La sessualità alla prova dell’Aids Corso Formazione Volontari, Centro Ambrosiano di Solidarietà (CeAS), Milano, 18 gennaio 1992
"E poi, c'è la castità. Da quando ho scoperto la mia sieropositività, mi ci sono immediatamente votato, totalmente e senza una particolare sofferenza. Poiché se ho avuto dei grandi amori, dei desideri intensi, non sono molto riuscito nella vita, né nell'amore né nel desiderio" ( Jean-Paul Aron, Il mio aids, 1991)
L'associazione tra Aids e sessualità è forse il fantasma più pregnante nell'immaginario collettivo moderno. Se si intende l'inquietudine circa le conseguenze dell'intimità dei corpi e il collegamento del piacere con la morte, siamo di fronte solo all'edizione in forme attuali di turbamenti presenti in tutti i secoli e in tutte le culture. Che esista un nesso tra il sesso e il piacere da un lato e la malattia e la morte dall'altro lato è qualcosa che ciascuno può intuire e di fatto “sa”, pur se non si è in grado di esplicitare in modo coerente e logico i vissuti al riguardo.
Nonostante tale “ovvietà”, occuparsi di sessualità delle persone coinvolte dall'Aids è come guardare attraverso il buco della serratura della camera da letto per conoscere l'interno di una casa. Non è detto che proprio lì si situino le verità principali o vi sia un segreto da scoprire e di cui appropriarsi per giungere ad una comprensione intellettuale della condizione dei malati. Partire dal sesso, anzi, può essere persino un modo fuorviante di intendere i problemi di chi è affetto dalla malattia, benché l'aspetto della relazioni intime (affettive e sessuali) sia un nodo cruciale in tale situazione.
Per coloro che sono sieropositivi asintomatici o in discreta salute è questione tra le più impegnative e complesse perché implica le scelte da operare in ambito interpersonale a partire dalla rivelazione della diagnosi. La socialità e l'intimità sono rimesse in discussione sia per chi è in coppia sia per chi è solo e non ha legami affettivi, mentre nella esperienza delle persone con Aids la sessualità occupa un posto “piccolo” e ciò è anche un bene.
Nella patologia gravata dalla prospettiva della morte a breve o medio termine, laddove la materialità dell'esistenza e l'identità fisica dell'individuo sono gravemente compromesse, l'insistenza sulla possibilità di avere una vita sessuale come la vivono o possono desiderarla “i sani” (operatori e volontari compresi) può essere controproducente e mistificatoria. Il malato, se mai, andrebbe aiutato a trascendere la pura e semplice “concretezza” del proprio stato.
Quando il corpo diventa una minaccia e non coincide più con le aspettative ed aspirazioni del soggetto, quando c'è un conflitto oggettivo tra quel che si vorrebbe essere e quel che si può essere, tra l'immagine ideale di sé a livello corporeo e l'efficienza o abilità effettiva, il fatto di conservare stereotipi centrati sulla “salute fisica” determina una crisi dell'identità e dell'integrità che è fonte di immani sofferenze. È una tragedia, infatti, non poter più riconoscersi nella propria realtà corporea e non disporre di alternative agli scambi sessuali in termini di rassicurazione e affermazione.
Per chi è stato molto promiscuo o attivo sessualmente si tratta di uno scacco brutale e di una cesura netta rispetto al passato, alla stregua di una voragine che inghiottisca la strada più trafficata. Se pure l'individuo continuasse a fare tanto sesso, non gli sarebbe più possibile sentirsi “come prima”, poiché si è inserito un elemento di tradimento ed estraneità nel rapporto col proprio corpo e l'autoriconoscimento è compromesso. La personalità, pertanto, avrebbe bisogno di “smaterializzarsi”, cioè di attuare un reinvestimento su componenti altrettanto fondamentali.
Occorre tener conto del corpo che muta, si ammala, limita e fa soffrire. Si entra in una dimensione simile in parte a quella della vecchiaia. L'uomo anziano ha avuto modo di familiarizzarsi con un grado via via crescente di invalidità, adattandovisi lentamente, fino a che non si identifica più esattamente col sé corporeo. Va pur detto che oggi tutti i messaggi “culturali” vanno in direzione opposta all'adattamento al declino fisico.
