La dimensione esistenziale dell'Aids. Contributi alla comprensione della realtà umana della malattia Corso formazione Comunità Exodus, Milano, 1994
Aspetti psicosociali
Di Aids si parla ormai solo per luoghi comuni che è difficile disertare, la retorica quasi impedisce di trovare parole diverse da quelle attese, i più chiedono di ascoltare e leggere solo ciò che già sanno o presumono di sapere. Del resto, il modello culturale prevalente prevede che il controllo passi attraverso l'informazione e non la censura. Se in passato si poteva individuare nella esclusione delle persone dagli strumenti conoscitivi una delle modalità più efficaci di manipolazione, oggi è diventato obbligatorio “informarsi” e risulta ben definito ciò che si deve sapere, al punto che le “ignoranze” vengono costruite ad arte per essere colmate. I mezzi di comunicazione di massa creano un vortice di esigenze informative: oggi devi sapere questo, domani quell’altro, corri in edicola a comprare l'ultima novità anche se non ti riguarda veramente, eccetera.
Non si tratta certo di rimpiangere l'analfabetismo, ma vale la pena di prestare attenzione al fenomeno della cultura massificata.
Informazione e prevenzione sono parole con cui ci si riempie la bocca, dimenticando che viviamo in un contesto sociale molto preciso caratterizzato da una ideologia invadente e nascostamente violenta, capace di penetrare nella nostra vita intima fin dove un tempo non poteva arrivare neppure l'inquisitrice morale cattolica.
È d'obbligo perciò un po' di diffidenza riguardo alla bacchetta magica dell'informazione e ai cosiddetti esperti, coloro che sanno e spiegano ciò che si deve sapere su questo o quell'argomento. Diviene anche comprensibile, da questo punto di vista, il tentativo di alcuni di fuggire nella negazione e nella rimozione di realtà e problemi, come reazione alla “rete” subliminale calata su tutti dal modello pedagogico che domina la società. Chi è abituato a trasgredire, cioè a basare la propria condotta sulle censure o sulle imposizioni altrui, può finire per vedere nella “disinformazione” una via d'uscita e un modo per sentirsi “affrancato”; rischia così di non conseguire le consapevolezze utili alla propria vita, e quindi di farsi del male. Bisogna sapere allora che non c'è libertà in nessun posto, non esiste un “luogo” della libertà in assoluto.
Siamo portati a confondere la tecnica con la cultura; la prima si nutre di informazione e di aggiornamento, la seconda presuppone un lungo lavoro di formazione nell'esperienza di vita e la ricerca di fondamenti storici. Oscar Wilde diceva che bisogna studiare a fondo la propria epoca per poterla meglio ignorare, cioè per trovare poi il modo di vivere la propria dimensione originale. Si tratta di raccogliere elementi da diverse fonti per formare un pensiero personale, non importa se in contrasto o in accordo con quello corrente, perché quel che conta è pensare con la propria testa e raggiungere la propria profondità.
Molte volte nei corsi di “formazione” si fa credere che si debba acquisire una serie di abilità e di competenze, ma il vero obiettivo è diventare più “spontanei”, cioè appropriarsi di ciò che già si possiede, delle capacità umane e relazionali e di un sapere di fondo presente in ogni persona benché sepolto. Si possono frequentare tutti i corsi possibili, sperimentare tecniche e metodologie, però rimane comunque la “personalità” il vero strumento di relazione con gli altri, soprattutto quando sono in gioco problemi che riguardano la vita umana. Diventare capaci di utilizzare le proprie “doti umane” è un processo che passa attraverso la conquista di una ragionevole consapevolezza di sé e delle proprie attitudini.
Senza un “buon” rapporto con se stessi è pressoché impossibile entrare in intimità con qualcun altro e si rischia di costringere gli altri al ruolo di comparse nel nostro copione. La spontaneità non è l'automaticità, non è ciò che viene subito a galla, bensì ciò che dopo molto tempo e dopo lunga esperienza emerge: quel che è davvero nostro in quanto patrimonio. Il lavoro su se stessi e il fine di una cultura esistenziale costituiscono quindi la struttura portante della formazione.
Le motivazioni profonde dell'inquietudine generata dall'Aids nell'Occidente restano ancora in parte oscure e in qualche modo “omesse”. Nel Terzo Mondo l'Aids continua ad agire come una catastrofe tra le altre e appare un lusso riflettere sulle tematiche esistenziali perché è in primo piano la lotta per la sopravvivenza. Dove il rapporto con la natura è a livelli elementari è difficile che i singoli individui sviluppino una forte identità personale e facciano richieste “egoistiche”, per esempio di salute e di immortalità.
