Aids Società Solidarietà Convegno "Nel nome dell’amore: la solidarietà da emergenza a cultura", Comune di Milano Progetto Città Sane, 1 dicembre 1992
"La storia è triste, la storia è bella perché ci rammenta che Caino non ha ancora finito di uccidere Abele" (Jorge Luis Borges, I due fratelli)
Sempre più spesso sento soffiare il vento dell’estraneità osservando la dinamica socioculturale dell’Aids. Assistendo ai programmi televisivi, leggendo e ascoltando le dichiarazioni sulla stampa, si comprende che il fenomeno ha subito un’evoluzione che può far rabbrividire quanti vi avevano visto un’opportunità di umanizzazione.
Soprattutto per chi opera nell’ambito della solidarietà col passare del tempo diviene ancor più importante creare occasioni di riflessione e di silenzio, facendosi da parte rispetto alla scena pubblica, al fine di valutare con più obiettività quanto sta accadendo.
Una democrazia irresponsabile
Per prima cosa va ribadito che viviamo in una democrazia irresponsabile, secondo la definizione di alcuni sociologi. Al rischio oramai minimo di totalitarismo da parte di un’unica autorità assoluta si è sostituito quello di una tirannia anonima, il dominio della causalità e del pregiudizio, in un contesto sociale frammentato e strutturato per gruppi o categorie.
Il ruolo dei mass media in tale sistema è fondamentalmente ambiguo, tanto che essi vanno ritenuti uno dei principali fattori di formazione e mantenimento del pregiudizio. Non si tratta solo degli effetti collaterali dei messaggi, ma anche di quelli contro-intenzionali nel complesso di una comunicazione che amplifica e aggrava lo scarto esistente tra vissuto e immaginario, tra realtà e sua rappresentazione.
Di fatto si impedisce ai cittadini di capire cosa accade facilitando l’adozione di opinioni approssimative e convenzionali. Riguardo all’Aids è stato ed è plateale l’incapacità dei media di mostrare i molteplici volti della problematica. Adesso è la retorica della solidarietà a invadere il campo e lo schermo, perché fa tendenza.
Non dobbiamo mai dimenticare che ogni contenuto viene recuperato e riciclato pur quando in apparenza refrattario alle strumentalizzazioni. Sicché, ciò che ieri equivaleva a stare accanto ai deboli, oggi può significare il contrario. Tra poco sarà arduo districarsi nella giungla di coloro che vogliono mostrarsi solidali, perché è di moda e quasi politico.
Se alcuni opinionisti sostengono l’idea della solidarietà, molti affermeranno che bisogna esser solidali e magari scenderanno in piazza, benché poi interrogate individualmente non saprebbero spiegare le motivazioni personali e il significato del gesto. Valga l’esempio del razzismo, che alberga ovunque, compresi coloro che si proclamano “contro”.
Siamo dunque inseriti, involontariamente e nostro malgrado, in un sistema articolato di irresponsabilità collettive e di rappresentazioni fuorvianti dei fenomeni, che favoriscono proprio ciò che sembrano voler impedire. Tutte le deprecazioni a parole e le immagini consolatorie, unite alla spettacolarità morbosa cui ci hanno abituato giornali e televisioni, finiscono per produrre più confusione e mistificazione di quanto ci si convinca in buona o malafede di eliminare.
La spettacolarizzazione, non solo non aiuta a comprendere, ma crea anche ulteriore pregiudizio, infatti non emerge mai la realtà umana delle varie condizioni problematiche, Aids incluso, il caso sensazionale serve gli scopi della civiltà dei consumi.
Come riuscire a ridurre la forbice crescente tra immaginario e vissuto è uno dei problemi principali di chi si occupa di Aids sul piano sociale. La superficialità e il sensazionalismo con cui si parla del problema genera svuotamento e disinteresse.