Invece di sostenere le persone nell'acquisizione di un atteggiamento mentale sintonico con l'involuzione del corpo (che non significa rassegnarsi ad una qualità di vita scadente, bensì accettare la verità della parabola fisiologica dell'esistenza: tutto ciò che cresce, matura e decade), assistiamo ad una offensiva “giovanilistica” che prescrive di trasformarsi in caricature di uomini in una fase di evoluzione psicofisica sospesa nel tempo. Invecchiare non è consentito, uno scadimento delle prestazioni non è ammesso, bandita la disfunzione sessuale nella terza età, ammalarsi equivale ad un fallimento.
In apparenza le mitologie salutistiche sembrano andare a vantaggio degli individui incoraggiandoli a godere della vita e a non gettare la spugna; in realtà mascherano una violenta ingiunzione a spendere e consumare secondo copioni che generano profonde fratture nella sicurezza personale e distribuiscono più dispiaceri che piaceri. Sicché nessuno vuole fare rinunce sessuali, ammalarsi, invecchiare, infine morire; tutti pretendono di avere “il meglio” con strumenti presi in prestito dalla pubblicità e dall'informazione di massa. I costi di tale dis-educazione alla vita sono enormi, eppure non c'è chi li registri.
La persona con Aids, per lo più giovane, trapassa bruscamente dall'adolescenza alla vecchiaia, sia dal punto di vista fisico che dal punto di vista emozionale. Si trova così nell'anticamera della morte avendo saltato a piè pari lo stadio adulto (ammesso che attualmente sia possibile uscire da uno stato di minorità più o meno irresponsabile, soprattutto sul piano sessuale), senza aver potuto fare un cammino psicologico e corporeo – in quanto anche il corpo segue un suo tragitto predeterminato di auto-conoscenza. Ciò crea le premesse per un serio disadattamento alla nuova condizione.
La mente è impostata in senso narcisistico ed è insofferente alle limitazioni o agli ostacoli, pensa alla seduzione, al riconoscimento da parte degli altri, all'affermazione mediante la fisicità e al godimento di quel che viene di solito propagandato quale garanzia di benessere e successo (il sesso e l'apparenza). Stare fisicamente nel mondo, però, diviene un lavoro tragico e massacrante, dovendo fare i conti con le patologie, le deturpazioni, l'impresentabilità e la disabilità, nonché con la medicalizzazione dell'esistenza. Come guardarsi allo specchio? Cosa chiedere al corpo? Quanta realizzazione “fisica”?
Ritengo superficiale e falsa la posizione di quanti stimolano i malati (e i vecchi) a vivere il sesso per non subire la condanna all'astinenza del dettato cattolico! Siamo di fronte alla consueta polarizzazione delle posizioni ideologiche. A coloro che fanno pressioni per la castità e l'eliminazione della sfera sessuale fanno da controcanto quelli che si reputano paladini della sessualità e vorrebbero quasi imporre il godimento. La filosofia edonistica odierna si vende a buon mercato, ma non per questo risulta meno efficace delle vecchie teorie repressive, le quali fanno sorridere i più come un abito fuori moda.
L'esito costruttivo o distruttivo di un discorso sulla sessualità dipende di fatto dai destinatari e dai significati veicolati. A mio avviso, è sempre e comunque un malinteso incoraggiare l'attività sessuale. Occorre creare le condizioni affinché la persona riconosca i limiti e i confini del proprio status, anche nell'ambito fisico e sessuale, e trovi su tale base il modo migliore per sé, in quanto individuo unico e particolare, di continuare ad esprimersi e in quali forme. La sessualità è uno dei canali di espressione dell'umanità, ma non è detto che il “desiderio” sessuale debba necessariamente tradursi in pratica. Ciò vuol dire che alla fine si può giungere alla soluzione dell'astinenza o alla scelta della castità, come una modalità di vivere e non di negare la dimensione sessuale dell'essere umano.
Parlare di scelta nell'Aids può sembrare fuori luogo, perché non vi sono alternative in senso stretto. Ove lo svantaggio fisico e psicologico non lasciano scampo, rimane possibile scegliere la necessità del proprio stato, tentando di utilizzare al meglio le risorse esistenti o residue. Per alcuni ciò può voler dire adattamento ad un ridimensionamento drastico della vita sessuale, drammatico soprattutto agli occhi degli altri.