Il “nostro” Aids invece ha caratteristiche specifiche e presenta un elevata definizione, che si evidenziano nell'interesse e nella fascinazione esercitata sia in negativo che in positivo su vasti settori della società, terrorizzando eppure suscitando al contempo un desiderio di conoscenza. C'è stato un periodo di fuga generalizzata, ora si constata anche una richiesta di avvicinamento all'esperienza delle persone malate di Aids; la solidarietà, infatti, è soggetta alle “mode”.
In parte ciò è dovuto al ruolo dei mezzi di comunicazione di massa, poiché tutto quello che passa in televisione finisce per essere “interessante”: la telecamera trasforma in successo miserie e meschinità. Il circuito informativo garantisce uno status privo di connotazione morale agli eventi, situandoli al di là della vita ordinaria. In ogni caso, i nodi che hanno contribuito a fare dell'Aids il fantasma e la realtà che è, soprattutto un senso culturale, non coincidono con quelli comunemente elencati. Non è questione di numeri, in senso epidemiologico, per esempio, perché in fondo non si tratta di un flagello di proporzioni bibliche. Le suggestioni dell'AIDS superano anche quelle di una malattia ancora estremamente angosciante e “vicina” a tutti come il cancro, che sembra meno sfruttabile a livello comunitario. Il cancro rimane in effetti un'esperienza soprattutto individuale, che non esce dalla vita privata del singolo.
Nel caso dell'Aids, tra le tante reazioni, risalta quella che ha portato all'aggregazione diretta tra persone con Hiv, di cui anche Milano offre una testimonianza importante benché con alterne vicende. L'Aids si colloca al crocevia tra sessualità, morte, malattia, dolore e piacere; tutti temi che negli ultimi 50 anni sono diventati in qualche modo "intrattabili" nella nostra società.
Alcuni argomenti “ordinari”, che chiunque poteva affrontare in quanto pane quotidiano dei rapporti in senso letterale, a causa del clima culturale instauratosi gradualmente dopo le guerre mondiali si sono trasformati in tabù: la sofferenza fisica e morale, la malattia e la morte appaiono così via via esperienze straordinarie. Esse vengono estromesse dalla quotidianità, spostate impercettibilmente al di fuori della vita delle persone in modo tale che infine mancano le parole per parlarne con cognizione di causa, come se si trattasse di qualcosa di cui non si ha esperienza diretta.
Vivere in situazioni dolorose per malattia o difficoltà varie, avere accanto uomini invalidi o sofferenti, aver perduto persone care e via di seguito: sono eventi cui è diventato nel tempo sempre più difficile dare una connotazione ordinaria, naturale, normale. E' come se si mettesse in moto un gioco di dissimilazione, in cui si deve lasciare intendere una certa estraneità al riguardo, al punto da dover chiedere ad esperti per sapere cosa sia un dolore, una malattia, una morte. Se ne parla infatti solo in terza persona e descrivendole per lo più come esperienze di “altri”, meglio se piuttosto lontani.
Non solo i tecnici ( medici, psicologi, infermieri), ma anche i non "esperti", quando parlano del disagio, lo fanno dando l'impressione di riferirsi a un fenomeno speciale, qualcosa che capita a qualcun altro oppure da cui ci si "dissocia" pubblicamente. Non avere competenza non significa non avere conoscenza, cioè non sapere spiegare che cos'è la malattia in termini medici o cos'è la sofferenza in termini psicologici non implica non saperne abbastanza in quanto uomini...
Una “ignoranza” tanto disconosciuta è allora il frutto di una progressiva espropriazione della capacità di far da bussola a se stessi, di sentirsi centro della vita vissuta e quindi di sperimentare consapevolmente il proprio piacere senza ricorrere al manuale del sessuologo, e di percepire il proprio dolore senza tradurlo in un fatto tecnico da nominare con un linguaggio medico. Il dolore umano oggi può esprimersi solo a condizione di accettare la medicalizzazione (il mal di stomaco, il mal di testa, ecc.) oppure la psicologizzazione (il conflitto, il complesso, ecc.). Il malessere esistenziale, forzato nell'imbuto del linguaggio sanitario o psicologico, necessita a quel punto di interlocutori specifici e specializzati (i tecnici), risultando impossibile la comunicazione nella quotidianità tra gente cieca e sordomuta.