Il cittadino, d’altronde, è senz’altro in media più attento ed attivo, con tutta la libertà che gli si concede di acquistare i prodotti informativi o scegliere i programmi televisivi! Un’attenzione pubblica fluttuante e incostante, che procede con l’andamento sussultorio della modalità fasica dell’informazione mediatica.
Cascate di notizie e di dati fanno seguito a lunghi periodi di silenzio o omissione, lasciando una scia di dicerie e maldicenze. Far riflettere è l’ultimo degli scopi del circuito informativo, giacché costerebbe troppo pure a chi fa informazione. Più facile “emotivizzare” creando occasioni di intenso coinvolgimento emotivo, vendendo e svendendo emozioni al posto dei ragionamenti.
In proposito è ingenuo credere che la società dello spettacolo possa aver paura delle immagini sull’Aids, perché l’immagine eccita e satura al contempo, rendendo superflua l’elaborazione. Basta guardare e si è convinti d’aver capito, che necessità c’è di approfondire? La realtà ci è stata descritta in dettaglio, ci hanno divertito o fatto piangere, cosa si può volere di più?
La commozione in particolare ci viene offerta e imposta sotto le mentite spoglie della descrizione veritiera. La sofferenza proiettata il più lontano possibile dalla quotidianità viene reintrodotta mediante attimi fugaci di immedesimazione con singoli che stanno male sono affetti da gravi disagi, qualcuno che soffre dinanzi all’opinione pubblica consentendoci per un istante di aver la sensazione di capire in prima persona.
Il dolore diventa pornografia, gli occhi lucidi davanti alla sofferenza altrui esibita e fotografata. Malattia, morte, vivisezione dei deboli e degli infermi, saranno così usate per eccitare e sollecitare emozioni intense, purché transitorie ed estemporanee. Per un confronto serio col dolore non c’è tempo né spazio, per cui ci pensano i media a fornirne la dose necessaria come oggetto di consumo, prodotto ad arte e immesso sul mercato.
La società si occupa di produrre il catalogo del piacere e di fornire il residuo ineliminabile di dispiacere sotto forma di commozione commerciale, perché quel che conta è consumare. Assistiamo ad un vero e proprio trionfalismo del modello di realizzazione consumistica, che prevede possesso di beni materiali, godimento e soddisfazione da esibire.
Per assurdo, la società occidentale più progredisce e più è ossessionata dalla materia e dalle cose, conservazione fisica, salute, riproduzione assistita. L’analfabetismo tecnologizzato è l’indicatore migliore della regressione morale e spirituale.
Si vive nell’illusione generale di onnipotenza disconoscendo limiti naturali e transitorietà della vita, per cui è quasi offensivo proporre un discorso sulla mortalità e sulla finitezza. La gente non vuole sentirne parlare, pretende soddisfazione di appetiti e realizzazione di sogni ad ogni aperti.
In parallelo si fa strada un oscuro presentimento circa il limite della nostra sete di grandezza, che balena nel fascino per i grandi eventi catastrofici, quando la Natura fa sentire la sua forza e ricaccia indietro l’insaziabilità della nostra brama di potere.
L’ambizione tecnologica si sostituisce alla valutazione realistica e ragionevole del lecito, creando una situazione irrazionale mascherata dalla plausibilità, mentre si smarriscono i punti di riferimento per il percorso esistenziale. Facile trasformarsi in consumatori e puntare al centro della società, accogliente e accessibile eppure riservato, come recita lo slogan pubblicitario: “per molti, ma non per tutti”.
La civiltà del benessere promette godimento e status e intanto dissemina “povertà”, disperazione ed angoscia, non fosse altro che per lo standard imposto proibitivo per un gran numero di individui.
Siamo bersagliati da propagande violenti ed insistenti di un modello di vita materialistico, di cui siamo tutti corresponsabili quando chiudiamo gli occhi e fingiamo tutti i giorni col nostro prossimo.
