Aids: La lunga scala Il percorso del morire. L'esperienza della fine e la condivisione della sofferenza, Edizioni Unicopli, Milano, 1995
“Per chi suona la campana? Io sono il prossimo (…) Filosoficamente tutti stiamo andando nella stessa direzione, ma la velocità non è la stessa” (Giovanni Forti, L’intruso)
L'Aids condensa molte vicissitudini e molti problemi della nostra epoca, in particolare rispetto all'immagine dell'uomo occidentale, e proprio per questo ha o ha avuto la possibilità di diventare una "metafora" con numerosi significati e diverse interpretazioni.
Non è in gioco solo il tema della morte, in quanto vengono attivati tutti i principali oggetti-contenuti culturali divenuti meno maneggiabili e più difficilmente vivibili in prima persona dagli uomini, soprattutto negli ultimi decenni.
La morte per la norma contemporanea esiste solo quando è apparecchiata sul tavolo dell’obitorio, nei "brani" destinati all'occhio dell’anatomopatologo, oppure confinata nel recinto della dissertazione scientifica impersonale, anche nella versione divulgativa e didattica delle riviste sulla salute.
Altrimenti essa può "ex-sistere" nel sociale a condizione di portare i segni della morbosità e dell'eccitazione. Appare, allora, e scompare nelle immagini e nelle parole "emozionanti" collegate alla violenza, alla tragedia, all'eccesso, allo stra-ordinario
Il discorso sulla morte merita invece una connotazione sentimentale, merita cioè di essere attraversato intenzionalmente dai sentimenti e dagli affetti, senza dover ricorrere alle autorizzazioni e ai paludamenti forniti dalla professionalità o dalle competenze tecniche, come pure senza dover scivolare nel mercato delle emozioni.
Fare esperienze nella società moderna è estremamente difficile, se non impossibile, in quanto ogni cosa viene confezionata, predisposta e offerta al consumo, come sugli scaffali dei supermercati, ad acquirenti liberi solo di scegliere tra i vari prodotti proposti. L'ha espresso bene Antoine de Saint-Exupéry ne Il piccolo Principe, con le parole pronunciate dalla volpe: "Gli uomini non hanno più tempo per conoscere nulla. Comprano dai mercanti le cose già fatte. Ma siccome non esistono mercanti di amici, gli uomini non hanno più amici”.
Non è consentita l'esperienza autonoma. L'espropriazione dell’esperienza della sofferenza e del piacere rappresenta una delle macchine infernali meglio costruite dalla modernità. Se l'individuo viene esautorato della possibilità di sentire piacere e dolore, di provare fino in fondo la sofferenza, e quindi di misurarsi con la propria capacità di provare emozioni e sentimenti, anche l'esperienza finale della vita, cioè la morte, non può che subire la stessa sorte di negazione.
Esiste, peraltro, un parallelo storico tra l'emergere del sesso sulla scena sociale e la scomparsa della morte dalla socialità e dalla quotidianità, che ha comportato e al contempo espresso un cambiamento radicale dell'equilibrio tra le forze in gioco e delle aspettative della collettività circa le condizioni di vita e le opportunità di gratificazione.
Oggi la sessualità ha sostituito la morte nella ritualizzazione collettiva, sicché la pornografia vera riguarda la morte, con la sua morbosa spettacolarizzazione nei mezzi di comunicazione di massa e il confinamento nella sfera privata, sino all'ipotesi di un suo totale superamento quantomeno come termine di confronto o pietra di paragone sul piano morale.
Assistiamo nel presente agli effetti di una "cultura" volta a disorientare le persone, che crea cioè le condizioni per cui il soggetto non possegga più una bussola interiore, un centro, il che rende possibile e necessaria una prescrizione generalizzata sulle modalità e sulle finalità del comportamento dei singoli. Saranno allora i giornali, la televisione, i mass media in genere a prescrivere alle persone cosa devono fare e cosa devono sentire, cosa è "giusto" provare.
La mediazione della "macchina" non si realizza solo nell'ambito della medicalizzazione, ma si estende a tutta l’esistenza, non c'è aspetto della vita per il quale si possa evitare di rivolgersi e prestare ascolto ad un "esperto" attraverso i media.
L'identità viene così "massificata" proprio mentre si offre l'illusione della originalità, mentre cioè si lascia intendere che, seguendo le istruzioni, ciascuno giunga a realizzare se stesso. Ha scritto, a proposito della nuova società, Tony Duvert: “Basta immergervi una persona qualsiasi perché diventi uguale a tutti, con la felice illusione di essere solo se stessa, e perché agisca esattamente come tutti, con motivi strettamente personali per farlo".
