Convegno Internazionale Auto-Aiuto e Aids: come e perché di una fatalità
1 giugno 1991
Comincerei ringraziando i tecnici e gli interpreti che hanno offerto gratuitamente la loro opera qualificata per la realizzazione di questo Convegno, Ringrazio anche personalmente gli ospiti stranieri per la loro testimonianza e per la ricchezza di dati e elementi portato in questa sede. In particolare voglio ringraziare Don de Gagné per il suo discorso che ha agganci precisi con il senso dell’iniziativa, che non vuole soltanto valorizzare il lavoro politico-organizzativo delle persone sieropositive o di chi ha deciso di andar loro incontro, ma vuole pure cercare di elaborare i contenuti dell’esperienza.
L’auto-aiuto è una delle forme di organizzazione e aggregazione, un tentativo di incidere socialmente da parte di chi è sieropositivo, ma sappiamo che esistono altre forme di pressione di cui si occupano altri gruppi in Italia. Il nostro interesse è stato volto ad evidenziare le difficoltà e le risorse di questo tipo di opzione, poiché non si tratta semplicemente di un metodo, bensì di una scelta con connotati morali, risvolti culturali e significati esistenziali.
Cercheremo attraverso i numerosi interventi di dare un panorama delle realtà aggregative e di chi lavora per rendere possibili esperienze di “auto-capacitazione”. Anche se in italiano non è traducibile direttamente, il termine empowerment può essere inteso come abilitazione a convivere con una condizione difficile acquisendo competenza e valorizzando il proprio modo di essere, al punto di trasformarla in una occasione di cambiamento per sé e per gli altri.
In tale prospettiva vorrei sottolineare alcuni punti emersi durante la mattina. Anzitutto, è complicato trovare e mantenere un equilibrio tra il problema della sofferenza, della morte e del lutto che si accompagnano all’Aids e l’esigenza di un atteggiamento propositivo, che si traduca pure in intervento nel sociale, qualcosa cioè che modifichi anche i rapporti interpersonali e veicoli messaggi a livello comunitario.
La società attuale non aiuta perché non crede che affrontare il dolore e il disagio possa consentire di trovare le energie e gli strumenti per andare avanti; di norma si pensa che il dolore possa solo esser subito e quindi si debba cercare a tutti i costi di evitarlo. Si sono dimenticatoi gli antichi insegnamenti, compreso l’approccio cristiano, a proposito del posto da dare alla sofferenza nell’esistenza e di come cercare di incontrarla ed utilizzarla, quali mezzi possano essere usati per vivere in prima persona il dolore senza venirne schiacciati, senza esserne vittime.
Non c’è un impianto culturale di supporto circa la convivenza con le malattie perché si tende ad annullarle e tenerle lontane dalla vita, tutto ciò che può minare la sensazione di realizzazione, affermazione di sé, di una apparente felicità, andrebbe negato o evitato.
La nostra “cultura” moderna estremizza la questione del bene e del male, per cui è buono ciò che è affermativo e piacevole, la salute viene valorizzata in maniera massificata e consumistica quale status symbol; è cattivo invece tutto quanto risulta sgradevole, desolante, doloroso. Non merita perciò applicazione quanto della vita fa comunque parte, la fatica che sempre costa fare il viaggio dell’esistenza.
Le persone si ritrovano allora disarmate e senza mezzi per fronteggiare un’esperienza come quella della sieropositività in cui come aggravanti ci sono la stigmatizzazione e la prescrizione del vittimismo. Infatti quando si parla di sieropositivi in genere non ci si limita a descrivere spingendosi a prescrivere il comportamento atteso.
La stragrande maggioranza di coloro che non vivono tale condizione e ne sono lontano, per una presa di distanza o per una posizione professionale, non può, non riesce o non si applica a pensare cosa voglia dire trovarsi dall’altra parte, come sia prima di tutto concepibile vivere dentro il disagio, la sofferenza, l’incertezza e gli interrogativi propri della sieropositività. Non esiste alcuna forma di incoraggiamento a trovare risorse, al massimo viene spiegato come comportarsi per essere pazienti modello, per esempio invitando all’attesa miracolosa del farmaco o del vaccino.
Molti si sono ibernati o congelati, sospendendo la vita nell’attesa dei farmaci e affidando alla scienza la risoluzione del problema con risposte tecniche, benché le domande più significative riguardino altri aspetti della condizione. La soluzione farmacologica va considerata una prospettiva importante e da promuovere, ma non certo l’unica speranza a disposizione delle persone. Attendere un farmaco risolutore, che riporti tutto a come prima e faccia dell’Aids una pura e semplice malattia, non è a mio avviso ben sperare.
In tutto il mondo ci sono gruppi e individui che sottolineano la perdita di ricchezza se si trascura il portato umano, culturale, antropologico e spirituale della realtà dell’Aids. Spiritualità è davvero la parola chiave nell’Aids, ma dire in generale nella malattia, perché è la dimensione che più manca nella nostra cultura e nei rapporti interpersonali.
La malattia e la prospettiva della morte pongono nell’impossibilità di deviare dalla materialità dell’esistenza. Per chi si trova compresso dalla materia diventa fondamentale trascendere la situazione, andare al di là individuando dei significati validi. Ciò che è straordinario richiede di cercare e trovare un senso, il che non coincide col superamento concreto ma comporta la valorizzazione del proprio stato.
