Il mondo non sarà salvato dai ragazzini
C’erano una volta i figli dei fiori, poi quelli degli anni di piombo e delle stelle, quindi le anonime generazioni X-Y-Z, aggregati di figli unici, iperformati e tecnologici, consumatori infantilizzati, disorientati e orfani di nobili cause. Perché la società infatuata della gioventù (youth-infatued society) in realtà la trascura e la condanna alla perenne immaturità.
• Umbria Green MagazineIo con tristezza guardo la mia generazione! Il suo futuro è vuoto oppure oscuro; sotto il fardello intanto di conoscenza e dubbio, si farà vecchia nell’inerzia. (Michail Lermontov, Meditazione, 1838)
La green generation, esaltata dalla stampa e guardata con tenerezza dagli intellettuali col vezzo dell’ottimismo, ammessa a parlare alle Nazioni Unite, scende in strada e alza la voce a nome della Natura violata e del Pianeta a rischio di catastrofe, ma tace sull’Ambiente umano in cui è costretta a crescere (famiglie disgregate, comunità colabrodo, legami instabili e patogeni, orchi e streghe commerciali, procacciatori di droghe e venditori di schiavi in erba), la vera scena del crimine ove si consuma l’attentato quotidiano all’avvenire dell’homo sapiens.
Non a caso i ragazzi si sentono esemplari di una specie in estinzione, prole dell’aria e del mare inquinati, non già di progenitori e meno che mai “figli delle stelle”. Non certo alla maniera del rivoluzionario Majakovskij, che un secolo fa rivendicava il superamento della nascita biologica e borghese per assumere spiritualmente come madre la Terra e come padre il Cielo. Pure l’enfasi sull’ansia ecologica, sposata per ragioni di convenienza dai politici, serve a mascherare l’indifferenza dilagante per l’habitat relazionale.
I grandi bendisposti e benevoli, talmente concentrati sul loro specchio del reame da non considerare necessario vigiliare e custodire le menti immature, preferiscono ignorare che i minori sono esposti ai peggiori comportamenti nella giungla urbana e tele-visiva, alle prese con vissuti di guerra totale o di apocalisse. Perché mirano a garantirsi licenza di spensieratezza e vogliono vedere nella “fanciullezza” esclusivamente una fonte incontaminata di fantasia, un bacino minerario inesauribile, l’occasione di rinnovamento per chiunque vi si accosti con venerazione e rispetto (una sorta di Bambin Gesù o piccolo Buddha).
Nota con acume un personaggio di George Eliot in Middlemarch (1872): “Se la giovinezza è la stagione della speranza, spesso è solo nel senso che gli anziani nutrono speranze su di noi”. Infatti nessuna età è così soggetta a ritenere definitive le emozioni, le separazioni e le decisioni, ogni crisi sembra l’ultima perché nuova, senza precedenti.
Se per Pasternak l’infanzia è “il mestolo della profondità spirituale” (Ai calunniatori, 1923), intendendo lo strumento col quale attingere al pozzo della memoria e della creazione, gli apologeti del giovanilismo astratto non si accorgono di creare una sorta di Olimpo dimezzato, epurato dei lati negativi della divinità. È segno dei tempi che la Chiesa cattolica, nel centenario dell’apparizione di Fatima, abbia proclamato santi i due pastorelli Giacinta e Francesco, deceduti per l’epidemia di spagnola nel 1919. E che l’OMS faccia del blocco farmacologico della pubertà un diritto e un progresso della scienza!
Sì, il nuovo nato è una riserva di umanità che reca un patrimonio di simboli e potenzialità, ma non a senso unico, perché include gli elementi oscuri da governare e dosare nel continuo alternarsi di costruzione e distruzione che caratterizza la Vita. Vedere nel “figlio” il depositario e portatore dello spirito, l’ideale nel regno sensibile (la parusìa o presenza platonica), è molto suggestivo e poetico, allude a verità che vanno tuttavia tradotte e declinate nelle condizioni reali di esistenza.
