Acciò che meglio il vero io ti denudiLa lezione di Ariosto su sessismo e lato oscuro delle passioni
Tra le rime e le righe dell’Orlando furioso amare verità su inimicizia e violenza tra uomini e donne, storie di ordinaria follia in ogni tempo e luogo
• Art a part of cultureCh’abominevol peste, che Megera è venuta a turbar gli umani petti? che si sente il marito e la mogliera sempre garrir d’ingiuriosi detti, stracciar la faccia e far livida e nera, bagnar di pianto i genïali letti; e non di pianto sol, ma alcuna volta di sangue gli ha bagnati l’ira stolta. (Orlando furioso, Canto quinto, II)
Ariosto, citando Virgilio e Dante, nota che tra gli altri animali il maschio non fa la guerra alla femmina, l’orsa con l’orso erra nel bosco, la leonessa giace accanto al leone, col lupo vive la lupa sicura, né la giovenca ha paura del torello. Invece nella nostra specie non c’è barriera protettiva tra i due sessi.
Pare all’autore che non sia solo gran male, bensì qualcosa contro natura e ribellione a Dio, che si arrivi a percuotere il viso di una bella donna o a torcerle un capello, ancor più non si può credere che sia uomo e non spirito dell’inferno “in veste umana” colui che giunge ad avvelenarla o strapparle l’anima dal corpo col laccio o col coltello. Eppure il terreno delle pulsioni è simile alla materia vischiosa usata per catturare gli uccelli (pania), chi vi mette il piede, cerchi subito di ritrarlo, poiché “non è in somma amor, se non insania, / a giudizio de’ savi universale (Canto ventesimoquarto, I).
Seguendo gli antichi e anticipando la scienza, Ariosto vede nella passione amorosa in dati frangenti una sorta di malattia, per la precisione “desire irrazionale” (Canto trentesimosecondo, XXI), un connubio di cecità e illusioni: “Quel che l’uom vede, Amor gli fa invisibile, / e l’invisibil fa vedere Amore. / Questo creduto fu; che ‘l miser suole / dar facile credenza a quel che vuole” (Canto primo, LVI). Con la leggenda delle fonti magiche di opposto segno si certifica altresì nel Canto secondo la norma della non corrispondenza affettiva, il noto adagio secondo cui ci si distoglie da chi vuol bene e si adora chi disprezza o odia.
Sicché di frequente il vincolo di coppia consiste in un calcolo manipolatorio: “Oh quante sono incantatrici, oh quanti / incantator tra noi, che non si sanno! (…) ma con simulazion, menzogne e frodi / legan i cor d’indissolubil nodi” (Canto ottavo, I). Ciò nonostante, non bisogna assolutizzare: “Amor sempre rio non si ritrova / se spesso nuoce, anco talvolta giova” (Canto ventesimoquinto, I).
Nel notissimo incipit (“Le donne, i cavallier, l’arme, gli amori, / le cortesie, l’audaci imprese io canto”) il sesso femminile ha la precedenza per educazione, benché di fatto sia complemento del copione virile di ambizione e lotta per primeggiare. Il poema, non a caso, termina con una scena di violenza fatale, il pugnale che Ruggiero immerge tre volte nella fronte del re d’Algieri Rodomonte.
Orlando, “dal fier sembiante e da l’erculeo aspetto” (Canto nono, LVI), nonché dal nome esplicito (significa “che ha fama di essere ardito”), non ha neppure il tempo di dedicarsi al suo ipotetico “ben”, visto che passa da un’impresa valorosa all’altra senza interruzione, campione cui le donzelle in pericolo di vita offrono occasioni di prodezze, difensore dei deboli contro l’ingiustizia e massacratore dei cattivi per giusta causa. E Ariosto stesso, giunto alla pazzia furiosa di Orlando, si libera di Angelica dichiarando che non gli “cale” più riferirne le sorti (Canto trentesimo, XVI). Non era forse stata promessa dal re Carlo a chi tra il possessor della celebre durlindana e Rinaldo avesse fatto più strage di infedeli?
Per analogo motivo le amate vengono lasciate dagli eroi a languire su isole o scogli. L’avvenente figlia del re Stordivano, Doralice, si rende conto a sua volta che non è “per lei” che Ruggiero e Mandricardo inscenano una dura tenzone, perché si sfiderebbero per una cagione qualsiasi: “Fu natural ferocità di core / ch’a quella v’istigò, più che ‘l mio amore” (Canto trentesimo, XXXIII).
