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HIV: Licenza di infezione?

Alcuni episodi di cronaca hanno proposto anni fa alla pubblica opinione il tema del risvolto giudiziario del contagio da Hiv, in particolare il caso portato in tribunale dai parenti di una giovane donna morta per Aids perché infettata dal marito che aveva taciuto il proprio stato con poco credibili scuse (tra le quali il timore di perdere la partner - più persa di così!).

Anche in altri paesi europei è stato affrontato in modo discontinuo l’aspetto legale della trasmissione del virus Hiv, in genere in rapporto a singoli processi intentati da congiunti di individui deceduti.

Di recente, però, si è parlato di sanzioni penali per la condizione di infermità permanente associata all’Hiv, quindi non tanto come minaccia o attentato alla vita quanto come perdita definitiva di salute e acquisizione di patologia invalidante (il che riflette l'evoluzione verso la cronicità).

Può sembrare strano per coloro che sono oramai abituati a considerare l’infezione da Hiv una delle tante cose che possono capitare quando si fa del sesso, una conseguenza in fondo accettabile per un gay moderno, abitante del pianeta rosso dell’hard sex in offerta orario continuato nei centri specializzati.

Impegnarsi nel cambiamento dello stile di vita o sviluppare una propria sessualità non dipendente dal mercato/ambiente è troppo faticoso per chi ha speso tutte le energie che possedeva o riteneva di dover spendere per dichiararsi gay oppure per varcare la soglia dei locali gay (fatto che non implica una presa di posizione riguardo a ciò che vi si fa!).

Non è poi così oneroso fare ogni tanto un giretto in ospedale, incontrare in ambulatorio pazienti più o meno eccentrici e divertenti (altro che i malati deprimenti e noiosi della medicina pubblica!), provare un po’ di tutto in termini di farmaci e trattamenti, informarsi sugli effetti collaterali, avere talvolta problemi di coscienza, redigere un testamento, magari lamentarsi che i familiari del fidanzato fanno discriminazioni, e via inscenando commedie: ce n’è in abbondanza per non annoiarsi per un buon ventennio…

Al di là del merito giuridico e delle forme che potrebbe assumere una normativa in materia (trasferendo sul piano dell’interesse collettivo dolorose vicende individuali), il dibattito sulla penalizzazione del contagio può aiutare almeno a tener viva l’attenzione su due questioni: la responsabilità personale e la gravità della infezione.

Che l’Hiv configuri un grave danno biologico non dovrebbe essere in discussione, perché non è solo l’organismo a patire insulti, bensì l’intera qualità della vita psicosociale, a tutt'oggi per sempre. Che esista il dovere per un sieropositivo di non diffondere l’infezione dovrebbe essere altrettanto assodato, benché l’argomento non sia molto gradito neppure agli attivisti delle ultime generazioni (un tempo non vi era malato che non lo ribadisse in occasioni pubbliche: certo, la morte incombeva…).

Quando si è giunti alla diagnosi (in verità, persino quando è logico sospettarla), si è responsabili di porre in atto tutte le cautele possibili per evitare la trasmissione del virus, non equivocando sul fatto che tutti sappiano ciò che fanno in termini sessuali e non possano vantare ignoranza circa l’esistenza di malattie correlate al sesso.

Non si tratta di trovare un colpevole e di mettere all’indice alcuni attribuendo loro malvagità o cinismo più che agli altri; piuttosto, è in causa quanto spetti a ciascuno in oneri di coscienza e scelte secondo il ruolo e la parte nella trama relazionale e sociale.

Esser consci della propria sieropositività nonché del rischio che comporta un rapporto non protetto e ciò nonostante decidere autonomamente di far correre tale rischio ad un’altra persona, ignara e all’oscuro del presupposto, significa avere la volontà di contagiare?

L’intenzione di trasmettere il virus è implicita nel decidere di tacere o dissimulare il proprio stato? Non dire e agire come se l’infezione non esistesse e non fosse conosciuta sono o devono essere condotte penalmente sanzionabili?

Assumere consapevolmente un rischio noto di contagio a proposito dei partner sessuali configura una situazione, oltre che di colpevolezza morale, anche di responsabilità giuridica, in quanto indicativa di volontà o intenzionalità di arrecare ad altri un danno irreversibile?!
In Francia c’è chi ha già preso posizione esprimendo parere favorevole.

Un approfondimento pare opportuno, in tutta onestà e senza veti, cercando di (ri)valutare l’importanza della dimensione etica della sessualità e al contempo il valore delle nostre vite.

Mattia Morretta (settembre 2005)