Il bambino rappresenta l’avvenire, però non lo garantisce, persino geneticamente; indica il futuro, ma non quello dei genitori e neanche a ben vedere il suo, se mai quello della specie, con tutte le variabili e le incognite, comprese la rovina e la fine. L’idealismo o la mitizzazione rischiano di schiacciare i singoli sotto un carico enorme di aspettative, Atlante che soccombe sotto il peso dell’intero mondo. Che si sia direttivi o permissivi (spontaneisti), l’età dello sviluppo non è una pagina bianca o una matrice di cellule staminali, neppure un’opera d’arte che attende di realizzarsi o addirittura già perfetta.
Per questo desta stupore che ovunque si senta dire (come se venissimo ancora dall’analfabetismo postbellico e non dalla scolarizzazione generalizzata e prolungata sine die), che la soluzione di qualsiasi patologia della società sia insegnare nelle scuole, “fin dalla primaria”, le materie teoriche del vivere civile. Il che significa organizzare incontri ed esercitazioni su gas serra, raccolta differenziata, incidenti stradali, abuso di sostanze, bullismo, femminicidi, tolleranza inter-religiosa, legalità e via elencando a piacere. Si è giunti al ridicolo con la lettura del Diario di Anna Frank allo stadio.
Con convinzione si portano gli allievi a visitare musei, ascoltare opere teatrali da programma didattico, magnificando la lungimiranza dell’accesso di adolescenti e bambini al tempio milanese della lirica, entusiasti all’idea di forgiare cittadini “democratici” sensibili al bello e al buon gusto. Intanto che si fa cassa sfruttando nuovi target, si dimentica che la frequentazione delle Muse non ha mai reso migliori dal punto di vista etico i sovrani, i nobili, i borghesi, le classi dirigenti, gli eruditi.
I più sembrano credere che istruire collegialmente nella “fase di formazione” sia sufficiente per garantire i migliori risultati, al pari di una semina per raccogliere messi di buona sociologia, prescindendo dalla cura costante, meticolosa e condivisa del terreno. Invece, seguendo Tommaso d’Aquino, è vero che, qualsiasi cosa si riceva, si riceve al modo del ricevente, nonché in base alla misura del contenitore. Inoltre non si tratta mai solo di apprendere, bensì di capire e diventare capaci di agire con responsabilità. Schopenhauer, che definiva i bambini “delinquenti innocenti”, puntava l’indice su quanti leggono pretendendo di sapere e non intendono imparare niente, poiché tutto ciò che non entra nell’uomo in libertà non rimane, viene trattenuto e dà luogo ad azioni congruenti solo a condizione di diventare parte della sua volontà e dei suoi affetti.
La propaganda del bene superficiale e di facciata porta ad affermare che tra pargoli non esistono barriere, che basta far crescere insieme bianchi e neri, italiani e stranieri, cristiani, ebrei e musulmani. Anche qui come se non ci fossero precedenti storici, privandosi della possibilità di tener conto degli errori accumulatisi nei secoli. Fino ai dieci anni la finzione regge, dopo inizia gradualmente a rivelarsi la sostanziale impermeabilità a generici richiami morali, giacché, parafrasando Walter Scott, le calde e appassionate esortazioni cadono sulla tempra insensibile come palle incandescenti nell’acqua: fanno un po’ di rumore e di fumo, per poi spegnersi subito (Ivanhoe, 1820).
Al di là dei soliti piccoli di malavita, bruti e delinquenti per tradizione dei quartieri degradati, gli odierni protagonisti dei comportamenti antisociali o autolesionistici (in posa per i selfie e i video sui binari dei treni e nelle bravate in automobile) son pressoché tutti istruiti, talvolta con bel voto in condotta. Tanti temerari alla cieca e in modo sconsiderato, che non contestano i padroni dei beni di consumo e del gergo mediatico, anzi son pronti a mettersi in coda per l’ultimo modello di telefonino o di scarpe, contenti di esprimersi a gesti e faccine.