La medicina di moda non incoraggia la coscienza della finitezza, che se mai è appannaggio di qualche filosofo o spiritualista che non sa trovare posto nella corte dei miracoli del progresso.
In questo contesto generale va inquadrato il processo di adattamento sociale all’Aids.
Le reazioni sociali e le interpretazioni dell’Aids
Una prima fase è stata caratterizzata dalla localizzazione nei malati dei contenuti inaccettabili per difesa e controllo dell’insieme. Le persone con Aids sono state vittime di un’operazione di psicologia collettiva che richiedeva loro di assumere su di sé l’angoscia della morte e della malattia. Si è così fatto palizzata elevando il muro dell’etichettamento e catapultando sui malati le inquietudini di tutti.
In qualche modo è stato ritagliato un terzo mondo interno all’Occidente, costituito da minoranze sessuali e devianti, utili quali ricettacoli non solo della patologia Aids, ma anche di tutti i significati oscuri e inconsci. In quella cantina dovevano venir ricacciati i fantasmi attivati dall’epidemia contagiosa per via sessuale.
Per parecchi anni sono state fatti dalla classe medica annunci funebri in pubblico, tutti i malati dovevano morire prima o poi, era solo questione di tempo. Le profezie si ammantavano di scientificità nel dibattito imbandito sulla tavola della pubblica opinione.
In quanto omosessuale non posso dimenticare che la propaganda sociale della medicina è intrisa di opportunismo e convenienze, infatti sino a 15 anni fa io stesso sarei stato dichiarato un malato di mente in base alle più accreditate teorie!
L’apparato divulgativo nei vari periodi storici identifica i soggetti “privilegiati” suscettibili di operazioni di controllo, diffondendo mezze verità o comode menzogne per scopi spesso inconsapevoli alla maggioranza. La diffidenza nei confronti del sistema vigente di spiegazione dei fenomeni è pertanto d’obbligo, specie per chi vive in condizioni di diversità che possono fungere da superfici di intervento da parte del sapere ufficiale e riconosciuto.
Comunque sia, se la collettività ha preso le distanze, alcuni hanno avvertito l’esigenza di avvicinarsi all’esperienza dell’Aids. In effetti, la risposta sociale ad un evento traumatico non è mai univoca, al meccanismo di espulsione di parti indesiderate si contrappone un processo di ri-aggregazione attorno ad un nuovo centro proprio nella periferia rifiutata. D’altronde, il potere non è mai assoluto e ha come termine di confronto la resistenza nella dinamica comunitaria.
In parecchi si sono avvicinati alla realtà dell’Aids partendo dall’intuizione di qualcosa di stra-ordinario o significativo dal punto di vista antropologico. Se la società sembrava intenta a vittimizzare, forse valeva la pena di verificare di persona cosa potesse accadere in quella terra di nessuno.
Il vissuto dei volontari nei primi anni era caratterizzato dal desiderio di risarcimento, era ritenuto necessario tentare di risarcire i soggetti coinvolti dall’Aids per i danni provocati da una comunità assetata di sangue e di morte, come gli antichi romani eccitati dall’agonia e dalla morte nel circo di fronte ai gladiatori.
Le stesse minoranze che si sono fatte avanti, andando incontro ai malati, devono perciò fare molta attenzione agli sviluppi attuali, non dando per scontato il messaggio di solidarietà, anzi ritematizzandolo di continuo, perché ciò che era avanzato ieri può essere arretrato oggi. Altrimenti il volontariato si trasforma in azienda dello smaltimento dei rifiuti umani apponendo il coperchio sulla pentola dei fenomeni di portata generale. Poiché esistono residui e scarti della civiltà del disagio, alcuni benintenzionati si occupano della gestione e del trattamento, ricevendo compensi per la prestazione di utilità sociale.
Il deserto dell’Aids è diventato almeno in parte oasi, ma comincia a risentire dei vizi e dei difetti tipici della città, con i relativi abusi ed opportunismi.
