Estate al Centro Venereo (CAVe)
«Un'estate al Cave / stile Treponema...». Così si cantava tra amici, agli inizi degli anni Ottanta, sulle note adattate ad arte del successo di Giuni Russo, per riferirsi ai controlli per Malattie a Trasmissione Sessuale presso lo storico Centro Anti-Venereo di Milano.
Un medico oramai in pensione e attivo solo nel privato, sensibile e attento, dotato di molte qualità, non ultima quella di mettere a proprio agio i pazienti omosessuali con garbo e levità, all'epoca aveva reso un anonimo e brutto ambulatorio ospedaliero di dermosifilopatica un ambiente dall'atmosfera accogliente e quasi invitante.
La politica di collaborazione del CAVe con il Centro di Iniziativa Gay, pur mirando anche a reclutare utenza per produrre dati statistici e pubblicazioni, era riuscita a far avvicinare molti omosessuali per l'effettuazione di esami e visite in modo diretto e gratuito.
Tale bacino era poi servito per testare la diffusione dell'Hiv (a partire dal 1984 - anno dell'introduzione del test sierologico) e il rapporto strutturato con l'Associazione Solidarietà Aids per alcuni anni aveva consentito un dialogo sulla qualità della relazione medico-paziente nonché delle cure degli Hiv positivi.
Va pur detto che parecchi medici assistenti lasciavano a desiderare e che pur nella sua età dell'oro al CAVe non si era mai andati oltre la sorveglianza passiva e la diagnosi precoce. E oggi? Conscio dell'inesistenza della componente sociale (nessuna reale istanza di salute da parte delle ONG attuali, quindi nessun vero rapporto con le strutture sanitarie), con spirito da giornalista free lance e per curiosità di verificare sul campo la sedicente "prevenzione" nei Servizi Pubblici, mi sono recato al vecchio ambulatorio con due amici del tempo che fu, poco prima dell'inizio dell'estate, appunto. Il nome è cambiato e i locali si trovano al piano terreno e non più al primo piano, annunciando non tanto una facilitazione dell'accesso quanto una discesa complessiva dello standard verso la medicina di massa, nonostante il ricambio recente dello scarno arredamento e la tinteggiatura delle pareti. Si sa, i fondi sono ridotti, l'Aids non è più così redditizio e l'investimento delle risorse (non solo materiali) è ai minimi termini. Varcata la porta a vetri e percorso un inutile corridoio, ci si trova in una sala d'aspetto angusta, con una quindicina di sedie di plastica, copie di copie sbiadite alle pareti, in un angolo in alto un display per i numeri di chiamata, poco materiale informativo (tra cui "Esse Più", il foglio informativo destinato ai sieropositivi - al solito nei posti sbagliati). Dietro un bancone sormontato da uno spesso vetro (modello ufficio postale a rischio rapina) un'infermiera pone domande rituali e fornisce qualche indicazione di massima, tra le quali la necessità di avere con sé la tessera sanitaria (senza specificarne lo scopo). Tutti gli utenti, di fatto, si comportano in modo controllato più che misurato, dando per scontato che ci sia uno scotto da pagare per usufruire di prestazioni sanitarie per problematiche scabrose se non vergognose. Riservatezza e confidenzialità sono optional di lusso, il convento passa burocrazia, superficialità, omologazione, qui come un po' dappertutto nella sanità pubblica. Viene consegnato un talloncino di carta con il numero di progressione, come al banco del pane al supermercato, però in pratica non vi si ricorre, perché un'altra infermiera fa capolino per chiamare "per nome" (no, il cognome non si dice "per rispettare l'anonimato"!) il paziente successivo, pur rischiando di vedere alzare più individui in caso di omonimia.
L'impressione è che si selezionino i cittadini disposti a presentarsi con tanto di documenti (viene chiesto persino l'indirizzo di casa) per poi trattarli come numeri (circolare, avanti il prossimo, zitti e composti in riga).
Il colloquio con il giovane medico (specializzando? apprendista stregone?) è ai confini del manuale della perfetta indifferenza. Si dedica a ricette e documenti precedenti da completare, senza neppure alzare lo sguardo o salutare.