Un'indagine svolta nel corso del primo Convegno Nazionale delle persone sieropositive (Milano, 29-30 settembre 1990) mostra chiaramente l'economia restrittiva delle esperienze sessuali, specie in alcune fasi del decorso. La riduzione del numero di partner e di rapporti sessuali anche nell'ambito di coppie stabili è notevole e si accompagna talora a profonda angoscia.
L'atto sessuale non è mai neutro per chiunque, ed è del tutto comprensibile, anzi “fisiologico”, che chi è Hiv positivo provi turbamento rispetto al sesso, specie quando l'infezione è stata acquisita sessualmente. Per molti il sesso viene a lungo assimilato ai segnali di pericolo di morte sulle etichette delle sostanze velenose (il teschio con le ossa incrociate associati al corpo o ai genitali propri e altrui). Vi è una china da risalire per conseguire un reale adattamento alla sessualità dopo la diagnosi. Per questo credo sia insufficiente parlare di profilattico e consigliarne l'uso.
Ritengo persino fuorviante suggerire che l'Aids si prevenga mediante il preservativo. Il mezzo meccanico è utile ed efficace, ma la prevenzione può essere fatta dalle persone e non dagli oggetti. Puntare l'attenzione sul mezzo e sulla tecnica, trascurando l'attitudine e il vissuto, può produrre eventualmente una modifica delle condotte nel breve periodo, senza alcun cambiamento significativo dell'atteggiamento mentale. Ciò prelude ad una regressione delle misure di protezione ottenute a costo minimo, perché la paura e la sensibilizzazione hanno un effetto di durata limitata.
È dentro l'individuo, nel suo modo di pensare al sesso, che deve avvenire una modificazione, se si vuole garantire la continuità della prevenzione. Nulla, infatti, viaggia sui binari della “conservazione” più della sessualità umana. Inerzia, passività, quasi coazione definiscono di fatto i rapporti della maggior parte degli uomini con la loro sfera sessuale. Per tanti il sesso non ha nulla di creativo o di espressivo, è piuttosto una sorta di automatismo oltre che di gregarismo (“così fan tutti”).
Quasi mai la sessualità vissuta è frutto di una riflessione su quel che si desidera, prima ancora sul fatto stesso di desiderare, cosa si prova nella messa in atto, senza appellarsi alle nozioni dei manuali o degli esperti e prescindendo dai modelli in voga. Ci sono soggetti che si masturbano e compiono gesti sessuali per motivi affatto estranei al loro desiderio sessuale. Si tratta di ritualità ansiolitiche e antidepressive, ginnastica o sport, ribellione contro l'autorità, affermazione narcisistica, e molte altre motivazioni accomunate dall'esito, cioè dal consumo. Ne vengono confermate le aspettative di una certa “cultura”, che ha tutto l'interesse a non sottilizzare sui perché e i per come del sesso.
Ogni richiesta di sottoporre l'ambito della sessualità a criteri di responsabilità e controllo viene pertanto etichettata e bollata come “reazionaria” o indice di cattivo cattolicesimo. Non è così, perché si ha sempre da guadagnare dall'esprimersi in maniera personale . Le predisposizioni riguardo al sesso e quindi i bisogni relativi sono molto diversificati. È assurdo che tutti debbano desiderare una vita sessuale intensa, frequente, continuativa. Si aggiunge mistificazione a millantazione, visto che le dichiarazioni dei singoli sul sesso agito differiscono sensibilmente dalla pratica effettiva e dal grado di soddisfazione ricavata.
Di norma la defettualità è confinata nell'ambulatorio medico o psicologico, oppure taciuto e rimosso. Nella quotidianità non si può far cenno a difficoltà sessuali senza rischiare di venir derisi o di essere considerati “repressi”, perché è di moda funzionare a tutti i costi. Si comprende allora come debbano sentirsi coloro la cui sessualità è iscritta nel registro della problematicità obbligatoria.