I soggetti così disorientati e imboniti divengono poi degli ottimi consumatori, disponibili e desiderosi di "acquistare" quel che vien loro suggerito (o imposto) sia in termini di piacere che in termini di dolore. Il dolore viene spostato in un primo tempo nel privato e in un secondo momento addirittura proiettato fuori della vita; quindi non solo nascosto, bensì eliminato e cancellato.
Contemporaneamente il piacere conquista la sfera pubblica e viene/va esibito. Esso diviene prima un diritto e poi persino un dovere: è prescritto che si debba provare piacere, godere fino in fondo, e che ci si debba affermare secondo un copione che rende sconveniente ogni piega e chiaroscuro nella realizzazione personale.
Non solo la morte, ma anche la malattia diviene un fallimento dell'individuo e un tradimento dei collaterali e degli altri in generale. Il malato non deve mostrarsi anzitutto perché testimonia il fallimento di un individuo specifico, nel senso di una sua incapacità di stare al passo con il modello salutistico ed efficientistico imposto come obiettivo dell'autorealizzazione; egli pertanto si sottrae dell'imperativo della vanagloria, cioè dell'esibizione di una felicità e di un successo apparenti quanto inconsistenti.
Oltre a ciò, tuttavia, il malato non può mostrare le proprie stigmate dell'infelicità, dell'insoddisfazione e della malattia, perché altrimenti tradisce il mondo dei sani. In pratica, il malato tradisce un patto non esplicito che è solo una collusione collettiva fondata su una fantasia di onnipotenza, in base alla quale tutti sono impegnati a sostenere un'impresa assurda e in verità infantile (o puerile), benché supportata dalla scienza e della medicina più affermate: pensare di poter eliminare tutto ciò che è dispiacere, di non confrontarsi più con i limiti e di ritenere ogni limite valicabile.
Sono questi, di fatto, gli assunti fondamentali della "civiltà materialistica" che, proprio grazie al fenomeno della massificazione realizzata negli ultimi decenni, ha potuto conoscere un consolidamento e una capillarità prima impensabili e forse imprevedibili.
Ciò non solo per il progressivo accumulo di risorse e per lo sviluppo industriale degli ultimi cento anni in Occidente, bensì anche, e forse soprattutto, per via della possibilità sempre più sofisticata di diffondere la cultura del consumismo e di creare il bisogno di una autorealizzazione fittizia promossa dai mass media per conto del mercato economico.
Tale delirio collettivo ha degli agganci scientifici ed è quotidianamente avvalorato mediante una propaganda insistente e insolente, basta leggere il giornale, ascoltare la televisione, guardarsi attorno, o anche scorrere le relazioni dei medici nei vari convegni tutti promettono miracoli, salvezza, eliminazione del dolore, posticipazione all'infinito della vecchiaia eccetera.
Non esistono più, secondo questa impostazione, fasi o cicli nella vita. I vecchi devono essere giovani e mostrare di esserlo, rinunciando al patrimonio dell'età e dell'esperienza. Esiste un'unica fascia veramente significativa ed è quella dell'uomo di età media, affermato e di successo, che non ha limiti e che può pensare di potere ottenere tutto ciò che desidera, cioè di poter soddisfare tutti i propri desideri (proprio come un infante!).
Descritto in questo modo è evidente il carattere irrazionale del progetto: eppure si tratta del nostro pane quotidiano, del sottofondo della nostra formazione e della nostra "cultura". La cultura stessa infatti viene assimilata ad un prodotto acquistabile a buon mercato, in saldo o in offerta, come infarinatura generale e di tutto un po’. L'importante è scongiurare la fatica, evitare di fare esperienza nella propria vita, sfuggire al lavoro sul piano esistenziale.
In sostanza si deprivano le persone della sensibilità e dell'elaborazione in proprio Le vere elaborazioni personali, infatti, necessitano di "rinunce" e di "sofferenza", una sofferenza non delegabile e non contrattabile.
Quando ci si preoccupa di presentare il tema della morte o quello dell'Aids e della sessualità garantendo di bandire la "tristezza", si fa in fondo il gioco della cultura “edonistica". Al contrario, non dobbiamo per forza garantire "godimento" o allontanamento del dispiacere. Perché mai si deve a tutti i costi vigilare affinché il "pubblico" non soffra?! Siamo ossessionati dalla ricerca di messaggi che scongiurino nell'interlocutore il verificarsi di autentica sofferenza, di paura o di rifiuto dei contenuti proposti.
