Après Michel A quarant’anni dalla scomparsa (25 giugno 1984), l’immagine e il ricordo in dissolvenza di Foucault, maître à penser del XX secolo.
Il 3 giugno 1984 Michel Foucault, tra le personalità più note e influenti della cultura europea del Novecento, accusava un grave malore, tale da portarlo a morte per Aids ventidue giorni dopo. In meno di un mese tra silenzi imbarazzati era passato dalla luce della cattedra filosofica alla tenebra dei reparti di infettivologia, allora zone grigie della medicina alle prese con la prima ondata del mal fatale che sarebbe presto diventato pandemia.
Nessun commento dell’interessato, scivolato il 29 giugno a capo chino nella fossa all’età di 57 anni, essendo nato a Poitiers il 15 ottobre 1926. Una fine triste per l’individuo e drammatica per la comunità intellettuale, segnata dal brutale e precoce strappo della pagina incompiuta dal libro mastro, poiché Foucault è stato la vera vittima eccellente della sindrome col sigillo del sesso e del sangue. Eppure una caduta degli dei meno imprevedibile di quanto si potesse supporre, dato che il sudario di appestato o lebbroso poteva rappresentare un abito di scena adatto alla sua ininterrotta teorizzazione a favore degli esiliati e sulla contestazione dell’ordine costituito. Non è chiaro se fosse già al corrente del suo stato e avesse preferito sorvolare; è possibile che avesse rimosso completamente il problema, lui che aveva fatto dell’ardita sperimentazione corporea l’ultimo baluardo contro la manipolazione delle menti da parte della società. Uno dei numerosi punti in comune col coevo Pasolini, che nel medesimo periodo aveva attribuito ai corpi, “carichi dell’arcaica, fosca, vitale violenza dei loro organi sessuali”, la forza della realtà contro l’irrealtà del consumismo. Foucault del resto aveva più volte infilato la testa nella bocca del leone statunitense, frequentando quei laboratori metropolitani dell’erotismo che sono stati il brodo di coltura dell’Aids. Per associazione di idee si può citare Jerry Wilson, il fotografo che è stato intimo amico e compagno di viaggi di Marguerite Yourcenar, deceduto anch’egli di Aids a Parigi nel febbraio del 1986. I sintomi si erano manifestati mentre si trovavano insieme in India l’anno precedente e la diagnosi era stata confermata al rientro negli USA. Yourcenar aveva commentato: “Abbiamo parlato di questa malattia, che si sapeva sessualmente trasmissibile. Lui aveva affermato che non desiderava cambiare in nulla le sue abitudini di vita, qualsiasi rischio ci fosse da correre. Io non condividevo la sua opinione, ma non mi sognavo di mettermi a fare la morale”. A distanza di decenni si può registrare che l’influsso di Foucault sui movimenti omosessuali di qua e di là dell’oceano (in Italia solo per importazione tardiva) è stato maggiore del previsto, benché nei termini della piatta divulgazione dei punti più deboli della sua lezione. È indubbio infatti che siano state sviluppate, sino alle estreme conseguenze, essenzialmente le complicanze concettuali di un disagio personale interferente con l’obbiettività di giudizio, gettando un’ombra sinistra sul suo fondamentale lavoro di analisi critica dei legami tra potere e sapere. Il suo lungo e sofferto cammino per argomentare di omosessualità in modo esplicito, e non indirettamente attraverso altre “diversità”, ha trascinato con sé contraddizioni e predilezioni marchiate a fuoco dall’inquietudine, favorendo, a dispetto dei lucidi principi teorici, la prassi di quel che oggi domina la scena sotto la voce queer, incluso il nuovo flagello del chem-sex, l’associazione a delinquere tra sesso e droghe, la nube tossica che avvolge la promiscuità degli ambienti gay a tutte le latitudini, il