Da anni siamo bersagliati da pubblicità anti-responsabilizzazione che associano la sessualità solo al piacere e alla fruizione, escludendo l'utilizzo dell'intelligenza o della ragione. Se il sesso viene presentato come una sospensione della coscienza, un momento nel quale la testa si perde (e si è autorizzati a perderla), le blande esortazioni alla prevenzione usando il cervello non possono che provocare conflitti o risultare retoriche.
Se la sottocultura dominante spinge verso il sesso quale espediente contro l'angoscia esistenziale e l'isolamento, tranquillante e strumento di assertività compensativa, si crea una situazione paradossale a livello emozionale allorché si invita a “lavorare” sul gesto sessuale in quanto potenziale fonte di angoscia. Non basterà perorare la causa del profilattico per superare la contraddizione tra le aspettative e ciò che concretamente accade nel sesso.
In realtà, la sessualità e l'amore non sono mai stati “senza rischio”, perché l'intimità interumana produce sempre qualcosa, non tanto in termini di malattie veneree quanto in termini esistenziali. Nell'era sessuologica si pretende che i rapporti sessuali siano “senza conseguenze” negative o addirittura emozionali tout court, a condizione che gli individui non vi partecipino integralmente o non si compromettano su altri piani. Un'ideologia che assimila il genere umano ad un agglomerato di potenziali partner sessuali non può che propagandare il sesso come evasione che assicura realizzazione se trasformato in una specie di professione.
Gli esponenti della corrente promiscua, per così dire, possono vantare allora decine o centinaia di partner che apparentemente non hanno lasciato traccia né dato luogo a conoscenze personali. L'Aids sembra ricordarci che l'impermeabilità e la superficialità assolute sono impossibili. Rimane in ogni caso qualcosa delle persone incontrate fisicamente e il nostro corpo non si riduce mai ad un involucro con orifizi e appendici per l'atto sessuale. Dietro a ciascun “partner” c'è una persona e nella vita sessuale c'è in ogni caso sofferenza, subìta, inferta e diffusa a maggior ragione attraverso transazioni inautentiche e approssimative.
Per questo è importante costruire un contesto nel quale trovino accoglienza l'inefficienza, la mancanza di desiderio, le difficoltà in genere nella sfera sessuale. Ben oltre la promozione del profilattico, occorre che gli Hiv positivi possano dire quanti e quali problemi sperimentino, affermando la possibilità del deficit, a cominciare dalla problematicità del pensare al sesso. Altrimenti si passa sopra la conflittualità e si pretende di vanificare la complessità, imponendo il silenzio su quel che non si vuol sentire e accettare.
Il gran parlare di preservativi serve infatti molte volte per non discutere del problema dell'adattamento ai limiti e alle restrizioni. Certo, è “facile” insegnare e imparare ad indossare un profilattico, ma non si può credere che usarlo sollevi l'individuo dalle inquietudini costitutive del proprio status o che renda il fare sesso analogo al bere un bicchier d'acqua.
Se la sessualità giace sotto il segno dell'angoscia, se il corpo non risponde più come un tempo, o se ci si rende conto di averne fatto un uso impersonale (quasi per assecondare esigenze altrui e non proprie), consigliare il profilattico significa far piazza pulita dei veri contenuti e dei reali bisogni. In effetti, nei servizi destinati alle persone con Hiv/Aids la carenza più plateale riguarda l'aiuto sugli aspetti psicosessuali. Al massimo si istruiscono le coppie sulle misure precauzionali fornendo un elenco piuttosto approssimativo e sbrigativo delle pratiche a rischio. L'accompagnamento nel percorso di modificazione della sessualità non è stata mai riportata da alcuna struttura o organizzazione di assistenza. I diretti interessati sono perciò abbandonati a se stessi, alle prese con le proprie rimozioni e con le banalizzazioni e reticenze altrui.
Per chi ha l'Aids è già diverso, perché quando è in gioco la vita o la sopravvivenza diviene secondaria la qualità “voluttuaria”. Vale anche per le malattie fortemente invalidanti e croniche, che costringono al letto per lunghi periodi e impediscono di disporre del corpo. Non è logico parametrare i bisogni di fisicità ed erotismo di un paziente con una grave infezione in atto con quelli di un soggetto in buona salute; pertanto, non si devono temere conseguenze dannose perché il malato manca di una vita sessuale “normale”.