Anche gli "educatori" vogliono trasmettere solo cose buone e belle, evitando se fosse possibile ogni cosa sgradevole o generatrice di ansia e sofferenza. Eppure, proprio nel potere sperimentare nel profondo il dis-agio sta il valore e la sostanza dell'esperienza. Anche provare paura è fare esperienza. È fondamentale poter avere paura, poter conservare la capacità di assumere le proprie responsabilità e di fare delle scelte.
Non è per nulla vantaggioso che qualcuno decida al nostro posto e ci esautori della possibilità di sperimentare nella nostra esistenza anche la paura e la difficoltà di assumere le responsabilità dei nostri atti personali.
Oggi, invece, tutti sono considerati "minorenni" rispetto ad una scienza che funge da tutore e protettore, che elabora un'idea di vita e di mondo ai limiti della realtà e dell'artificio.
Esiste uno status di minorità dell'uomo adulto contemporaneo, per cui "qualcuno" decide al suo posto concedendogli al contempo l'illusione di vivere una vita onnipotente e di piena gratificazione. Vale la pena pertanto di coltivare un certo scetticismo anche riguardo al significato ultimo della ricerca di un vaccino contro il virus Hiv.
L’intervento di scoraggiamento e disorientamento culturale in atto da decenni raggiunge il massimo con la morte. Essendo svuotata di qualunque significato "positivo" per l’individuo, non si considera buona cosa voler acquisire una competenza persona le sulla problematica, che viene infatti delegata agli "esperti" (mediatori, tutori, sacerdoti della modernità). Dolore, malattia e morte necessitano così di un linguaggio specifico, sanitario o psicologico. Gli interlocutori "giusti", quando si soffre e si sta male, o quando si vorrebbe parlare della vita e del suo senso, non sono gli altri esseri umani, bensì i tecnici, coloro che se ne occupano per professione o per scelta. Tali esperti definiscono e spiegano cosa sia opportuno pensare, con quali strumenti sia possibile affrontare la tematica, di quali tecniche occorra far uso per ridurre l'impatto violento e traumatico dell'esperienza. Ai comuni, mortali, cittadini non resta che addestrarsi nell'arte della dissimulazione. Non ci si rende conto di quanto profonda sia diventata l'impostura nei rapporti interpersonali, dovendo fingere di non saper nulla del dolore esistenziale: non ci pensiamo, dato che siamo tanto felici! Persino alcune opere artistiche che intendono offrire una visione umanitaria delle malattie inguaribili (Aids compresa), compiono una sorta di rito esorcistico grazie al quale alla fine tutti gli altri, i non-malati, si ritrovano ancor più sani e soddisfatti di prima. Una sola persona viene accompagnata alla morte, mentre nel contesto circostante la salute, la bellezza, la ricchezza e la prospettiva di futuro non risultano minimamente intaccati. Ciò significa che si può anche arrivare ad accettare di parlare della morte, a patto che poi muoiano le persone "giuste" e non venga messa in discussione la cultura sociale nel suo complesso. In sostanza deve trattarsi di un trauma individuale, di quel singolo individuo e di quel nucleo di persone che vi sono intorno disgraziatamente. Si vuole evitare che la collettività sia chiamata a riflettere in profondità, oppure che si allarghi a macchia d'olio il senso dell’esperienza. Eppure, non c'è nulla di così precario come la vita umana, il nostro esistere è camminare su un filo, il non-esserci è sempre qui accanto, tra poco, qualche minuto. La fragilità dell'essere umano è tale che l'esserci è costantemente contiguo al non esserci, nostro o di qualcun altro. Il problema della morte nella società contemporanea non si riduce, comunque, come può sembrare in apparenza, alla negazione o rimozione. La platealità dei tentativi di allontanare, dissimulare, evitare la morte o il morire, nasconde anche uno spaventoso desiderio di morte che intride e attraversa il sociale. Non si tratta del desiderio della morte in quanto organizzazione di una cultura volta ad integrare gli aspetti e le polarità dell'esistenza umana, non solo a livello comunitario ma anche a livello dei singoli. Ciascuno dovrebbe infatti poter integrare e conoscere anche le parti negative (auto ed etero distruttive) di sé. Uno sviluppo "sano ed equilibrato" non può certo essere quello della realizzazione superficiale e a senso unico attualmente di moda. L'uomo dovrebbe rendersi conto del bianco e del nero e dei