Gruppo psicoterapeutico per soggetti tossicodipendenti con infezione da Hiv e diagnosi psichiatriche Progetto Ponte a cura di A. Zanardo del Centro Ambrosiano di Solidarietà, Milano
L’istituzione di un gruppo centrato sulla tematica Aids (condotto da un collaboratore esterno, proveniente dall’aera del volontariato sociale) rappresenta il frutto della scelta di affrontare in modo diretto ed inequivocabile la tragedia della malattia e del dolore, superando atteggiamenti mistificatori che finiscono per colludere con la tendenza alla rimozione del problema da parte dei diretti interessati, cioè i tossicodipendenti sieropositivi e non.
La superficialità di un approccio generico o di maniera adottato da gran parte delle Comunità di Recupero riflette infatti la paura degli operatori medesimi di fronte all’eventualità di portare alle sue estreme conseguenze la riflessione sui significati dell’Aids.
In verità è probabile che l’Aids rimetta in discussione molti “programmi” che si presentano come strade a senso unico versa una normalità idealizzata e una socializzazione tanto forzata quanto insensata, privilegiando una attitudine correttiva che insegna ma non educa.
Il gruppo Hiv-Aids definisce la creazione di un ambito specifico per la problematica all’interno di un percorso stabilito, il che significa riconoscere l’importanza del dare una “dimensione” alla realtà dell’aids, nonché dell’aver cura della sofferenza provocata dall’infezione anche solo in quanto minaccia. È la struttura che sceglie nell’interesse del soggetto e, transitoriamente, al suo posto l’approfondimento di tematiche ansiogene ed inquietanti.
L’identità e l’integrità dei membri del gruppo sono garantite (tutelate) dagli operatori che li accompagnano nell’esperienza di presa di coscienza. Così facendo la struttura si assume la responsabilità di farsi carico dei vissuti e della condizione delle persone con Hiv-Aids e al contempo invia un messaggio esplicito nel senso dell’accoglimento del problema al fine di conseguire un adattamento.
Non viene offerta una “soluzione”, bensì l’opportunità di acquisire abilità di autogoverno e orientamento, senza millantazioni e in tutta onestà. In pratica proponendo e offrendo l’esperienza del gruppo Aids l’Ente dichiara di far fronte consapevolmente alla questione e di credere nella possibilità realizzare in ogni caso forme costruttive di convivenza con l’Aids.
L’aspetto coercitivo della partecipazione al gruppo, che pure costituisce un ostacolo relativamente alle motivazioni e ai tempi propri dei singoli componenti, enfatizzando ed oggettivando il vissuto di imposizione di “cattivi pensieri”, spinge le persone a manifestare e giocare “in pubblico” le riluttanze e le resistenze sperimentate in solitudine e nel silenzio. La dichiarazione della difficoltà e l’espressione della debolezza sono autorizzate dalla presa di posizione della Comunità, che si assume la responsabilità del confronto e della parola in attesa di veder maturare la capacità di scelta dei singoli attraverso il lavoro del gruppo stesso.
Si tratta, anzitutto, di passare da un piano fantastico e fantasmatico (l’Aids mitizzato: impensabile, impossibile, invivibile, non affrontabile) ad un piano di realtà, mettendo le persone dinanzi alla evidenza di ciò che già accade, cioè la convivenza seppur precaria o accidentata. Si può partire da quel che c’è e si è, permettendosi di verificare le strategie di sopravvivenza adottate più o meno inconsciamente e la tenuta o il temuto crollo al cospetto dei vissuti interiori estrinsecati.
Il gruppo deve consentire l’elaborazione di un linguaggio per poter parlare di Aids, nominarlo e nominare le paure, le inquietudini, far circolare e scambiare “cose buone” ed energetiche, idee che sostengono al posto di quelle che mutilano o rendono invalidi. Il discorso sull’angoscia e sulla sofferenza mira a “richiamare un io dagli abissi della patologia” (Oliver Sacks), incoraggiando un pensiero positivo capace di far compagnia e di tollerare anche la disperazione.