Le esigenze di chi ha l'Aids non vanno fatte derivare dalle aspettative e concezioni dei sani. Va fatta un'operazione inversa, cioè identificarsi in modo sufficientemente profondo da rinvenire e quasi sperimentare il bisogno del malato e non sovrapporgli il proprio. Per la grande maggioranza delle persone con Aids da me conosciute la dimensione sessuale era oggettivamente secondaria, per alcune davvero marginale se non irrilevante. In primo piano, semmai, vi è l'aspirazione a sentirsi accolti e compresi “fisicamente”, un bisogno intenso e struggente di tenerezza verso un corpo indifeso e vulnerabile.
In un film americano dedicato alla solidarietà nella comunità gay ( Buddies, 1988), è presente una scena in cui il volontario “assiste” il malato mentre questi si masturba di fronte a un video pornografico. La finalità didattica dell'opera appare qui scivolare nell'ideologismo. È proprio indispensabile sottolineare che anche chi ha l'Aids può avere voglie sessuali o arrivare all'orgasmo?! Va bene, la sessualità dei malati in genere e dei portatori di handicap non viene mai mostrata o nominata, perché contrasterebbe con l'immaginario condiviso o con le regole del mercato consumistico.
Se di una persona malata si ha un'idea tanto povera e distorta da farla coincidere con la sua malattia, allora va ricordato che c'è molto più degli organi e delle patologie in un corpo sofferente. Tuttavia, antidoto vero al dispiacere sono il contatto fisico e l'intimità con presenze affettive.
Un uomo fisicamente provato, che soccombe spesso a sensazioni dolorose e sgradevoli, ha bisogno di carezze e di un piacere diffuso, adatto alla sua condizione. La qualità della vita viene spostata su un altro livello, non è il sesso l'oggetto del desiderio, pur restando il corpo il tramite della presenza nel mondo e delle relazioni interpersonali.
Non possiamo evitare di chiederci quale filosofia sostenga l'incontro con l'uomo in difficoltà. E occorre interrogarsi sullo spazio e sul valore dato al sesso nella vita: cos'è la sessualità per gli uomini? Io credo che non sia un valore, bensì uno strumento di creazione. Il sesso non può essere valorizzato in sé e per sé, non basta che vi sia sesso perché una situazione acquisti validità, fare sesso non è la condizione necessaria e sufficiente per considerarsi realizzati. Può darsi che le interazioni sessuali non generino nulla e non facciano scambiare alcunché.
La sessualità ha la proprietà in potenza di essere utilizzabile come canale relazionale di conoscenza, intimità, approfondimento e mezzo di generazione della vita (la riproduzione non è un incidente!). Nell'essere umano essa ha connotati diversi da quelli “naturali” (soprattutto in termini di complessità organizzativa del comportamento e di consapevolezza), ma mantiene comunque una sua strategia fondamentale che non può essere stravolta o distorta oltre un certo limite. Pensare alla sessualità come strumento e patrimonio comporta un intervento attivo di affinamento, per potere farne un uso il più possibile congeniale e personale, e di oculata gestione, per non rischiare lo sperpero o la svendita. Si tratta di spender bene una risorsa importante, di scegliere se e come metterne a profitto alcune componenti.
Non c'è un rapporto di servitù tra il mio patrimonio sessuale e la mia vita sessuale. Nell'ambito dei confini della dotazione, posso scegliere quanto e come usare l'eredità, se e fino a che punto svilupparne dei filoni. Non c'è automatismo tra desiderare e praticare. È anche la scoperta di una libertà insperata o inattesa: non bisogna per forza mettere in atto le fantasie, non si è costretti ad agire il sesso.
Specie laddove il corpo è fonte di frustrazioni, l'immaginazione e la sublimazione, dai più considerate dei surrogati, acquistano un ruolo rilevante nell'adattamento. La persona va incoraggiata a prendere coscienza della facoltà di esprimersi in maniera diversificata e articolata, di diluire e sublimare l'erotismo nelle transazioni con gli altri, di distribuire le sensazioni piacevoli in molte aree dell'esistenza. Se praticare il sesso produce più sofferenze e disagio che il non praticarlo, è utile sospendere il “debito sessuale” e uscire dal circolo vizioso della coercizione/delusione.