Nelle strofe di esordio del Canto trentesimosettimo si rimarca che gli uomini si elogiano a vicenda e si adoperano per rendersi gloriosi o immortali, mentre con astio e invidia fanno di tutto per mettere in cattiva luce l’altro sesso ponendo l’accento sui suoi difetti e limiti: “Non le vorrian lasciar venir di sopra, / e quanto puon, fan per cacciarle al fondo”, quasi che il loro onore venga oscurato dal riconoscimento delle opere femminili “come il sol nebbia” (III).
La dedizione maschile totale, fisica e spirituale, va ai condottieri e ai camerati, la compagnia e non la compagna. Nel filone cavalleresco le fanciulle guerriere dell’opposto fronte o le trame d’intesa tra i protagonisti e le femmine del campo avverso danno l’occasione di manifestare l’eccitazione sensuale e sentimentale che sempre si associa alle mischie feroci, ove l’erotismo è avvinghiato all’aggressività.
Le donne col loro fascino insidioso tentano allora di disunire la compagine virile, staccando e sviando singoli individui per sedurli o manipolarli con più facilità. Isolare il candidato è la mossa centrale della strategia, tanto che la metafora più efficace è il luogo recintato, l’orto di delizie o il lembo di terra in mare. Ed ecco la casa d’Amore in Petrarca, quella di Venere in Poliziano, la reggia di Alcina nell’Ariosto, il palazzo labirintico e il giardino di Armida in Tasso.
Esemplare nell’Orlando furioso la figura della fata Alcina, sorella di Morgana, che alletta Astolfo mostrandogli una collezione di pesci (al posto delle farfalle!), riuscendo a sequestrarlo in un’isola sperduta, non perché lui ne sia attratto, bensì perché solito a farsi avanti e curioso di novità: “Io che sempre fui troppo (e me n’incresce) / volonteroso” (Canto sesto, XL). L’incantesimo passionale di fatto tiene chiuso l’amante nel carcere della seduzione, privandolo di libertà d’azione, scelta e movimento. D’altronde è prova d’infatuazione non esser più padroni di sé, ritrovandosi a servire il demone dell’Amore (più che l’oggetto concreto), tant’è che l’interessato divien “vago”.
Per par condicio nel Canto decimo l’Ariosto esorta le donne a non prestar fede a parole, pianti e preghiere dei corteggiatori: “L’amante, per aver quel che desia, / senza guardar che Dio tutto ode e vede, / aviluppa promesse e giuramenti, / che tutti spargon poi per l’aria i venti” (V). In particolare devono diffidare di quelli che “sul fiore / de’ lor begli anni il viso han sì polito” (VII), il cui appetito è come un fuoco di paglia, corron dietro alla lepre finché scappa, poi non la considerano più, sicché esse da riverite si ritrovano ridotte a serve. Conviene fuggire “la prima lanugine” e preferire i non troppo giovani e non troppo maturi, fatto salvo che esse devono comunque lasciarsi amare: “Che senza amante / sareste come inculta vite in orto, / che non ha palo ove s’appoggi o piante” (IX).
In seguito nel Canto ventesimo si giustifica la radicale misantropia femminile, sul modello delle Amazzoni, nel regno delle nemiche del sesso forte, in conseguenza dell’umiliazione subìta nei tempi andati dalle cretesi che avevano lasciato famiglie e patria per seguire baldi giovani greci, i quali le avevano poi abbandonate al loro destino in lido straniero. Da qui la decisione di mettere a morte, decollare e soggiogare ogni malcapitato nel loro territorio, accoppiandosi solo per garantirsi progenie e adoprandosi per impedire la futura ribellione dei figli maschi in tenera età (sopprimendoli, vendendoli, effeminandoli).
La fata(le) Alcina viene descritta come esteriormente magnifica e celestiale per meglio sottolinearne la fraudolenza interiore, così è plausibile il cedimento di Ruggiero, perché non si può credere che inganno e tradimento coesistano con un soave sorriso. I precedenti sono mitici, dalle Furie alle Gorgoni, dalle Arpie alle Menadi, fattucchiere e fate che nella tradizione medioevale si trasformavano in serpi e bisce periodicamente. Al di là dei simboli, tali figure indicavano che anche la donna sa essere malvagia e tirar fuori gli artigli, cercando di vincere o ottener potere con mezzi che compensino l’inferiorità fisica, ricorrendo agli intrighi e se necessario al veleno (venenum), che significa appunto filtro magico o amoroso con riferimento a Venere.