Poi comincia la trafila dei quesiti standardizzati per compilare schede e registrare notizie minimali, vaghe e inutili, buone a cavarne qualcosa di approssimativo sui grossi numeri (tanto i committenti e i destinatari pubblici e privati sono per lo più distratti e prendono quasi tutto per "scientifico").
Nessun interesse, non dico per la storia sessuale o la vita dell'utente, ma neanche per le concrete esperienze; né vera raccolta di anamnesi né tanto meno approfondimento dello stile di vita e delle abitudini comportamentali del soggetto. Quest'ultimo deve rispondere solo a certi interrogativi posti dal dottore per eseguire il mandato ricevuto dalla dirigenza allo scopo di evidenziare determinate variabili.
L'operatore non cerca di stabilire un contatto e non commenta affermazioni e risposte; inoltre, non fornisce autonomamente informazioni sulle infezioni e le precauzioni, verosimilmente perché le ritiene superflue o perché la routine gli fa credere che gli altri sappiano già tutto quello che sa lui.
Per l'oggetto che ci interessa, una domanda vale la pena di riferirla per esteso: "Ha rapporti con donne, con uomini o con tutti e due?". Ci si chiede dove abbiano studiato e quali corsi di formazione abbiano seguito simili professionisti della banalizzazione. Ah, bei tempi andati, quando le parole avevano un peso...
Inutile dire che il restante interrogatorio riguarda l'uso di droghe per via endovenosa, la presenza di un "partner fisso", il numero di partner nell'ultimo anno, le malattie già contratte, l'eventualità di rapporti penetrativi e orogenitali "non protetti", la data dell'ultimo test Hiv.
Niente su partner Hiv positivi, utilizzo del profilattico e in quali circostanze, anche temporali. Escluse visite e test genitali o anali, se non viene segnalato un problema dal paziente. Tutto si svolge in un clima da ufficio amministrativo, in modo generico, privo di articolazioni e varianti logiche. La finalità, infatti, non è la verifica delle conoscenze e competenze preventive nella sfera della condotta sessuale, in possesso della persona recatasi in ambulatorio (non accenno volutamente alla comprensione dello stato d'animo e dei vissuti e significati, cioè alla creazione di una relazione fiduciaria); ciò che conta è poter elencare a fine mese e poi anno il numero di pazienti infettatisi per questa e quella patologia e i loro "fattori di rischio". C'è da chiedersi: siamo sicuri che sia necessaria la figura del medico per svolgere un'attività quasi impiegatizia? Certo, in presenza di sintomi di MTS, la prescrizione di cure, il passaggio alla presa in carico per la sieropositività... Effettuato il prelievo, per ottenere l'attenzione e concludere l'incontro ho dovuto ripetere due volte "posso andare?", perché medico e infermiera mi avevano già archiviato senza parole, tanto erano indaffarati tra i moduli da completare e le discussioni circa i problemi relativi a un altro paziente privo di documenti regolari. Una decina di giorni dopo ho tentato di ritirare i referti, ma la riduzione del personale in concomitanza con un ponte festivo ha prodotto una tale ressa da farmi desistere, perché avrei dovuto attendere almeno un'ora oltre la mezza già trascorsa. E dunque, come stupirsi che la prevenzione langua nella stanca ripetizione di frasi fatte e la mistificazione regni sovrana nel campo delle MTS? Del resto, un'impostazione della sanità impersonale e astratta (a dispetto della vantata concretezza), collude con le esigenze di larga parte degli utenti omobisessuali, sia perché indisponibili a mettersi in discussione sia perché abituati a chiedere e dare estraneità attraverso il sesso. La morale è facile: sono le persone a fare la differenza, a creare ambienti vivibili perché vi portano l'anima. No, non tornerò allo sportello dello screening massificato, soltanto in apparenza a basso costo e senza danni. Stavolta cambio spiaggia e litorale. Un'estate al mare... Mattia Morretta (settembre 2005)