Michel Foucault ha dedicato buona parte del suo lavoro negli ultimi anni di vita all'affermazione dell'importanza dell'etica individuale in ambito sessuale. Per poter ri-scoprire la sessualità e la propria suscettibilità al piacere, l'uomo deve liberarsi dall< istanza del sesso. Non è vero che il piacere coincida con l'atto sessuale, o con il mangiare e il bere, e che tutto il resto siano sostituzioni inadeguate. Tuttavia, se pure si trattasse di operazioni di “riconversione libidica”, il percorso cosciente per giungere ad una maggiore libertà di espressione, scoprendo le corde più personali e sensibili per provare diletto, è a conti fatti un arricchimento benefico e non una repressione mortificante.
Il soggetto sarà in grado allora di percepire come tale il piacere di leggere un libro, raccogliere fiori, ammirare un quadro, dedicarsi alla spiritualità: tutte situazioni nelle quali il corpo manifesta la sua capacità di rispondere agli stimoli esterni ed interni con vissuti di con-tatto e partecipazione alla vita, stati di ben-essere nel rapporto con se stessi e con il mondo. Ciò equivale a dare respiro a chi patisce la mancanza d'aria del disagio corporeo sovraccaricato dal mito del sesso agito.
La libertà è soprattutto una condizione interiore, tra noi e i nostri atti esiste più che uno scarto. A maggior ragione per chi è piegato dalla coscienza della finitezza e della vanità dell'appropriazione, è assurdo insistere sull'azione, sulla pratica, sul possesso, in una parola sull'avere. La ricerca dell'integrità, la valorizzazione dell'interiorità e della dimensione spirituale aprono la strada alla possibilità di trascendere la condizione di malattia e sofferenza. Perché non c'è una soluzione fisica al problema della morte, non c'è soluzione materiale alla decadenza e all'invalidità del corpo.
L'unica risposta, ammesso che esista, va cercata altrove, oltre la materialità. L'illuminazione della prospettiva spirituale può far ritrovare autonomia anche a chi non è autosufficiente, poiché la dipendenza fisica dagli altri non va di pari passo con quella psicologica. Chi è malato può essere aiutato a conservare ed esprimere l'identità, se gli altri intorno hanno una concezione anche metafisica dell'essere umano, riuscendo a vedere al di là del groviglio di patologie ed organi devastati che porta a spostare nel registro degli assenti dal mondo coloro che sono più vicini alla morte.
D'altronde, il panorama dei malati di Aids è sovente desolante, perché molte esistenze erano disastrate ben prima della diagnosi. Come recuperare un uomo dove non lo si intravede o non lo si trova? Chi è l'uomo e cosa significa la sua vita? L'assistenza spirituale è la presa in carico complessiva di sé e dell'altro, è farsi garante dell'identità umana sino in fondo, sino alla fine, cioè al momento in cui si incontra la propria nullità e si torna ad essere uno tra i tanti.
Il cambiamento dell'attitudine e della condotta nell'area sessuale è la sfida principale degli Hiv positivi, perché il cosiddetto “sesso più sicuro” è per certi aspetti una utopia, se si prendono alla lettera le indicazioni più rigorose per evitare la trasmissione del virus. Personalmente non mi faccio illusioni sulle norme preventive, la cui attuazione è ben lontana da quella auspicata e auspicabile. Considero ai limiti del possibile adattarsi al vero sesso sicuro da soli o in coppia.
La semplificazione del problema con l'accento sul profilattico non crea barriere sufficienti contro l'emergere di spinte distruttive, l'intensificazione periodica del gesto sessuale per la perdita di naturalezza, l'incoscienza camuffata da passionalità o romanticismo, il fatalismo e la rassegnazione, lo sciopero contro la fatica unilaterale della responsabilità.