Le minoranze sociali attive ed attente giocano un ruolo fondamentale nella dinamica comunitaria e possono esercitare una “influenza senza potere” sulle istituzioni, a condizione di restare sentinelle vigili della dignità umana.
Ad un certo punto è diventato evidente un mutamento di atteggiamento da parte del contesto, esemplificato dalla Legge dedicata all’Aids, istituendo una sorta di protettorato col riconoscimento di una popolazione passibile di discriminazione. La medicina si è appropriata della patologia e ha iniziato a sostenere pertanto i bisogni sanitari dei pazienti sieropositivi.
Il mendicante ora è accolto alla corte del re scienziato e partecipa al suo seguito ai convegni e ai dibattiti, fa comodo avere malati come “amici” e “consiglieri”, ogni fazione mostrerà i propri per sentirsi autorizzata a procedere. Ciascuna parte in causa avrà i propri sieropositivi da esibire, che sosterranno il rapporto collaborativo con un certo tipo di medicina, una vera consorteria snobistica e mondana che si ammanta di moralità.
La parola d’ordine è e sarà “medicalizzazione”, con una modesta articolazione in ambito psicologico. Il linguaggio tratterà di diagnosi, sintomatologie, trattamenti e sperimentazioni. Qualunque altro interesse di ricerca sul piano esistenziale e antropologico sarà considerato secondario o superfluo. Del resto, la ricerca umana è passata di moda da un pezzo.
Molti fondi saranno necessari per promuovere tale avventura scientifica, ora che tutti i malati devono sopravvivere. Prima dovevano morire, ora devono vivere a tutti i costi.
Il copione prevede l’appropriazione dei malati da parte dei curatori, senza possibilità di scampo. Lo stesso malato, disorientato da tanti che parlano del suo bene e nel suo interesse, finisce per cercar rifugio nell’organismo rifiutando altre “cure”, letture e contenuti.
La sofferenza parlerà la lingua della patologia fisica o psichica, della medicina terapeutica (anche nella versione alternativa”, e il paziente farà richiesta di provare subito e senza indugi i composto chimici sperimentali contestando la parsimonia criminale degli enti di controllo o dei governi.
Il mondo scientifico posto in ginocchio dalla comparsa dell’epidemia ha raccolto la sfida e si è concentrato sul confronto serrato col “nemico”, mettendo in campo le sue armi migliori. In buona parte si tratta dello stesso modello che più si affanna a curare e più crea malattie e disagio; una concezione disumana del vivere viene impunemente spacciata per promozione della salute.
La concezione orizzontale dell’Aids, semplicistica e lineare, si afferma via via ovunque, anche grazie alla sua coerenza con le esigenze di un controllo sempre più sofisticata. La concezione verticale, che rimanda a dimensioni di profondità e di altezza, diventa improponibile ed inutilizzabile col passare degli anni, perché la proposta di un cammino sul piano dell’umanità apparirà plausibile esclusivamente al di fuori del contesto sociale e della realtà condivisa, quindi affare per mistici o santoni.
Eppure, dovrebbe esser chiaro che la vera sperimentazione è quella della convivenza dell’uomo con la malattia e la mortalità, la vertigine esistenziale. Dobbiamo cercare in noi la strada, tentando di capire cosa accade all’uomo di oggi, i motivi della mancanza di senso e di valore della vita.
Purtroppo, constatiamo che per l’Aids alla depressione si è sostituita la maniacalità sociale e sanitaria. Dal senso di impotenza e fatalismo si è passati alla reazione colpo su colpo e alla dichiarazione di guerra, attribuendo ai pazienti il ruolo di collaboratori o collaborazionisti.I malati, del resto, fanno comodo come superficie di intervento e strumento di pressione sulle autorità per i finanziamenti pubblici e privati a difesa di interessi corporativi.