E i sedicenti alternativi dei rave party (to rave, farneticare, dal francese antico vagabondare e delirare), i baccanali per devianti di fegato (quel che ne rimane, date le abitudini), lasciano sul terreno quintali di immondizia, perché sporcare la società è bello e le rogne toccano agli altri, i noiosi “normali”.
A parziale attenuante si deve riconoscere che è l’informazione stessa il problema, in una cultura che da omologata è trapassata a omogeneizzata. Vi fosse anche un’ora al giorno di “lezione” e rappresentazione scenica di buone prassi, ve ne sono più di venti di bombardamento sistematico di modelli che equivalgono a favoreggiamento di pornografia, prostituzione, manipolazione, abuso, disprezzo, scelleratezza, senza cogliere il collegamento logico, nonostante la perenne “connessione”. Si fa tanto clamore sulla protezione a parole dei minorenni per meglio servirli sul piatto d’argento a TV, Internet, Mercato, influencer e pop star, inducendoli a diventare prestissimo viziosi e corrotti, con tanto di sessualizzazione forzata, e completando l’alienazione col blocco cognitivo in un limbo for ever.
La chiamano età evolutiva ma la concepiscono come statica o addirittura stagnante, con esemplari tipici seduti a capo chino su monitor e display utilizzando al massimo le dita: generazione digitale, appunto. Tanto da dover finanziare progetti per farli correre e vivere all’aria aperta, lottando contro sedentarietà e obesità galoppanti, specie tra i virgulti dei ceti meno abbienti, ove il grasso è sempre piaciuto ed è interpretato come benessere e fortuna. A parte, s’intende, le leve sportive per competitivi e vincenti. Per non dire della moda degli interventi estetici correttivi tra le lolite preoccupate di invecchiare o ansiose di assomigliare a personaggi dei cartoni animati e dello spettacolo.
Ma il sintomo più grave della regressione civica è la violenza ordinaria. I giovani e giovanissimi, talora studenti modello, che fanno stragi a scuola, nei cinema o ai raduni di massa, occupano quello che non è più spazio pubblico bensì schermo globale, a caccia di considerazione e pubblicità, specie negli USA (Stati Uniti Armati) dove essere “popolari” è un imperativo. Tanto vale puntare a farsi ricordare per sempre sopprimendo soprattutto un buon numero di coetanei, gli stessi coi quali non si riesce a (e non si vuole) integrarsi e dai quali ci si sente isolati in modo irriducibile nonostante i social network.
Altrettanto le baby gang, che privilegiano i pari grado per soggiogare, punire, mortificare, depredare i “concorrenti”, animati dall’invidia e dall’odio per i fratellastri, uniti nell’impotenza e nella dipendenza da grandi disinteressati, anche se sono per lo più figli unici (magari di genitori separati). I fautori del peer to peer sono contenti del successo e di poter continuare a fregarsene mentre si atteggiano a comprensivi e moderni.
Confinati nei loro parcheggi i minori sono brodo di coltura di ogni psicopatologia e condotta deviante, vittime della brutalità e amoralità di cui son maestri, schiavi delle opinioni di clan e tribù, in classe, in discoteca, in rete. La loro principale fonte di corruzione è proprio la compagnia dei camerati e coscritti, di quelli più scaltri e smaliziati, i quali prendono in giro i “puri” e li inducono all’emulazione. Lo stesso bullismo, che appare inspiegabile ai docenti e agli psicologi da salotto televisivo, riflette l’incuria e l’esilio nella puerilità, uno stadio acerbo e amaro che prevede gregarietà, assenza di empatia e coscienza morale, la vile allegria di poter deridere e mettere all’indice chiunque sia isolato o diverso. Così i ragazzini prendono un bell’uccello per spennarlo e martirizzarlo, dice Balzac.