gusto del dis-piacere e della dis-identità, il sadomasochismo tribale, l’arroccamento difensivo sugli arretrati bastioni di cartapesta dei diritti. Comunque sia, le esperienze del periodo finale paiono far risorgere o forse riesumare il cadavere delle angosce giovanili, dando ragione a Wilde quando dice che “in ogni momento della nostra vita siamo ciò che saremo non meno di quel che siamo stati”. Perché Michel era stato uno studente solitario della Scuola Normale Superiore di Parigi, autore di vari tentativi di suicidio, soggetto a crolli psichici dovuti, secondo il medico interno all’Istituto, a “un’omosessualità mal vissuta e mal assimilata”. Anche da questo punto di vista non sorprende l’analogia con Pasolini, che nel 1950 confidava per lettera a Silvana Ottieri di aver “sofferto il possibile”, non essendo mai venuto a patti con la sua natura e reputando l’omosessualità qualcosa che non c’entrava con lui, una sorta di nemico. E aggiungeva: “Verso i diciannove anni ho avuto una crisi che si è risolta in una non gravissima nevrosi, in un esaurimento, in un ossessivo pensiero di suicidio (che spesso mi riprende ancora) e poi nella guarigione. Nel ’42 a Bologna ero sano come un pesce, ormai, e completo come un albero. Ma era una floridezza che non doveva durare”.
Come Pasolini era migrato a Roma, così Michel aveva cercato a metà degli anni Cinquanta tregua e tranquillità fuori dalla Francia, a partire dalla Svezia nel ruolo di lettore di francese, un soggiorno decisivo per la sua carriera, visto che a Uppsala aveva incontrato George Dumézil, il grande storico delle religioni cui è rimasto legato per tutta la vita e al quale si deve la sua elezione al Collegio di Francia. In un dossier comparso sulla rivista “Têtu” nel ventennale della morte, Paul Veyne, tra i maggiori esperti di antichità romana, suo allievo e amico, ricordava difatti che nella primavera del 1954 Foucault non era “il bravo pederasta senza problemi” che in seguito avrebbe cercato di accreditare quale immagine ufficiale. Al contrario era un giovane tormentato, devastato dalla messa al bando degli omosessuali nelle istituzioni formative, una negatività che aveva interiorizzato e in parte condivideva, come gran parte dei membri della sua generazione, evidente in una sua affermazione nel 1955 dalla quale traspariva una sorta di disgusto e disprezzo di sé: “L’omosessualità è una grande commedia isterica”. Sulla base delle dirette confidenze ricevute, Veyne riteneva che Michel avesse un’attitudine da samurai per reagire alla timidezza di base e che l’atteggiamento da guerriero derivasse dal ribaltamento della soggezione esagerata all’ambiente cattolico borghese (e sanitario) in cui aveva trascorso infanzia e adolescenza. Il filosofo gli aveva confessato che la sua grande passione ai tempi del liceo erano state le droghe e non l’emergere dell’omosessualità, in particolare gli interessava sperimentare come le sostanze fossero in grado di modificare i pensieri, dandosi da fare per procurarsene in abbondanza (cosa non difficile per il figlio di un chirurgo). Inoltre riferiva di aver iniziato le sue esperienze con una promiscuità sistematica di cui si vantava, proclamando di aver praticato sesso nel primo anno con duecento uomini, per dimostrare la “superiorità” dell’omosessualità sull’eterosessualità. Per lo storiografo segno dell’insanabile contrasto tra giudizio e pulsioni in un’intelligenza superiore, dotata di straordinaria capacità di elaborazione teorica tradotta in bella scrittura. Fatto sta che Foucault compie un ampio giro per tornare al cuore del suo problema e prende le mosse dagli “esiliati” interni alla società, cioè i folli, esclusi e rinchiusi nella propria terra, costretti a