Dunque, dopo lo stordimento e l’annientamento concertato, una sorta di processo ipnotico ha attirato nell’orbita sanitaria le vittime promosse al rango di pazienti. La loro rispettabilità, va ricordato, è garantita da tale “riconversione”, in quanto oggetti della medicina. La dignità deriva dall’accettazione del ruolo di malato tipico e collaborante, come usano dire i medici.
In precedenza subìti dalle strutture sanitarie e corona di spine per medici abituati al facile disimpegno, essi sono ora occasione di riscatto, gloria e pacificazione con la coscienza e la deontologia.
La solidarietà e il lieto fine
Nel mondo del volontario la parola d’ordine della solidarietà attualmente contribuisce più a nascondere che a svelare la trama degli intenti e delle finalità.
Sappiamo che l’infelicità rende soli, nessuno vuol condividere una condizione che non consente di avere un controllo sulle prospettive materiali. Come parlare con qualcuno che non ha “speranza” di uscire dall’infermità o dal disagio? Come rispondere a chi non può fare domande?
La retorica del portare aiuto, stare vicino, dare una mano, risulta sovente l’autorizzazione formale alla messa in atto di un assedio che vede i malati presi d’assalto da famigliari e volontari. In verità, questa vicinanza rischia di tramutarsi in un modo diverso di isolare le persone, perché impedisce loro di rendersi conto delle opportunità di autonomia morale.
Chi è “prossimo” può svolgere un ruolo fondamentale offrendo elementi di comprensione della realtà al malato, favorendo cioè un percorso di consapevolezza diversificato a seconda delle personalità e delle storie. Quel che sentiamo propagandare, invece, è il sentimentalismo, l’amore come melliflua chiacchierata sullo scambio reciproco, l’esibizione del martirio di volontari e parenti.
Va detto senza mezzi termini che tra “sani” e “malati” è in atto una guerra costante senza esclusione di colpi, anche all’interno della famiglia di origine. Tra chi è infermo o prossimo alla fine e chi si considera sano e sa di sopravvivere esiste un conflitto oggettivo a malapena mascherato dai convenevoli e dalle convenzioni. D’altronde, è vero che i malati colpevolizzano, sfruttano e invidiano i sani, così come i sani maledicono, tormentano, e puniscono i malati.
Il rischio di un certo interventismo assistenziale è pertanto quello di portare ad una segregazione camuffata e satura di mistificazioni. Sentiremo gli operatori del volontariato spiegare la natura e le cause del disagio, invocando risposte tecniche per problematiche esistenziali.
Va da sé che non è possibile generalizzare, poiché vi sono molti esempi di moralità ed onestà; tuttavia è importante criticare il modello solidaristico più pubblicizzato che sembra godere di largo seguito. Ciò servirà a valorizzare chi cerca di agire diversamente sul terreno della sofferenza umana.
Talora si ha l’impressione che il volontariato sia un gioco a mosca cieca e non una scelta o una presa di posizione. Il volontario va incontro al malato ad occhi chiusi guidato dalla convinzione e dalla pretesa di poter aiutare; per qualcuno si tratterà in compenso di aprire il cuore, senza garanzia alcuna di consapevolezza dei bisogni personali.
Le motivazioni del gesto possono essere le più varie e sono comunque “umane”, quindi comprensibili, benché non equivalenti né di per sé giustificabili. Troveremo ambivalenza e contraddizioni, il desiderio di rafforzare la propria immagine e il controllo, oppure la consolazione di stare accanto a chi sta peggio per sentirsi meno disperati e impotenti.
L’attivismo sta spesso al posto di un reale adattamento e serve a contenere l’angoscia interiore. Si può sperare di ricevere in cambio lo stesso “favore” e premunirsi contro lo spettro di una fine in solitudine, oppure si fa dell’aiutare uno scongiuro col quale si paga in anticipo e per libera scelta il dazio sulla sopravvivenza.