Parallelamente all'evacuazione della sofferenza e della morte, si è assistito negli ultimi decenni all'invasione del corpo sociale ad opera di una sessualità legalizzata dal mercato. E' infatti diventato obbligatorio esibire il godimento e l'abilità di procurarselo. Le persone sono autorizzate a parlare solo di ciò che fa piacere, del successo, del possesso di beni materiali; è vietato invece lasciar trasparire pieghe, debolezze, insufficienze, inadeguatezze. Questi materiali di “scarto” vanno collocati in apposite discariche lontano dal palcoscenico sociale. Come ha detto J. Gorer, il pianto già da tempo è trattato come un “analogo della masturbazione”: si piange in bagno o comunque di nascosto, da soli, nel chiuso di uno spazio riparato e sottratto allo sguardo altrui.
Il dolore ha trovato poi una sede alternativa nel circuito televisivo grazie alla sua spettacolarizzazione. L'importante è che si collochi al di fuori della realtà condivisa e quotidiana, in una sorta di “altro mondo”. Dobbiamo perciò strizzare l'occhio e lasciar reciprocamente intendere di non volerci minacciare l'un l'altro con accenni al disagio esistenziale. Non sappiamo cosa sia la malattia “vera” e se ne parliamo è solo a proposito di e per qualcun altro: guai a lasciar trapelare che siamo noi stessi il malato, il fallito, il deficitario!
I rapporti stretti con questa area sono consentiti in ragione del travestimento dell'aiuto e della solidarietà. Tale operazione di creazione di un altrove del disagio umano, garantisce un sottilissimo controllo della vita dei singoli e si traduce in una espropriazione della “libertà” di riconoscere la realtà dell'esperienza vissuta. Gli strumenti per affrontare il disagio vengono meno in proporzione diretta alla riduzione della capacità di percepire e concepire ciò che si sta vivendo.
L'Aids ha dunque enfatizzato un processo già avviato da lungo tempo nella società occidentale in merito alla valutazione e all'interpretazione della salute e della malattia. Non esistono uomini sani in assoluto, eppure la salute viene idealizzata come norma da raggiungere e conservare. Salute e bellezza vanno di continuo controllate e perfezionate, badando a non perdere il ritmo, lavorando a tempo pieno. La tanto decantata medicina preventiva comporta effetti collaterali tutt'altro che trascurabili mantenendo ciascuno costantemente sotto la minaccia di una perdita di integrità o di salute (“sfruttando la nostra paura di morire, ci fa morire di paura”, Norbert Bensaid). Se dovessimo seguire alla lettera le prescrizioni, vivremmo in un continuo stato di sospensione: evitare questo fattore, controllare quell'altro, l'infarto capita a chi è ignorante, la colpevolizzazione è sempre più associata al messaggio informativo.
Ci si illude che con tutte le informazioni a disposizione si potrebbero evitare tutte le malattie, come se fosse in nostro potere governare circostanze e variabili di ogni sorta. L'ossessione salutistica si manifesta chiaramente nella diffusione di atteggiamenti ipocondriaci e narcisistici che sono in se stessi una malattia e causano molta infelicità, nonché diffidenza verso l'intimità. Ciò che accade nel corpo assume allora significati oscuri e terribili, rimette in discussione la propria realizzazione e aumenta la confusione sull'idealizzazione del benessere. La tolleranza ai più lievi malesseri è minima ormai, il che non vuol dire auspicare un ritorno ad una epoca pre-farmacologica, ma renderci conto che nel nostro rapporto col disagio siamo equipaggiati molto peggio rispetto alle generazioni passate.
Veniamo sollecitati di continuo a pensare che dobbiamo provare il massimo possibile di piacere e il minimo possibile di dispiacere. L'invito è molto gradito poiché coincide con le aspettative e i desideri infantili di soddisfazione e deresponsabilizzazione. Ci lusinga credere all'esistenza di una mamma che si occupi di affrontare e risolvere i problemi, si assuma le responsabilità, si premuri di soddisfare i bisogni e di evitarci dispiaceri anche minimali.
C'è la rincorsa alla riduzione fino all'eliminazione della “fatica” col sostegno di una ideologia che si propone di elevare la qualità di vita proprio mentre la rende invivibile con gli imperativi al consumo. Infatti è obbligatorio possedere molte cose, consumare senza sosta, perché la vera identità dell'uomo moderno è proprio quella del consumatore: identità forte che fa diventare secondarie tutte le altre, in quanto siamo tutti uguali come consumatori (democrazia del mercato). L'ideale di un certo modello capitalistico avanzato è la “Città Mercato”, in cui si passa il tempo libero comprando e via via ci si trascorre tutta la vita. È evidente che per consumare occorre star bene e sempre meglio.