chiaroscuri presenti in ognuno, comprese le componenti regressive e aggressive, spingendosi a capire di cosa si è capaci come esseri umani (di cosa è stato capace il genere umano nel corso della storia!). Umanità non vuol dire soltanto aspetti idilliaci e sentimentali, non è l'immagine edulcorata della natura umana. La piena umanità è il nostro patrimonio ed il nostro obiettivo. In questo senso lavoriamo per una cultura che ci consenta di riappropriarci anche della morte e della sofferenza, dato che nel nostro contesto si è creata una mancanza a tale livello. Manca una parte, non c'è vita reale senza una accettazione dell'idea del dolore e della morte. La parzialità dell'impostazione culturale corrente ha di fatto prodotto l'emergere ovunque di un desiderio di morte, onnipresente nell'occidente che finge disinvoltura al riguardo. Si constata in ogni ambito una enorme quantità di distruttività e auto-distruttività, camuffate da voglia di vivere e godere. Il vitalismo esasperato si nutre di disperazione e costituisce un tentativo paradossale di recuperare le componenti scisse e ritrovare unità. L'estremizzazione infatti si generalizza, è circolare. L'enfatizzazione di un aspetto apre la strada al rafforzamento dell’opposto, del contrario; poiché non è possibile realmente eliminare ciò che è costitutivo e "naturale". La morte negata si attacca allora come un parassita alla vita snaturata e gli uomini se portano dietro ovunque, come un cadavere in valigia. Da qui il vissuto di morte che accompagna anche nella quotidianità gran parte delle persone, a livello più o meno inconscio. Non una morte pensata e oggetto di riflessione, ma una morte impersonale, quasi un nemico sempre accanto e alle spalle, proiezione del pericolo interiore. Questa morte solo negativa è visibile in molti comportamenti dei giovani, ma non solo. La verità, dunque, è che assistiamo alle manifestazioni di un grande desiderio di morte, che è l'altra faccia della medaglia della pseudo vita propagandata e pressoché imposta dalla cultura contemporanea. Si comprende allora, in questa ottica, come l'Aids possa far crollare molti dei presupposti di tale mitologia. Anzitutto, l'Aids riporta la morte vicino: la morte è vicinissima, è nella quotidianità, non è possibile proiettarla lontano. Viene messa in crisi l'operazione di esportazione verso il "terzo mondo", che per noi è rappresentato anche da molte aree e popolazioni (o gruppi) interni allo stesso Occidente (basti pensare alla Jugoslavia). La televisione e la stampa ci propongono una tavola imbandita dei dolori e dei vissuti altrui. Quelle passioni e quelle emozioni, quei vissuti "impossibili" all'interno, cioè non autorizzati sulla scena sociale, devono essere poi in qualche modo “recuperati”, non potendo essere realmente eliminati. Ciò che non può essere provato e sperimentato in proprio, la sofferenza privata che non è passibile di riflessione ed elaborazione personale, si specchierà fino alla commozione, alla compassione o alla curiosità morbosa, nella realtà senza contraffazione del dolore degli altri, di chi non può sottrarsi, di chi subisce e patisce la crudeltà della vita e della morte. Per noi la morte è sempre quella degli altri, meglio ancora se dei popoli lontani, afflitti da carestie e guerre realtà di cui abbiamo solo un vago ricordo (benché siano il nostro l'altro ieri, letteralmente). La morte lontana e proiettata, non l'Aids ritorna vicina e insidiosa, nascosta persino dietro e dentro il piacere. Dopo aver creduto di poter perdere la testa nella sessualità e di poter fare a meno della responsabilità, di poter usare il sesso per affermarsi e via di seguito, ecco che constatiamo sbigottiti quel che abbiamo e tutti hanno sempre "saputo": cioè che l'amore espone a dei "rischi", che la sessualità ha sempre "conseguenze", che le persone incontrate sessualmente non sono riducibili ad involucri. Tutte verità risapute, eppure non-conosciute, poiché su di esse non si riflette più. Il legame tra sessualità/piacere e morte ha rappresentato un ambito di riflessione culturale fin dall'antichità e presso tutte le culture. In ogni caso, esso costituisce un contenuto fondamentale della auto-consapevolezza umana, rientra cioè in quel patrimonio che l'uomo sperimenta e conosce intuitivamente, in maniera preconscia e inconscia, come eredità antropologica. La morte di Aids è inoltre attesa, senza mezzi termini o sovrastrutture, a