Una delle costanti del volontariato è l’aggressività, in genere dissimulata o negata benché ne rappresenti l’espressione sublimata più raffinata: chi chiude a chiave le armi, se non chi teme di poterle usare? In coloro che si “applicano” agli altri è fortissima la componente aggressiva sotto forma di pretesa, manipolazione e controllo sulle vite altrui. Tutt’altro dell’altruismo bonario col quale ci si trastulla offrendo immagini consolatorie dell’associazionismo benefico.
Se manca un’impostazione culturale vera e propria i volontari finiscono per esigere che il malato esprima una necessità concreta cui sia possibile rispondere concretamente. Da anni partecipo a convegni ed iniziative di associazioni e sente parlare ogni volta di bisogni materiali delle persone con Aids.
La traduzione in termini di richieste assistenziali è funzionale alle istituzioni, che debbono approntare interventi coerenti con la domanda. Le organizzazioni sociali, invece, sorgono in relazione ad esigenze via via emergenti nella società, col dovere di sottoporsi al fuoco continuo della verifica. Non sono sufficienti buone intenzioni, forse potrebbe bastare per raccogliere siringhe nei parchi o ripulire case abbandonate, non basta affatto per incontrare soggetti malati e stigmatizzati, cioè caricati di significati e valenze culturali particolari.
Al contrario occorrono un grande impegno e un’attenta selezione, incoraggiando la coscienza di un percorso che si configura come lavoro su se stessi. La verifica delle attitudini non può essere fatta una tantum, va strutturata un’etica della condotta frutto di un’assidua rielaborazione, bandendo genericità e conquiste a buon mercato. Gli occhi vanno bene aperti, soprattutto quelli della mente, dato che si tratta di capire con l’intero essere.
Di norma quando non si è autosufficenti è difficile conservare il rapporto con l’ambiente esterno, il malato non può stare nel vasto mondo senza l’intervento di qualcuno che realizzi una mediazione e funga da garante con un contesto altrimenti distruttivo e impietoso.
Marguerite Yourcenar diceva a proposito della compagna “hospes comesque”, ricordando l’imperatore Adriano: “qualcuno che ci lasci una libertà divina e al contempo ci costringa ad essere pienamente quello che siamo”. Un ospite e un compagno di viaggio.
Chi sta accanto deve far da garante dell’identità dell’altro, specie quando costui non è in grado di sostenere in maniera autonoma l’autonomia e di convivere costruttivamente con la malattia. All’inizio, infatti, nessuno può affrontare completamente da solo le problematiche connesse alla mortalità, proprio nel momento in cui si subisce e si sprofonda nella debolezza.
Un grave conflitto si instaura tra il voler essere e il dover essere, il desiderio di continuare a pensarsi come vivo e l’esigenza di pensarsi come vivo potenzialmente incamminato verso la fine.
Stare vicino a chi ha in sé la necessità della morte rischia di sancire una separazione netta, una disgiunzione esclusiva, se non si è pronti a condividere garantendo la vita morte dell’altro col pensiero sulla propria morte.
Se l’operatore non vuol riconoscere dentro di sé le aree di squilibrio e inquietudine, non vuole riflettere sulla sua esistenza, è certo che userà il rapporto col malato per controllare da vicino ad una distanza di sicurezza i problemi personali proiettati. In pratica terrà d’occhio in colui che assiste la propria inadeguatezza e desolazione.
Come è possibile accogliere una domanda sulla sofferenza umana senza aver accettato di porla anche a se stessi? Come si può comprendere il dolore altrui se si sfugge al proprio? Si farà di tutto per distrarre la persona dalla sofferenza morale, avendo paura della sua profondità si cercherà di farle dimenticare la coscienza del suo stato. In alternativa la si inchioderà alla malattia crocefiggendola sulla croce della patologia organica.
Assisteremo a due ingiunzioni altrettanto violente: da un lato, “guarisci, non stare male perché io non voglio star male”; dall’altro lato, “fai il malato fino in fondo, visto che ormai lo sei e mi tocca assisterti”.