Molte persone vengono perse per strada e per chi non sta al passo c'è il rischio di essere calpestato dalla folla oppure di finire in riserve controllate da istituzioni e organizzazioni specifiche. Vi sono enti che lavorano sul disagio operando in modo tale da tenere ben distinte le realtà della "normalità" e della "devianza" ed evitare commistioni. Non deve accadere di rischiare di convivere nella quotidianità con persone portatrici di difficoltà o malattie!
La cultura attuale, indipendentemente dal fenomeno dell'Aids, diffonde il messaggio secondo cui la malattia è una specie di fallimento ed è in qualche modo "sconveniente"; nominare o mostrare la malattia equivale allora ad un tradimento della “credenza” condivisa sul benessere e ad una offesa al senso comune. La modernità prevede che le malattie siano confessabili solo a partire dal momento in cui diventano guaribili. Se sono inguaribili, vanno tenute nascoste. Più progredisce la conquista tecnologica, più l'uomo occidentale è ossessionato dalla manipolazione della materia e si impoverisce sul piano culturale e valoriale.
La Chiesa si fa paladina della tradizione umanitaria, ma naturalmente in modo strumentale e a senso unico. Non sono più di moda le regole morali e tutti preferiscono pensare in termini di regole “convenzionali”, facilmente trasgredibili. Possedere una morale o un'etica comporta infatti fatica, coerenza, lavoro personale e sensi di colpa. Non abbiamo tempo né voglia di riflettere sulle difficoltà esistenziali, sulle malattie, sulla morte, e lo facciamo fare agli specialisti, per lo più medici e psicologi.
La de-socializzazione del lutto è un esempio illuminante del cambiamento di prospettiva culturale. L'antico costume mediterraneo sottolineava la condizione del lutto con una serie di condotte rituali finalizzate alla tutela del singolo e della collettività. E' importante infatti garantire un periodo di transizione durante il quale siano sospese o ridotte le richieste sociali nei confronti di chi ha perso un congiunto, in quanto l'individuo in questione ha bisogno di essere accompagnato e aiutato a elaborare la perdita, altrimenti c'è il rischio che non rientri mai più in gioco nella vita. Non è casuale perciò che le sindromi depressive legate alla difficoltà di superare le perdite siano un aumento nel nostro contesto. Oggi per sedare un dolore da perdita affettiva si assumono psicofarmaci, mettendo così a tacere l'esperienza e imbavagliando l'affettività.
Philippe Ariès ha scritto: “Non si tratta più di bambini che nascono sotto i cavoli ma di morti che spariscono tra i fiori”. All'improvviso le persone scompaiono o vengono sospinte a togliersi di mezzo. Chi si ammala di una malattia inguaribile è già passato dall'altra parte, perché ormai non è più recuperabile alla "normalità" dell'efficienza. E' accettabile che ci si senta male solo a condizione di poter tornare presto a funzionare nel circuito del benessere; se non si è reintegrabili, si deve starne fuori. A quel punto il malato viene fatto sparire o materialmente o moralmente, ad esempio non aspettandosi più nulla da lui.
Se ho una malattia grave, con me non può accadere più nulla di positivo, i giochi son fatti, al massimo potrò essere accompagnato a morire in pace. Investimenti per far crescere e per capire identità, valore, umanità della mia condizione non verranno neppure concepiti.
L'Aids sembra tirare molti dei fili della moderna concezione della vita umana. Da un lato c'è la sessualità come irresponsabilità, leggerezza, incoscienza, dall'altro c'è l'oscenità del dolore e della malattia. La morte oggi è davvero pornografica, è spaventoso pensare che si sia potuti giungere a questo stato di cose in così poco tempo, ed è significativo che attualmente il discorso sulla morte e sulla sofferenza sostenga la ricerca di un recupero di umanità colorandosi di nostalgia e di utopia sociale.
È un paradosso solo apparente, di fatto, poiché le varie culture hanno sempre sottolineato il valore della saggezza correlata all'idea della mortalità. Lo stesso Cristianesimo parla di un “ritorno” di Cristo e della necessità di vivere in vista di una fine. Sembra che gli uomini oppongano resistenza all'organizzazione della loro vita in termini morali (l'uso oculato dei talenti), se non sono costretti a pensare alla finitezza.