Nel racconto Il compleanno dell’Infanta Oscar Wilde ne fa un ritratto eccellente, laddove alla notizia della morte del Nano, che tanto l’aveva divertita ballando, perché il cuore gli si è spezzato, la dodicenne principessa di Spagna commenta: “In futuro, quelli che vengono a giocare con me non abbiano cuore” (Una casa di Melograni, 1891). E in un’altra novella della medesima raccolta, intitolata Il Bimbo-Stella, il protagonista, trovato dal boscaiolo e allevato poveramente, diviene a dieci anni un campione di superbia, crudeltà ed egoismo, a dispetto della nascita da una mendicante, insensibile e spietato sino a che non si ritrova oggetto di scherno, emarginazione e sopruso.
A posteriori è un continuo meravigliarsi delle storiacce di ricatti, persecuzioni e sevizie, brutalità fisiche e sessuali delle reclute orchestrate dal capetto di turno. Grazie a Internet cyber-bullismo e cyber-stalking impazzano nell’età scolare, mentre le istituzioni “corrono ai ripari” con normative specifiche, l’insegnante referente, un fallimento annunciato per superficialità e connivenza sostanziale, visto che non si mettono in discussione le mitologie sulla giovinezza. Nell’astrattezza web ci si può lasciar andare a eccessi di trivialità, sfigurare col vetriolo e l’acido dei commenti e delle battute, ferire e far soffrire gli altri con senso di impunità e il sorriso sulle labbra. Difatti finire in disgrazia android è peggio del pubblico ludibrio e della gogna dei secoli andati.
Il crimine della cronaca attuale è ulteriore siglatura del ritorno indietro nella evoluzione, come dimostrano i delitti d’onore in auge tra minorenni, rivalità e gelosie da codici mafiosi, sfide, sgarri e sfregi, agguati e vendette con scorrimento di sangue per uno sguardo di troppo. I ragazzi, ritenuti con plauso generale modernissimi per l’utilizzo disinvolto di mezzi tecnologici, si rivelano trogloditi e antropofagi, proprio mentre crollano i muri contenitivi e repressivi e quindi non è possibile porre argini al loro strapotere di nuocere o nuocersi. Anche per questo è pericoloso l’incitamento sociale e mediatico, come sottolineavano i latini col monito “non aggiunger sprone a chi corre spontaneamente”.
Ecco, servirebbe ristudiare la storia per orientarsi. Le vicissitudini giovanili di grandi autori e artisti, per esempio, ci rammentano che si cresce in buona parte tra canaglie. Il più didascalico è forse Vittorio Alfieri, che nella sua Autobiografia (1803), parla delle “battaglie puerili” nella prima fase di istruzione, in particolare con un coetaneo da lui apostrofato con “atrocissime ingiurie” ma senza arrivare allo scontro in quanto “di forza di mano uguali all’incirca”. Tuttavia, essendo sempre “infermiccio, e piagato or qua or là in varie parti del corpo”, gli altri alunni gli affibbiavano “il gentilissimo titolo di carogna; ed i più spiritosi e umani ci aggiungevano anco l’epiteto di fradicia”.
Del resto a Leopardi il codazzo di ragazzini riservava un esplicito “gobbo fottuto”, sostituito dal “ranavuottolo” dei napoletani negli ultimi anni. Gemma nel letamaio recanatese, il poeta scriveva a Pietro Giordani: “Io sto qui, deriso, sputacchiato, preso a calci da tutti, menando l’intera vita in una stanza” (22 giugno 1821). In aggiunta, racconta Alfieri, un tipo senza scrupoli “maggiore di età, di forze e di asinità”, lo sfruttava per fare i compiti, offrendogli con le buone due palle da gioco e con le cattive la minaccia di scappellotti. La conclusione vale un compendio di filosofia: “Onde io imparai sin da allora, che la vicendevole paura era quella che governava il mondo”.