rappresentare l’Esteriorità e l’Estraneo. Con Storia della follia nell’età classica, che gli dà la notorietà nell’élite colta, evidenzia come nel corso dei secoli nella stessa isola di confino dell’irragionevolezza contrapposta alla ragione si siano trovati a coabitare i pazzi, gli alchimisti, i libertini, i diversi. E questo ha generato contaminazioni reciproche tra il pazzo colpevole-peccatore e il perverso insensato-matto, strambo oltre che strano (l’attuale queer, appunto). Con Le Parole e le Cose del 1966 Michel giunge alla vera e propria fama, un successo che gli garantirà la definitiva reputazione. Dopo il 68 diventa un personaggio pubblico, veste i panni del filosofo impegnato, a braccetto con Sartre, Deleuze, Genet e altri gauchistes, un nome associato ai movimenti di contestazione contro il razzismo, le disparità di classe, la situazione carceraria. Conferma il prestigio e l’impostazione critica con Nascita della clinica e Sorvegliare e punire, cui fa da appendice la fondazione nel 1971 del GIP (Gruppo di informazione sulle prigioni), che pure dura solo tre anni e lui stesso con amarezza considererà un tentativo fallito (“non è servito a nulla”). Ormai il suo compito è rendere visibili i meccanismi di potere esercitati in maniera dissimulata e sottratta agli sguardi, essendo finito il tempo in cui il controllo era esplicito, con i corpi martirizzati in piazza e le punizioni esemplari comminate in pubblico. Il passaggio successivo è stato la trilogia consacrata alla storia della sessualità, con La volontà di sapere nel 1976, mentre il secondo e terzo volume (L’uso dei piaceri e La cura di sé) andranno in stampa poco prima del decesso. Si delinea così l’idea di tre grandi epoche succedutesi in Occidente: i Piaceri in antichità, la Carne nel Cristianesimo e il Sesso nella Modernità. La psicoanalisi viene liquidata quale erede della confessione cristiana (tesa a far rivelare peccati e desideri carnali) e il marxismo freudiano, imperniato su Reich e Marcus, è giudicato carente in quanto bloccato sull’ipotesi dell’oppressione e del divieto. Foucault, ribaltando la visione più diffusa, fa notare che la psichiatria produce la sessualità più che reprimerla, la istituisce come nostra profondità obbligatoria, facendo proliferare le categorie dei perversi, dei quali definisce “un passato, una storia, un’infanzia, un carattere, una forma di vita, una morfologia”. Pertanto è necessario sottrarsi alla “scienza della sessualità” passando al contrattacco mediante i corpi e la plasticità sensitiva. Il libro ottiene un riscontro editoriale tale da meravigliare e sconcertare l’autore, che si sente mal compreso e amato in modo sbagliato. Per reagire alla crisi Michel ricorre ancora all'esilio, stavolta negli Stati Uniti, ove medita addirittura di trasferirsi, una “scoperta dell’America”, in versione comunità gay di San Francisco, che lo spinge a ripetuti soggiorni (nel 1975, nel 1976, nel 1980 e nel 1983). Affascinato dalla sottocultura sadomasochistica, strutturata e di primo acchito originale, arriva a fare dichiarazioni avventate: “La pratica SM sfocia in una creazione di piacere alla quale si accompagna un’identità, un processo d'invenzione”. E a perorare le droghe quale mezzo per produrre maggior godimento, quindi da studiare e saggiare per produrne di “buone” finalizzate all’intensificazione del sapere dei sensi. Esattamente ciò che è avvenuto a breve distanza dall'apparente fine dell’Aids, con la moda del “sesso chimico” che ha mietuto e sta mietendo vittime diffondendo schiavitù di tendenza oltre a dissolvere personalità e cervello, a tutto vantaggio di industrie farmaceutiche, medicina e psicologia di regime. Le nuove prigioni, senza più contestatori.