Nel gruppo viene combattuto il potere degli stereotipi diffusi sulla condizione di soggetto sieropositivo o malato e la pervicacia del catastrofismo imperante, senza tuttavia scivolare verso l’onnipotenza o la maniacalità. Di fatto, l’Aids è la malattia che nessuno vuole avere e chi è malato è concepito come un disgraziato condannato ad una morte vergognosa.
La valorizzazione dell’esperienza di convivenza con la malattia (confronto serrato con il dolore, la mortalità, il senso della vita, l’invalidità) avvia un processo di “umanizzazione” che rende possibile l’auto-riconoscimento. La definizione dell’identità dà forza perché permette di radicarsi nella propria vita reale invece di restare sospeso nell’inconsistenza del voler o dover essere.
Il cammino del gruppo prevede la riflessione sul tema dell’assunzione della responsabilità esistenziale (vivere la propria vita), di cui l’aspetto dell’uso di precauzioni nella sfera sessuale è solo una conseguenza “secondaria”. Vanno sondate le rappresentazioni della malattia e della morte, individuati i nodi fondamentali del rapporto con i congiunti e la società nel suo complesso, offrendo le coordinate di base per situarsi il più possibile realisticamente nel sociale.
Occorre precisare le dinamiche della lotta tra “sani” e “malati” e tra gli stessi “malati”, cercando di rendere comprensibili le ragioni degli uni e degli altri. Sono inoltre inevitabili ripetuti confronti con le questioni della solitudine e della “lontananza” (separatezza) sempre associate all’aumento della consapevolezza di se stessi e della mortalità individuale.
Il lavoro nel gruppo deve tener conto delle differenti personalità e delle situazioni di partenza, molto complicate quando non disastrose (storie di gravi privazioni e violenze), con conseguente condizionamento del livello di approfondimento. Particolare complessità è aggiunta dalla presenza di individui con disturbi psichiatrici e di persone sieronegative. Nel primo caso è necessario calibrare gli interventi sulle difese psichiche più rigide e minimali (spesso di tipo psicotico), il che implica un percorso più “superficiale”. Nel secondo caso si tratta di contenere il conflitto di interesse tra chi è sieronegativo e deve restare tale (benché sovente sussistano altre condizioni patologiche, ad esempio epatiti croniche) e chi è sieropositivo e talora ha già sperimentato vari tipi di patologie correlate all’Hiv.
Inevitabilmente lavorare sull’identità di persona con Hiv-Aids richiede ai componenti sieronegativi un ruolo di testimoni e accompagnatori, ma il confronto è comunque stimolante ed educativo, anche perché tutti sono accomunati dalla necessità di fronteggiare un oneroso svantaggio esistenziale e di rinvenire motivazioni forti per il cambiamento.
I membri del gruppo sono soggetti che provengono da un passato “terribile” capace di imporsi come destino fallimentare, profezia e verità ultima. Nel gruppo Aids si tenta di dare e far spazio ad un presente concepibile e vivibile, in cui poter operare scelte vitali pur in assenza di garanzie di "successo". Si è alla ricerca di un equilibrio, sempre instabile, tra l’estraneazione e l’identificazione: cioè, tra il vivere la malattia come nemico esterno e quindi rifiutarla radicalmente (estraniandosi di fatto da se stessi), e l’abbandonarsi passivamente alla corrente della malattia diventando tutt’uno con essa e abbracciando il proprio carnefice (perdendo se stessi). Per i sieropositivi e i sieronegativi l’obiettivo è di riuscire comunque a tollerare di vivere nell’incertezza, rinunciando per quanto possibile all’idealizzazione delle certezze come assolute.
Al termine di un anno circa (incontri di un’ora e mezza con frequenza quindicinale) le persone coinvolte hanno la possibilità di richiedere (e quindi “scegliere”) di proseguire il lavoro di riflessione e accompagnamento. Tale eventualità si configura come una conferma della validità degli assunti di partenza.
Mattia Morretta (gennaio 1994)