Crediamo di aver superato una volta per tutte la lotta per la sopravvivenza e osserviamo quasi con curiosità scientifica, fingendo estraneità, quelle popolazioni che sono piegate e piagate da povertà, calamità naturali, malattie, morte, brutalità. Eppure, di crudeltà la nostra società è piena fino alle midolla e la violenza che intride i rapporti è tale da averne paura come in uno stato di guerra.
Ecco che la morte esportata lontano, la morte di cui si parla in terza persona, guardata alla televisione, l'Aids la riporta dentro l'Occidente in modo inequivocabile: è proprio qui fra noi. La sua natura di malattia infettiva epidemica, cioè la possibilità della sua diffusione in tempi relativamente brevi, ne accresce la valenza di inquietudine e di “sorpresa”. Siamo così abituati a pensare che le malattie siano sotto controllo e la morte possa essere “rinviata”, da mostrarci increduli riguardo al messaggio che ci chiede di prestare attenzione ai comportamenti se non vogliamo rischiare conseguenze tragiche e persino letali.
La medicina sembra impegnata a farci credere che, senza precise e limitate cause, potremmo molto probabilmente non morire. Le cause di morte sono un elenco che pare rivolto a rassicurare le persone mediante l'identificazione dei motivi specifici di morte, come se si dichiarasse tra le righe la totale estraneità tra vita e morte. Eppure la biologia indica meccanismi di programmazione persino genetica della morte, soprattutto negli esseri viventi che si riproducono per via sessuale. La propaganda però vuole spingerci a ripudiare la parentela e la natura mortale.
Il fatto che l'Aids coinvolga soprattutto gruppi sociali particolari attutisce l'impatto della malattia sulla società e consente di proseguire nell'opera di proiezione della negatività. Attualmente chi è malato è “diverso”, vive un'esperienza culturale di diversità. Proprio per questo, chi si avvicina in modo onesto al mondo della sofferenza umana trova una occasione di arricchimento e di riflessione, poiché dove si situa la diversità si sviluppano elementi importanti dell'umanità spesso dimenticati da chi si colloca nel centro glorioso della normalità.
Siamo disposti a chiederci cos'è la vita e cosa ne fa parte? Italo Svevo per esempio, ne La coscienza di Zeno , sottolinea da un lato che la vita, nonostante il dolore che dà, non può essere considerata veramente una malattia, e dall'altro lato che la vita, a differenza delle altre malattie, è sempre mortale, non sopporta cure.
Quando si dice, anche con buone intenzioni, che l'Aids è una malattia come le altre, non ci si rende conto di ribadire che i malati di Aids soffriranno le stesse pene degli altri malati; la normalità consisterà nel bollire nella stessa pentola degli altri indesiderabili, dato che oggi la malattia è una condizione umanamente invivibile. Vale la pena allora di considerare l'Aids una malattia diversa dalle altre, nell'ottica di uno sfruttamento culturale, come sfida di cambiamento di valori, di cui anche le altre malattie beneficino.
L'Aids di solito interessa in quanto "patologia", non come condizione di persone, perché nessuna persona ammalata interessa in genere alla medicina tecnocratica. La medicina centrata sulla tecnica mostra interesse solo per le patologie e se si rivolge agli uomini malati è per descrivere e interpretare le devastazioni che la sofferenza provoca in loro. L'esperienza di convivenza con la sofferenza invece è considerata irrilevante o inservibile.
C'è tutta una prospettiva da ribaltare allora per rendere possibile la comprensione della vita nella malattia, accettando anzitutto la fatica di un lavoro di approfondimento critico. Riconoscere dentro la realtà questa morte scambiata come in guerra, attraverso rapporti intimi nella quotidianità, ci spaventa oltre misura perché non siamo più abituati a riflettere sul significato e sulla legittimità della sofferenza nelle relazioni interpersonali. La minaccia all'annientamento, tuttavia, proviene proprio dagli altri esseri umani per noi che riteniamo l'ambiente piegato ai nostri voleri.
La diffidenza e l'individualismo già dominante nella nostra società vengono enfatizzati dall'Aids in quanto infezione che passa in maniera subdola dall'uno all'altro, tramite persone non riconoscibili dall'aspetto, vicine e mescolate a noi. Si preferisce infatti pensare che l'Aids sia sempre altrove, non tra noi, a scuola, al bar, per strada. Ciò che è inconcepibile, indesiderabile, invivibile è sempre “fuori”, non può stare nel circuito ordinario della normalità. È proprio qui che bisogna riportarlo, cioè riconoscerlo, poiché è parte integrante della realtà.
Mattia Morretta (28 febbraio 1994)