La persona Hiv positiva dovrebbe giungere anzitutto ad assumere un impegno di rispetto ed onestà nei propri confronti. Di solito non esistono le condizioni per cui si possa dichiarare la sieropositività e imporre l'uso di precauzioni, perché l'individuo dovrebbe essere prima in grado di imporre a se stesso la regola, decidendo di non accettare in nessun caso rapporti non protetti. Dovrebbe saper valorizzare la coerenza e la verità nel rapporto con se stesso, in modo da ridimensionare l'importanza delle reazioni, dell'irresponsabilità e dell'autolesionismo altrui. Essenziale è cosa pensa il soggetto di sé, cosa sceglie per sé, e non le opinioni o decisioni degli altri in merito.
La maggioranza preferisce affidarsi a sistemi grossolani di rassicurazione per non affrontare direttamente la paura; per esempio, ci si fanno illusioni sull'aspetto fisico, sulle dichiarazioni verbali, sulla credibilità delle argomentazioni dei partner. Pur di non lavorare a un cambiamento sostanziale, si fa opera di trasformismo per ridurre l'impatto dell'angoscia e del senso di colpa. Cambiare costa molta fatica, specie nella sessualità, ove si è sovrastati da un dogmatismo rigido fondato sulla presunzione di “naturalità” e “sapere”.
Ciò che si dà per scontato sul sesso nasconde in realtà una profonda ignoranza, in particolare del significato soggettivo dell'esperienza sessuale. Il margine di agibilità e di coscienza autonoma dell'individuo è ristrettissimo, anche perché l'ambiente induce a interpretare la mancanza di sesso come privazione patita e a costruire l'edificio della sessualità come “bisogno”.
Solo per poche persone la necessità di ripensare l'approccio al sesso e ristrutturare la condotta sessuale, a causa della minaccia Aids, diviene un imperativo morale. Nella gran parte dei casi si può ragionevolmente prevedere (e constatare) il fallimento del tentativo di adattamento e il prevalere di un adeguamento passivo alla limitazione, con molti cedimenti nell'osservanza del decalogo del sesso sicuro. Al posto del rigore, troveremo un'alternanza di rigidità e lassismo.
Una soluzione può venire dalla creazione di una comunità di appartenenza, all'interno della quale vengano enunciate specifiche norme comportamentali, sia valorizzata l'osservanza e squalificata la trasgressione, garantendo inoltre modalità alternative di affermazione e fornendo supporto all'identità con una filosofia non puramente materialistica.
Per fare cambiamenti costosi si chiedono assicurazioni e contropartite. Una persona “sana” può decidere di modificare la condotta sessuale in cambio della “garanzia” di non ammalarsi: a condizione di non essere infettato, mi accontento di cercare/trovare meno piacere nel sesso. Al contrario, chi col virus deve convivere e non può attendersi alcuna “liberazione” dall'incertezza o “salvezza” dalla minaccia della malattia, può scivolare facilmente nel fatalismo fino all'indifferenza nei confronti del proprio e dell'altrui destino.
Le precauzioni, pur utili anche ai sieropositivi, possono apparire un palliativo o poca cosa poiché indirizzate a tenere a bada un pericolo minore di quello già attivo, qualcosa di superfluo per sé e di eccessivamente gratuito per gli altri, cioè un atto di “generosità” verso il prossimo, proprio mentre ci si sente messi all'indice e screditati e magari si è subìto il contagio sessualmente ad opera di partner irresponsabili.
La crescita e la responsabilizzazione dipendono dalla stima personale e dalla fiducia nella vita, intesa come valorizzazione dell'esistenza, con il supporto di un contesto interpersonale. Senza un gruppo di sostegno è facile, e forse in-evitabile, che chi è stato contagiato periodicamente non usi precauzioni oppure alleggerisca il proprio carico delegandone al/ai partner la responsabilità, a costo di sentirsi poi in colpa. Anche nella coppia l'adozione di barriere richiede un buon livello di comunicazione e di intesa, cioè che si parli e ci si capisca e non che si “faccia” solamente.
La condivisione della problematica, meglio se in una rete sociale, può rendere più semplice e realizzabile un'impresa altrimenti onerosa e frustrante. In una microsocietà si può affermare l'importanza e l'utilità della “prevenzione”, la validità e la capacità di soddisfazione della sessualità “controllata”, definire come bene la rivelazione della sieropositività e il comportamento sessuale corretto, sottolineare la gratificazione (grazie al rinforzo dell'autostima) derivante dal non contagiare, e così via.