La preoccupazione principale dell’assistente pare quella di controllare, con attuazione di strategie volte a bloccare e tener fermo l’individuo “inguaribile”, che viene addomesticato e ridotto alla paralisi, indotto al silenzio sul suo vissuto.
Secondo l’opinione corrente, quando viene diagnosticato l’Aids niente può più accadere, il cerchio s è chiuso, al massimo si potrà sperare di sopravvivere. Eppure, tutto comincia proprio con la presa di coscienza della irripetibilità della nostra esistenza.
Familiari, amici, volontari, un po’ tutti puntano a congelare la situazione mediante una meticolosa opera di imbalsamazione, che chiude le porte di comunicazione con la realtà. Invece di tenere aperte le finestre per far entrare l’aria della vita e mediare la presenza dei malati nel mondo, li si chiude in un sarcofago di affetti fossilizzati o in un esilio tecnicamente confortevole. Anche mantenere le persone in uno stato di pura sopravvivenza costellata di necessità materiali equivale ad una negazione di identità e dignità.
A dire il vero, la negazione riguarda gli uni e gli altri, i sani e i malati, tutti noi, perché è a noi stessi che togliamo qualcosa quando priviamo gli altri di opportunità. Inoltre, ogni responsabilità che non assumiamo finisce per pesare sulle spalle di qualcun altro.
Se continuiamo a crederci buoni e bene intenzionati, ci sarà sempre chi dovrà essere “cattivo” pure per noi, cioè che viva quelle componenti da noi misconosciute e proiettate. Per questo l’Aids non deve essere una parentesi, dobbiamo fare in modo che solleciti una riflessione sui modelli di realizzazione.
Dobbiamo chiederci quale sia il nostro rapporto col male, con la malvagità, la violenza, la sopraffazione. L’Aids ricorda il gioco del “ce l’hai”, perché fa circolare il maleficio attraverso la sessualità, considerata oggi l’ultimo dei veicoli della negatività, il danno e la morte bussano potenzialmente a tutte le porte.
Ciò significa che la discriminazione non è legata solo a trasgressione o devianza, bensì al fatto che la sieropositività fa coesistere salute e malattia, vita e morte, piacere e dispiacere, fianco a fianco, generando un senso di minaccia e incontrollabilità, al punto da auspicare l’individuazione (fino al limite del marchio) dei soggetti infetti.
Il sieropositivo deve farsi riconoscere affinché la geografia del male sia ricostruita sommariamente e la solidarietà sia praticabile, a condizione di identificarsi con la malattia ha diritto ad una ospitalità sociale. In caso contrario tutta la collettività sarebbe tenuta a cercare un approccio più complesso e realistico ai temi cruciali dell’esistenza, per esempio riducendo l’aspettativa di piacere, se non proprio adattandosi a soffrire di più nella quotidianità.
Se l’ambito delle relazioni sessuali e affettive, dalle quali ci attendiamo gratificazioni e rassicurazioni, può portarci nell’orbita della morte, l’angoscia e l’inquietudine lievitano enormemente. Allora cercheremo di schematizzare e semplificare nell’ottica di recuperare potere e controllo.
Ciò non significa che l’obbligatorietà del test Hiv non sia proponibile, anzi. La società deve dotarsi di strumenti e norme per gestire fenomeni rilevanti e costosi, la dinamica psicologica va tenuta distinta dalla politica sanitaria.
Infine, se non analizziamo il nostro rapporto con la sofferenza e la negatività, non potremo mai far buona compagnia agli altri in modo onesto, o almeno tentare di farlo.
Credo che non sia possibile eliminare il male in noi stessi e che, per usare le parole di Elias Canetti, il lieto fine non ci sarà. Ciò nonostante, il nostro sforzo, pur vano, costituisce una necessità primaria ed essenziale.
Mattia Morretta (1992)