nella Residenza degli studenti di Madrid a capo del letto troneggiava la Madonna dei Sette Dolori. Nell’Ode al Santissimo Sacramento (1928) lamenta:
L’unicorno vuole ciò che la rosa dimentica e l’uccello pretende ciò che le acque vietano.
Se i pettegolezzi avevano messo a repentaglio la sua immagine di poeta, la fama comprometteva la possibilità di avere e tutelare un’intimità. Inoltre, avvertiva la pressione dei parenti affinché si decidesse in termini lavorativi e di maturità sessuale. La sterilità, infatti, è un suo tema ricorrente. Nei versi si paragonava a “una canna di voce e di gesto” che non dà fiore o ramo, “trema senza speranza / nel vento di ieri” (Albero di canzone).
Ventottenne si preoccupava di prendere una retta via, magari provare a fare il professore per saldare il debito con la società. Rivolgendosi a Jorge Guillén precisava: “Ho bisogno di essere sistemato. Fai conto che voglia sposarmi. Potrei? No. Non credere che sia in relazione con nessuna ragazza”. E definiva il matrimonio un orto d’aria e di foglie monotone da cui i cinque sensi addomesticati avrebbero contemplato il cielo (9 settembre 1926). Sicché sentiva che esclusivamente liberandosi, “nel senso buono del termine”, dalla famiglia di origine avrebbe potuto essere sé stesso fino in fondo: “E me andrò solo sui monti a veder spuntare l’alba senza dover tornare a casa. Alba della responsabilità. Sarò responsabile del sole e delle brezze. Porta della paternità”.
Nelle rime e nella corrispondenza Federico manifesta il disagio per l’emozione assoluta dinanzi alle cose, quasi un travaso dell’anima sul mondo. Una delicatezza che lo porta a mitizzare l’uomo comune e tutt’uno con la natura, capace di saltare sull’altra sponda, col cuore con ruscelli e pini, senza serpi e robusto, “con la grazia d’un giovane contadino / che d’un balzo attraversa il fiume” (Prologo, 24 luglio 1920).
Ad Adriano del Valle scrive: “Ho come inchiostro il sudore del desiderio, il polline giovane del mio giglio interiore e del mio grande amore” (1921). Perciò è affascinato dal “garofano virile”, da gitani violenti e dai duelli rusticani, da coloro che fanno scorrere il sangue, capaci di provare “il gusto del coltello piantato”. Il matador, inguantato nel fallico costume rituale, è allora la suprema sintesi della sfida alla morte rivestita di eleganza.
Nel Lamento per Ignacio Sanchez Mejias (1935), composto per l’amico campione della corrida, morto per una ferita tra l’inguine e la coscia alle cinque della sera dell’11 agosto 1934, vanno in scena l’orrore e l’ammirazione per chi ha saputo guardare in faccia la fine, combatterla facendo del confronto col Nulla una danza. Per chi non riesce a infilare la lama nelle carni, femminili e maschili, pare inevitabile ricevere il colpo, come nell’Ode al Santissimo Sacramento:
Per l’assassinio dell’usignolo, venivano tremila uomini armati di lucenti coltelli.
È lo sgomento a dominare l’ultimo periodo e a spingerlo a dichiararsi apolitico, conscio di aver attirato la muta di cani, un timore talmente intenso da fargli sbagliare strada nella fuga, tornare come un bimbo al luogo natale o nel ventre materno, vittima dell’impulso al sacrificio dell’intellettuale imbelle. “Non sono mai stato immischiato in politica. Sono troppo pauroso per farlo. Non mi si può rimproverare per questo”, dice a pochi giorni dall’arresto. Lui che si era sempre definito tontito, inadeguato sul piano pratico e fisico. Rosa che non cercava la rosa, ma immobile nel cielo cercava altra cosa. Ancora si ode l’eco del suo alto grido al momento della fucilazione.
Se muoio, lasciate il balcone aperto (Commiato, 1924)
Mattia Morretta (luglio 2023)