E ancora, Manzoni aveva avuto la sua dose di violenze dai sei ai dieci anni nel collegio dei Padri Somaschi a Merate in Brianza; Dostoevskij, nei momenti bui, iniziava il lungo elenco delle offese subìte dai compagni che nell’infanzia si prendevano gioco di lui dopo la morte della mamma; Hermann Hesse ha dedicato un libro (Sotto la ruota,1906) ai traumi vissuti insieme al fratello Hans da ragazzi. Il medesimo liceo militare austriaco in cui hanno trascorso l’adolescenza Rainer Maria Rilke e Robert Musil ha lasciato un’impronta indelebile fino alla fine dei loro giorni, il primo lo ricordava come l’Abc dell’orrore, il secondo l’ano del diavolo.
Il premio Nobel creolo Derek Walcott ne argomenta con amarezza nella poesia Blues (The Gulf, 1970), descrivendo adolescenti che se la prendono con un negro giallo fino a farlo blu e nero, mentre una delle madri si limita a gridare “adesso basta!”:
Mi immaginavo che fossimo tutti una cosa sola, latino, negro, ebreo, e poi non eravamo in Central Park… Non feci niente. Quelli si battevano l’uno contro l’altro, in fondo. Perché la vita concede loro poche emozioni, ecco tutto. Ai negri, agli ispani… In fin dei conti non è niente. Ragazzi cui manca un po’ d’amore. Tu sai che non volevamo ammazzarti. Solo gioco pesante, come vuole la giovane America. Eppure, mi ha insegnato qualche cosa sull’amore. Se è coì brutale, non parliamone.
E dunque? L’unione sui banchi di scuola e nella didattica saccheggiata dalle “problematiche emergenti” (tutte divisive), non solo non si traduce in unità generazionale, ma dà anche luogo a un apprendimento non evolutivo e senza respiro culturale. Infatti, a dispetto dei giornalisti, non ci sono più vere “generazioni”, cioè un insieme di coetanei con analoghe esperienze esistenziali, una comunanza di vita con interrogativi seri e ideali condivisi, condotte espressione di fermento sociale preparatorie di mete future, e non manifestazioni di gusti o tendenze inquadrabili in fasce di consumo. Alla fine si ha a che fare con individui innaturalmente senza età, confinati in una puerizia perpetua e isolante per ferita narcisistica, preliminare alla migrazione sulla nuvola informatica (cloud) e alla sostituzione robotica.
“Abbasso i padri, viva i figli! - si grida da più di un secolo, senza capire di lavorare per i demòni”, scriveva Marina Cvetaeva all’epoca della rivoluzione russa. Se i giovani rappresentano il futuro, possono esserne garanti solo i già maturi, adulti (participio passato di adolēscere, ad ălere, nutrire) che li attendono sulle soglie della maturità. Da decenni purtroppo il ruolo propositivo della gioventù nella società è stato vanificato, rendendo ininfluente sui grandi numeri che i singoli si realizzino o falliscano.
Addio nobili slanci dei sentimenti e pensieri elevati, audaci e delicati, nella stagione in cui le passioni sarebbero pane, non resta che sciupare gli anni verdi invecchiando nell’anima giorno dopo giorno, esibendo come attori il nimbo azzurro delle occhiaie. Unica apparente eccezione di riscatto cogliere l’attimo tragico di terremoti, alluvioni, disastri epocali, indossando le ali a scadenza degli angeli del fango e delle macerie.
Non dura che il tempo di una notizia o di un post la buona intenzione e muore nella pubblicizzazione mediatica il gesto altruistico. Perché a chi ha tutta la vita davanti non serve avere belle speranze, bensì dare alla speranza uno scopo costruttivo ritessendo la tela del destino antropologico. Altrimenti la scontentezza di sé e la delusione inaspriscono e avvelenano, aprendo la strada alla ribellione cupa e disperata, l’attesa di eventi terribili e tremendi, catastrofe ecologica, fanatismo religioso o assolutismo politico.
Mattia Morretta