Il concetto dell’amata che fa soffrire ed è crudele viene esposto in prima persona dall’Ariosto sotto forma di scherzo letterario: “Date la colpa alla nimica mia, / che mi fa star, ch’io non potrei star peggio” (Canto trentesimo, III). Nell’ultimo Canto nel gruppo di personaggi salutati torna difatti quale principe di misoginia il veneziano Gianfrancesco Valerio, detto dall’Ariosto amico suo, ritratto mentre consiglia il poeta Pietro Barignan, “offeso sempre da lor”, su come non esserne “acceso” (XVI). Al duca Astolfo l’ombra della bella Lidia, figlia di re “in grande altezza nata”, confessa d’esser eternamente condannata al fumo “dal giudicio altissimo di Dio” per esser stata spiacevole e irriconoscente al fido amante suo, come la schiera di altre “femine ingrate”, in primis Anassarete e Dafne (Canto trentesimoquarto, XI).
Dunque in molti casi è lei che fa torto ed è lui che ama troppo, con un ribaltamento significativo che spiega il movente del farsi giustizia e vendicarsi. Poco oltre vien ricordato che nel Medioevo vigeva la mortificazione pubblica di “scorciare i panni” delle donne, lasciandole a vulva scoperta e costringendole quindi a star sedute a terra per rimediare all’esposizione delle “parti meno oneste” (Canto trentesimosettimo, XXXIII) o “le brutte / e disoneste parti” (CXIV).
Va notato che per Ariosto, che ripete Boiardo, le fate sorelle gemelle Alcina e Morgana sono nate da incesto e pertanto preda dell’animus paterno, si dedicano alla promiscuità al pari dei maschi e odiano la sorella Logistilla, figlia legittima, emblema di ragione e bontà: “E come sono inique e scelerate / e piene d’ogni vizio infame e brutto, / così quella, vivendo in castitate, / posto ha ne le virtuti il suo cor tutto” (Canto sesto, XLIV). Logistilla è l’essenza di ogni bene, al punto che l’amore nei suoi confronti non fa vivere nell’alternanza di timore e speranza come quello carnale, bensì appaga dando piena soddisfazione alla sola vista o presenza, escludendo la prospettiva di possesso o congiunzione. Le sue quattro compagne sono le virtù cardinali: Andronica (Fortezza), Fronesia (Prudenza), Dicilla (Giustizia) e Sofrosina (Temperanza), quest’ultima particolarmente importante per contrastare l’Incontinenza (Alcina).
D’altronde a Bradamante (la guerriera sorella di Rinaldo) che chiede di nominare qualche valida signora della stirpe futura, in aggiunta alla innumerevole “virile progenie”, la cortese maga Melissa risponde citando le pudiche donne, madri d’imperatori e di re, riparatrici e solide colonne di case illustri e di domìni egregi, “che men degne non son ne le lor gonne, / ch’in arme i cavallier, di sommi pregi, / di pietà, di gran cor, di gran prudenza” (Canto terzodecimo, LVII). Insomma, il canone tradizionale di spose e figlie oneste con la conclusione d’obbligo: “Sol perché casta visse, / Penelope non fu minor d’Ulisse” (LX).
Più avanti si cita in compenso la diceria circa l’infedeltà della stessa, che secondo alcuni si sarebbe data a tutti i proci (Canto trentesimoquinto). Tuttavia, in parallelo agli uomini, si rammenta che “le donne antique hanno mirabil cose / fatto ne l’arme e ne le sacre muse” (Canto ventesimo, I). La vergine di Delos, Diana saettatrice, Atalanta e Pentesilea rivivono nelle eroine di Ariosto, onorate in quanto valorose seguaci di Bellona (dea della guerra).
Marfisa, per esempio, che è stata vista senza “osbergo” al massimo una decina di volte, rivendica di non essere proprietà di nessun uomo e di difendersi da sola: “Io sua non son, né d’altri son che mia / dunque me tolga a me chi mi desìa” (Canto ventesimosesto, LXXIX). Può ben dirlo grazie al corpo vigoroso “ch’in ciascuna sua parte / fuor che nel viso, assomigliava a Marte” (LXX). Sul suo elmo la Fenice indica l’unicità e l’intenzione di non aver mai consorte; a sua volta Bradamante è “la donzella / che marito non vuol di lei men forte” (Canto quarantesimoquinto, LXIII).