conferma della verità elementare che i vivi sono destinati a morire. Tale ovvietà risulta sconvolgente nel nostro presente. Per intorbidare le acque si dirà che è una morte meritata, spostando l'attenzione sull'aspetto retributivo e fatalistico. In effetti, se la morte è un’oscenità, quando viene ritenuta "provocata" diviene la peggiore bestemmia. Chi gioca con la vita, è destinato a una punizione esemplare. Con l'Aids la morte viene scambiata, cioè si dà e si riceve, inscrivendosi senza mediazioni nel sociale, come avveniva "un tempo" in guerra. In questo caso, poi, la morte non solo è scambiata nella quotidianità, ma addirittura nella camera da letto! È una morte che si dà e si riceve nell'intimità, direttamente: nella vicinanza dei corpi, nella mescolanza degli umori materiali. Anche tale contenuto ha un proprio fondamento antropologico ed è in qualche modo intuitivamente comprensibile. È sempre stato pane quotidiano della cultura il concetto della complessità e pericolosità della relazione intima tra gli esseri umani. Avremmo bisogno anche noi "moderni" di una educazione all'intimità e alla prossimità con gli altri; eppure l'argomento giace abbandonato fra le cianfrusaglie di una mentalità ritenuta sorpassata. Quanta distruttività e quanta onnipotenza negativa vengono travestite con sentimenti "nobili" a buon mercato! Esistenze mediocri e ridotte in miseria dalla sete di risarcimento vengono così nobilitate mediante gesti sacrificali attribuiti all'Amore. Dietro e dentro il sorriso di Venere può nascondersi indisturbato, perché insospettato, il morso famelico di un egoismo letale. Non sorprende allora il fenomeno del contagio "vendicativo", intenzionale o preter-intenzionale, doloso o colposo. Molte fusionalità e simbiosi nei rapporti amorosi, di fatto foriere di distruzioni morali e di annientamento psichico, si traducono con l'Aids in concreto bombardamento contro l'identità biologica del partner. L'altro viene lasciato, in senso letterale, “agonizzante". Incredibilmente, fare l'amore e fare la guerra possono finire per coincidere e la guerra batteriologica può diventare una realtà quotidiana alla portata dell'uomo della (o sulla) strada. La cascata dell'incoscienza produce un circolo vizioso in cui il male subìto si perpetua attraverso il male agito. La lotta per la sopravvivenza in alcuni casi specifici può tramutarsi in brutale e concreta realtà proprio in relazioni apparentemente fondate sull’amore, il malato allora non solo non fa nulla per "tenere in vita" l'altro, ma si adopera per affossarlo o tirarlo verso la morte ("il naufrago ama tirarsi appresso colui che lo aiuta'', S. Zweig), il partner a sua volta può "farsi fuori" grazie a un complice. Viene da chiedersi: quando riusciremo a dire "ti amo da vivere" invece che "ti amo da morire”? Ulteriore fenomeno associato all'Aids è quello della localizzazione. La morte "viene localizzata", nel senso che si individuano alcune persone condannate a morire. Si dice allora che esistono malati terminali, malati di Aids cui la morte viene annunciata e che devono morire. Come se solo quelle persone morissero e gli altri non venissero interessati dall'evento morte e dalla questione della mortalità. Si elencano e si precisano le cause di morte, quasi a lasciar intendere che, in assenza di quelle, la morte stessa possa non verificarsi. I sani, gli altri, non devono sentirsi coinvolti direttamente, semmai si organizzerà per loro un'operazione di commiserazione o pietismo, se non addirittura di studio. Il volgare materialismo della nostra epoca appronta così ricerche e spiegazioni tanto presuntuose quanto prive di umanità: "la banalità prepotente che spiega tutto senza capire niente" (Christa Wolf). Si assiste così all'esibizione degli studiosi e degli operatori del settore che, pur non avendo alcun interesse né l'intenzione di capire cosa vivono i malati, pretendono di spiegarne la condizione. I fenomeno della localizzazione è stato evidentissimo nei primi anni della comparsa dell'Aids, pareva esserci una gara anche in ambito scientifico fra i vari ricercatori e medici per arrivare a stabilire la percentuale di soggetti infettati dal virus che si sarebbero ammalati. Ci assicuravano in rapida successione che sì, sarebbero morti proprio tutti. E ciò avveniva in pubblico, in modo spettacolare e vergognoso. Nessuno si è mai scusato per questo gioco al massacro esibito come