E dire che in Theatrum Philosophicum (1970) Foucault aveva parlato di effetti di superficie della condotta sessuale, cioè onde esteriori di correnti che si agitano nelle profondità del corpo, fantasmi interni di timore e di desiderio mescolati, un materiale esplosivo che dovrebbe venir maneggiato con cura. Al contempo non si possono ignorare i segnali di luce rivolti agli omosessuali quando argomenta di politica dell’identità e soprattutto di “amicizia come modo di vita”, per citare l’articolo pubblicato sulla rivista “Gai pied”, per il cui primo numero aveva già scritto un breve testo intitolato “Un piacere così semplice”, dedicato guarda caso al suicidio. Quante sue belle e ariose parole sono state portate via dall’uragano dell’omologazione linguistica e ideologica del XXI secolo, che ha fatto a pezzi gli aquiloni degli anni Settanta e Ottanta: creare nuove forme di relazione, fare della propria esistenza un’opera d’arte e dell’omosessualità qualcosa di desiderabile. Va aggiunto che non hanno sorpreso le recenti rivelazioni circa rapporti con ragazzini durante i soggiorni nel Magreb, perché il fenomeno era di ordinaria amministrazione all’epoca e tuttora comune, a dispetto dei garanti per l’infanzia e l’adolescenza, in fin dei “conti” una variante dello sfruttamento del lavoro minorile. Anche in questo caso le sue osservazioni e finanche profezie non perdono di validità, basti pensare all’intervista radiofonica del 4 aprile 1978, riportata in un testo italiano di tre anni dopo: “La sessualità si trasformerà in una sorta di pericolo diffuso, in una specie di fantasma onnipresente, che potrà entrare in scena tra uomini e donne, fra bambini e adulti, eventualmente fra adulti da soli, e così via. La sessualità diventerà dunque una minaccia presente in tutti i rapporti sociali, in tutti i rapporti possibili tra le diverse età, in tutti i rapporti tra gli individui” (Egle Becchi, L’amore dei bambini). La pedofilia difatti ha assunto negli ultimi decenni i tratti di una allucinazione collettiva, un “corpo del reato” che si diffonde proprio perché supposto e sospettato. Ancor più illuminanti e purtroppo dimenticate le sue parole sul malinteso della mitizzazione sessuale: “Noi non abbiamo liberato la sessualità, l’abbiamo portata al limite”. Limite della legge, in quanto contenuto universale del divieto; della conoscenza, essendo l’inconscio inteso quasi esclusivamente in termini di pulsioni sessuali (più o meno incestuose); del linguaggio, poiché essa designa “la linea di schiuma di ciò che il proibito può a malapena raggiungere sulla spiaggia del silenzio”. Se l’unica verità confessabile deve avere a che fare con la sfera sessuale o passionale, occorre giocoforza liberarsi dall’istanza del sesso, persino per tutelare una vita intima personale e non suggerita o imposta. Non meno decisiva l’idea che non sussiste un luogo della libertà, inutile illudersi al riguardo, dove c’è potere si genera resistenza e viceversa, sicché vale la regola della polivalenza tattica dei discorsi, quel che ieri era rivoluzionario oggi è reazionario e così via. Lui stesso aveva difatti dovuto cambiare di continuo campo di applicazione per poter sfuggire alla normalizzazione e lanciare in altra forma l’appello alla dissidenza e all’indocilità. Ma interiormente Foucault, come ricordava Paul Veyne, era troppo affascinato dalla potenza e aveva il gusto del dominare e dirigere, tanto che con lui si era o amici o nemici. E il suo coraggio era “fisico”, aveva bisogno di affrontare pericoli e rischi materiali, viveva praticando arti marziali per necessità rendendole fonte di un onirico piacere. E dunque? Dopo che il suo faro, pur ambiguo e discutibile, si è spento, per le nuove generazioni gay è diventato normale naufragare nel mare della superficialità, se non dell’ignoranza. Ironia della sorte, una delle sue affermazioni più brillanti era stata: “La sessualità manca di vocabolario”. Mattia Morretta