Credo non vi sia niente di più drammatico della sofferenza che non si riesce a finalizzare, ed è proprio in tale direzione che va l’esperienza dell’auto-aiuto, rendendo capaci di convivere e soprattutto dare valore e significato all’esperienza. La congiunzione tra i due elementi della propositività e dell’accettazione del dolore che paiono opposti, antinomici ed inconciliabili, è possibile proprio a condizione che l’individuo creda in se stesso e nella possibilità di pensare alle difficoltà.
Da ciò deriva una grande energia che può venire trasmessa anche agli altri, perché crederci è già una forza. Il fatto di accettare di guardare in faccia la realtà così com’è senza camuffarla, pur se provoca dolore, è una potenza. Dalla sofferenza può originare un percorso di crescita spirituale ed umana, l’unico tipo di sviluppo che alla fine conti per la persona, che ha l’esigenza di darsi delle risposte pur rischiando di scoprire che non ve ne sono per alcuni interrogativi esistenziali.
In questa ottica voglio ringraziare tutti coloro che sono venuti al Convegno e in tal modo hanno dato un segnale positivo credendo nell’importanza dell’incontrarsi, del non rinunciare a pensare e scambiare risorse, dell’affrontare i problemi senza mistificazioni e millantazioni. Grazie per aver creduto che da questa esperienza ci sia molto da guadagnare sul piano dell’umanità, poiché tanti hanno già guadagnato.
Conclusioni Convegno
Vorrei concludere con alcune considerazioni, anzitutto sul linguaggio che si utilizza e può creare equivoci. Ad esempio, si è parlato di tipologie differenti di gruppi a seconda che sia presente lo psicologo o il conduttore, gruppi di counselling o auto-aiuto in senso stretto, eccetera.
Credo sia importante dal punto di vista delle strategie, però fondamentalmente se le persone sono qui è perché l’auto-aiuto è un modo di pensare, una filosofia, cioè prima un’idea che poi sostiene una pratica. Al contempo l’auto-aiuto è una conquista, un obiettivo e un fine che non viene mai raggiunto del tutto, perché la presa in carico di se stessi, l’assunzione della propria personalità e della propria storia, la crescita personale e umana non sono a rigore conseguibili, rimangono quindi una meta.
In questo senso, le differenze tra le varie organizzazioni sono meno significative del fatto che si coltivi in luoghi diversi contemporaneamente, in situazioni geografiche, sociali e culturali diverse, il medesimo principio, la stessa filosofia.
La seconda considerazione è che abbiamo tutti bisogno di incoraggiarci reciprocamente, e questo né uno degli scopi di simili iniziative, come il Convegno del settembre 1990 ha stimolato la nascita di tentativi ed esperienze analoghe, perché l’esempio è fondamentale: vedere che altri lavorano anche con poche risorse è davvero istruttivo e costituisce un riferimento pur solo mentale. Dobbiamo incoraggiarci il più spesso possibile dando messaggi positivi rivolti all’azione, al modo di pensare ed essere, agli obiettivi perseguibili.
Terzo punto, il tema della forza interna ed esterna. Si è detto della mancanza di appoggi politici che consentano ai gruppi di lavorare, eppure l’ASA di Milano è la testimonianza di come, pur non avendo agganci politici e mezzi finanziari, la valorizzazione della forza interiore e della fiducia in se stessi, credendo nelle proprie capacità di rendersi competenti e nella ricchezza presente nel disagio e nella malattia, può produrre moltissimo.
Le conquiste dei singoli, anche di una sola persona che riesce a convivere con condizioni ritenute invivibili e impensabili, è qualcosa che ha delle conseguenze sia in chi sta accanto sia negli altri attraverso una catena relazionale e affettiva.
Bisogna credere che ci sono esperienze e conquiste personali che diventano dei punti fermi e di ancoraggio, sono delle luci che illuminano anche a grande distanza la vita altrui.
Un ulteriore aspetto è l’umiltà, una parola usata pochissimo, benché tutti coloro che decidono di entrare nei gruppi di auto-aiuto fanno una scelta di umiltà, riconoscendo lo stato di bisogno e andando incontro agli altri a partire da una debolezza e non da una posizione di forza, osa che difficilmente avviene nel nostro contesto culturale. Proprio a partire da questa debolezza si può poi raggiungere una forza differente, che non nasce dalla presunzione della vittoria o dall’ignorare i limiti.
Infine, la generosità. In ASA come altrove (per esempio a Torino) si è constatato quanto siano generose le persone con Aids che si spendono per tutti, e noi siamo costantemente loro debitori, perché sono loro le luci che brillano anche dopo la morte. A questo proposito, pur se parrà banale, confesso di aver scoperto in questi anni all’ASA che gli angeli esistono, sono le persone con cui abbiamo avuto rapporti, hanno lasciato una testimonianza e sono diventate delle guide.
Sono angeli un po’ per tutti le figure di Enrico Barzaghi, Alessandro Casula, Mario Borgognone, Bruno di Donato, cioè quanti hanno assunto su di sé in maniera diretta ed esplicita, trasformandola in un messaggio sociale, la loro condizione, illuminando con tale immenso tesoro la comunità. A loro va la nostra riconoscenza per sempre. Grazie anche a tutti voi.
Mattia Morretta