Una comunità fondata su principi e valori propri è in grado di promuovere realmente esperienze di umanizzazione. Si vedono allora persone che si impegnano nella riprogettazione, crescono interiormente al di là delle loro e altrui aspettative, vigilano sul contenimento del contagio. Non si deve chiedere che solo alcuni cambino e righino dritto intanto che gli altri si godono il privilegio della licenza e dell'irresponsabilità nel sesso. Il compito va condiviso, perché per altro i benefici ricadono su tutti.
E dunque, perché si dovrebbe gridare allo scandalo, se viene proposta l'astinenza ai sieropositivi? La reazione allarmata dei nostalgici della rivoluzione sessuale o dei difensori del diritto alla sessualità per partito preso è un buon esempio di pensiero autoritario camuffato. Il conservatorismo in ambito sessuale, infatti, non è fissato una volta per tutte. Spesso coloro che credono di stare dalla parte degli “offesi” si rivelano più preoccupati di difendere interessi e costrutti propri, dissimulando difese e resistenze contro il cambiamento mediante un linguaggio e una falsa coscienza sbrigativamente etichettati come progressisti.
L'apoteosi del profilattico rischia perciò di tradursi in una clamorosa mistificazione. Tale riduzionismo serve ad evitare di prendere in considerazione la difficoltà sperimentata dai sieropositivi restando ad una distanza di sicurezza mascherata da identificazione o tutela. Purtroppo, nelle questioni sessuali passiamo da un atteggiamento quasi asettico, con una terminologia medica o pseudo-scientifica (fornita dall'immancabile enciclopedia familiare o dalla TV) alla goliardia adolescenziale, nella quale domina la volgarità da barzelletta.
La pubblicità dei profilattici lascia intendere che esista una comune dimestichezza nel sesso, mentre un discorso sulla sessualità nella quotidianità è quasi impossibile nei fatti, perché vengono ben presto meno le parole e la capacità di riferire esperienze personali si arena sulla sabbia del silenzio interiore: cosa implica l'avvicinamento e il contatto dei corpi? Quale significato ha l'intimità? Fino a che punto il gesto sessuale è subìto o agito volontariamente dall'individuo?
Più spesso di quanto crediamo il sesso è subìto e non vissuto, e facendolo si chiudono e non si aprono le porte dell'essere, lasciando l'altro fuori in una zona di non senso. Un certo modo di vivere il sesso è profondamente sterile , non crea e non dice nulla. Due “partner” possono aver condiviso il letto per mesi o anni eppure non essersi trasmessi nulla di positivo o costruttivo.
L'approccio ai contenuti della sessualità risulta pertanto determinante nella valutazione dei bisogni di chi si trova in condizioni di disagio o malattia. Non ci si può concentrare solo sui dettagli tecnici o pragmatici, non c'è da scoprire alcun punto G o la simultaneità dell'orgasmo, non si può invitare ammiccando ad entrare nel favoloso mondo del piacere a portata di mano. Non ci sono parole d'ordine o messaggi precostituiti, né si può fare economia sui significati del piacere e del dolore.
Chi ha solo un dettato edonistico da imporre a tutti (il sesso da guarire e da far funzionare secondo la religione del godimento), non ha niente da dare a chi ha da fare i conti con la privazione. Toccato il fondo dell'impotenza, però, può iniziare un percorso di recupero di identità personale e integrità umana, grazie alla ricostruzione della propria storia e all'apprendimento di un linguaggio esistenziale per esprimere esigenze primarie con le risorse a disposizione.
Quanto e quale piacere si possa ancora ricercare e vivere, non negando il dolore, come essere “liberi” anche nella necessità, come restare persone nonostante la malattia e l'esclusione o indifferenza sociale: questi alcuni dei quesiti sui quali lavorare per prendersi cura di sé e del prossimo. Proporsi di essere qualcosa d'altro rispetto alle figurine dei manualetti divulgativi del benessere o alle marionette della cultura di massa, riguarda infatti sieropositivi e non, malati e sani, chiunque aspiri a una vita a misura d'uomo.
Mattia Morretta (1992)