affermazione del rigore scientifico. Gli scienziati potevano e dovevano impunemente dichiarare: “Non preoccupatevi, sono proprio queste le persone destinate a morire". Del resto, sono i malati a dover morire. La localizzazione della morte in alcune esperienze serve a rassicurare la maggioranza presunta sana sulla possibilità di evitare, almeno in quella specifica circostanza (se non per sempre), la morte: non è la tua morte in discussione, non sei tu a morire. Si è compiuto pertanto un sacrificio rituale, mediante il quale alcune persone nel mondo occidentale sono state forzate ad adattarsi permanentemente a un certo ruolo e a un certo personaggio, quello appunto di un individuo cui è stata annunciata la fine e che deve morire secondo le indicazioni e istruzioni scientifiche. Negli anni abbiamo fortunatamente assistito ad una modificazione almeno parziale dello schema, grazie soprattutto all'impegno di alcune persone con Hiv/Aids, che hanno cercato di dimostrare cosa c'è dietro il nulla dello stereotipo. Anche dietro il caso umano o pietoso, difatti, non c'è verità, c'è solo ciò che è stato concesso e prescritto: cioè una sofferenza chiusa su se stessa, che non apre la strada a riflessioni. Le persone con Aids che hanno lavorato nelle Organizzazioni non governative hanno invece tentato di dilatare la propria esperienza, conquistando una dimensione esistenziale. Prima delle persone con Aids c’era solo il malato di Aids, fantoccio e fantasma nello stesso tempo, aggredito da un certo virus e annientato da infezioni o tumori, vittima per di più di discriminazioni sociali, con il compito fondamentale di rappresentare qualcosa per tutti gli altri. Sulle spalle dei malati gravava (e grava) un fardello tremendo di problematiche collettive, una croce sociale spaventosamente pesante. Le persone con Aids sono anzitutto "vittime" di una tragica malattia, alle prese con il tentativo di adattarsi a convivere con i suoi condizionamenti e con le sue conseguenze, e in secondo luogo lasciate sole e senza alcun supporto culturale (non assistenziale) per elaborare una possibilità di accettazione esistenziale. Non esiste di fatto oggi alcuna condizione paragonabile all'Aids in termini di dispiacere: tutti si augurano di non trovarsi mai nei panni del malato di Aids! Eppure decine di migliaia di persone in questi anni hanno vissuto in quella situazione che tutti si affannavano a delimitare, proiettare, descrivere morbosamente o spiegare sadicamente. La medicina, del resto, riconosce un proprio fallimento solo per poter prospettare un nuovo trionfo, attraverso il ritrovamento di un farmaco efficace o di un vaccino, sull'onda del messaggio antiscientifico, eppure così pervicace, dell’“io ti salverò!". La medicalizzazione perciò è e sarà l'unica strada percorribile dalle persone con Aids. La stessa diagnosi precoce non sarà altro che un modo di essere malati per un tempo più lungo, in attesa di una restaurazione dello stato di cose antecedente all’Aids. L’obiettivo infatti è quello di far tornare tutto "come prima”, cioè di cancellare l'esperienza originale in senso sociale, culturale e umano, il vaccino stesso dovrebbe consentire alle persone di pensare che l'Aids sia stato solo un brutto sogno o un incubo, comunque una parentesi. Invece, l'Aids non è una parentesi e non dovrebbe esserlo, data l'importanza della posta in gioco: non solo lo "stile" di vita sessuale, ma anche e soprattutto un'idea di vita. Rischiamo di perdere l'occasione di ragionare seriamente sull'amore e sulla libertà, sull'essere e sull'avere. Riappropriarsi della capacità di fare esperienze consapevoli in ambito sessuale e relazionale, compresa la capacità di soffrire, pare un'ipotesi incomprensibile o reazionaria. Nel nostro contesto culturale, solo il pensiero religioso valorizza la sofferenza, considerandola come un elemento che intride l'esistenza umana. Nella cultura "laica" o cosiddetta tale è al contrario rarissimo ascoltare voci che propongano riflessioni sulla sofferenza, invitando a trovare modalità di accettazione, incoraggiando a tenerne conto. Si fatica a rinvenire una proposta culturale che elabori un'idea integrale di essere umano, cioè comprensiva di tutto quanto rientra nella umanità. Viene propagandata solo un'immagine parziale e deformata dell’uomo, escludendo ciò che non si accorda col progetto attuale narcisistico e onnipotente di affermazione. Mattia Morretta (1995)