Ancora, nella prima strofa del Canto ventesimosecondo Ariosto si scusa con le dame “cortesi” e “grate” al loro amante, contente di un solo amore, per esser stato costretto all’invettiva nel Canto precedente contro Gabrina, femmina d’animo perverso, adultera e malvagia, ma intanto ha potuto dirne peste e corna con diletto. Se Vittoria Colonna viene citata quale “intellettuale” che può stare alla pari con gli scrittori del suo tempo, è in quanto “sì casta mogliere”, che ha cantato “l’eterno onore” dovuto all’illustre marchese d’Avalos immortalandolo coi suoi versi, un atto ancor più meritorio di quante hanno voluto perire ed essere sepolte con lo sposo (Canto trentesimosettimo).
Un corollario del quadro è la passione muliebre per i preziosi, sul modello di Erifile che tradisce il marito Anfiarao per un gioiello, evocando la leggendaria perla di immenso valore donata da Cesare all’amante Servilia. L’Ariosto fa infatti delle gemme (rubini, diamanti e smeraldi) lo strumento per testare la fedeltà della consorte del signore mantovano protagonista del Canto quarantesimoterzo. Nel medesimo passo il giudice Anselmo, per cautelarsi dal tradimento durante una sua assenza forzata, mette nelle mani della sposa Argia tutti i suoi beni, proprio per creare un deterrente alla sete “femminile” di guadagno, senza che ciò ottenga il risultato sperato.
Tornando al dolente punto, nel poema appare in tutta evidenza il “doppio ferino” maschile, con l’attivazione congiunta dei due schemi comportamentali di base, sessuale e aggressivo. Se i giovani che vogliono far colpo cercano di impressionare con dimostrazioni di forza, abilità, coraggio, è appunto per sottolineare la capacità di difendere e quella di nuocere o uccidere. E lo stupro sistematico in battaglia prova che le circostanze autorizzano l’impulso latente a trattare con brutalità e indifferenza “le femmine”. Vale l’esempio dell’esercito cristiano nella conquista di Biserta, laddove “fur fatti stupri e mille atti ingiusti”, cui né Orlando né Astolfo possono opporsi.
Quanto all’amplesso, nella burlesca vicenda di Fiammetta, tenerella e di quasi acerba età, condivisa in caritate e in pace da Astolfo e Iocondo, poi posseduta nel buio in loro presenza dal garzone d’albergo, Ariosto ricorre alla metafora del “calpestio” che scuote il letto e della giumenta da cavalcare “forte” e “tutta notte”, senza staffetta (Canto ventesimottavo, LXIV-LXV); oppure allo scenario venatorio: “Lasciato avrìa il mio can correre un tratto / se m’avessi prestato un po’ il cavallo” (LXVII).
Ecco perché è opportuno che la donna tenga il capo chino, “con rimesse e vergognose ciglia / come quella che tutta era modesta”, cioè Bradamante (Canto Secondo, XIII), vuoi per comunicare riservatezza e posizione sottomessa, vuoi per non cadere nella rete del predatore, che inizia la conquista con la cattura ipnotica dello sguardo femminile. Tipico di situazioni di abuso è che prima l’uomo sia “dolcissimo” e poi si riveli impietoso, in maniera simile alla caccia agli uccelli mediante richiami.
Rodomonte nel primo approccio con Issabella “si mostrò sí costumato allora, / che non le fece alcun segno di forza” (Canto ventesimonono, IX), perché la gentilezza d’aspetto di lei smorza la sua prepotenza virile, inducendolo a limitarsi alla buccia pur potendo trarne fuori il frutto; giusto il tempo per tergiversare e dimostrarsi “uomo bestial” qual è (XXV). E Orlando impazzito, quando incontra per caso Angelica, “gli corre dietro, e tien quella maniera / che terria il cane a seguitar la fera / dimentico di averla amata” (LXI). Viceversa Brandimarte al rivedere Fiordiligi “lasciò la guerra, e tornò tutto umano” (Canto trentesimoprimo, LX), testimoniando che il medesimo individuo è capace di efferatezza e tenerezza, ma la distinzione tra campo militare e amoroso può svanire da un momento all’altro, dalla pace apparente al clima bellico non c’è che un passo.
Infine il motto con cui Messer Ludovico Ariosto conclude l’opera, già nella prima edizione del 1516, a corredo dell’immagine di un alveare dato alle fiamme dal contadino ingrato: Pro bono malum. Perché è più saggio non far conto sul bene in astratto e non farsi illusioni sulle ricompense, meglio non coprire con pietosi veli i rischi naturali e sociali, l’evidenza antropologica. A ogni nuovo corso storico torna il compito d’apprender la lezione per fronteggiare lucidamente la violenza, consci che in ciascuno di noi umanità fa solo rima con bontà:
ch’anch’io sono al mio ben languido ed egro, sano e gagliardo a seguitare il male. (Canto nono, II)
Mattia Morretta