Il ragazzo rapito dai mari del Sud Stevenson e l’isola della fantasia
• Umbria Green Magazine, 14 dicembre 2021“Col vento che spirava dal mare, le piccole onde venivano a morire sulla riva non più alte di quelle che si formano sulla superficie dei laghi. L’estuario era lontano, ma l’odore di salsedine giungeva ugualmente alle mie narici, distinto e piccante, e io mi sentivo straordinariamente eccitato da queste nuove sensazioni. Il Covenant, frattanto, cominciava a spiegare le vele, che pendevano simili a grappoli dai pennoni, e l’atmosfera di tutte quelle cose che vedevo fecondava nel mio cervello fantasie immaginose di viaggi lontani e di terre straniere.”
A parlare è il protagonista de Il ragazzo rapito di Stevenson, il diciassettenne David Balfour, figlio di un maestro di campagna con nobili ascendenze, rimasto orfano e ancora ignaro di essere stato venduto dallo zio al capitano di un brigantino per sottrargli le legittime proprietà. Un rapimento che ha per fondale storico la ribellione scozzese a metà del Settecento contro le imposizioni della corona inglese, una repressione volta a sradicare cultura e lingua gaelica vietando persino le tipiche stoffe e il gonnellino.
Scritto a Bournemouth, pubblicato sulla rivista Young Folks nel 1886, l’anno d’oro di Stevenson (basta citare Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde) e nell’imminenza del definitivo abbandono della terra natia, il romanzo è considerato dallo stesso autore la sua migliore prova narrativa, col consenso dell’amico Henry James. Del resto ne sono state proposte numerose versioni televisive e radiofoniche, che hanno alimentato un turismo specifico, con escursioni nelle Highlands lungo la Stevenson Way, attraverso campagne, cime e laghi incantevoli di una regione incontaminata bagnata dall’Atlantico e dal Mare del Nord.
Robert Louis, nato a Edimburgo, figlio di un ingegnere costruttore di fari (eccellente simbolo di approdo e di luce nella tenebra notturna), malato sin da piccolo e destinato a morire a quarantaquattro anni, reca indelebile nell’animo l’imprinting delle cupe ossessioni infantili, un intreccio di suggestionabilità emotiva e vulnerabilità fisica per il vissuto di costante minaccia e pericolo.
La sua sensibilità, sollecitata dai grandi accentuando le ombre e il buio, a cominciare dai racconti della governante Cummy (ricchi di superstizioni, incubi, spettri e briganti), riesce tuttavia a trovare vie di fuga e illuminazione nella precoce rielaborazione creativa. E la salute cagionevole, che condiziona il corso di studi e i risultati, favorisce l’interesse per la parapsicologia, il sonnambulismo e la dissociazione. Nel 1891 in una lettera a H. B. Baildon confessa infatti: “In fondo sono sempre stato uno psicologo e me ne vergogno”.
Già da adolescente cerca di opporre alla rigida religiosità famigliare, intrisa di fanatismo protestante, la coscienza della menzogna, dello squallore e della malvagità dietro la facciata di moralità e rispettabilità, il tessuto di contraddizioni e irrazionalità di un manicheismo che separa in superficie buoni e cattivi per meglio coprire la negatività insita in ciascuno.
Così da universitario fonda con alcuni compagni un club privato chiamato “Libertà, Giustizia e Rispetto”, allo scopo di restituire alle parole il loro vero significato e disconoscere gli insegnamenti genitoriali, nell’orizzonte di una fede socialista e atea. E sarà appunto la scrittura a consentirgli il recupero e la sublimazione nella dimensione immaginaria dei complessi e dei dubbi sull’identità.
Non per nulla ne Il ragazzo rapito il giacobita Alan Breck, alla macchia per sfuggire ai soldati di Re Giorgio, riesce a vergare nel folto di un bosco una lettera da inviare ai suoi congiunti, grazie a una penna di colombo selvatico e all’inchiostro ottenuto mescolando polvere da sparo e acqua di ruscello.
Cruciale in tutta l’opera di Stevenson è la perplessità sulla normalità psico-sociale, i personaggi ambigui e intercambiabili si dis-turbano reciprocamente, sono opposti che si attraggono, ottiche diverse che si incontrano in un gioco di mascheramento e di fuga. E l’unità si ottiene ricollegando le parti evitando di fonderle e di prenderle alla lettera, perché il bambino e l’adulto, l’amoralità e l’immoralità, la regressione e il progresso, sono funzionali all’espressione della complessità della personalità e della crisi della civiltà europea.
In Kidnapped il ragazzo, borghese e scrupoloso presbiteriano della Bassa Scozia, durante l’estate del 1751 compie un viaggio di formazione (la sua “grande Odissea”) legandosi affettivamente a un mentore adulto delle Alte Terre, l’aristocratico Alan Breck, cattolico e libertino, capace di guidare senza imporre le sue scelte comportamentali.
Il contatto benefico tra i due, in una quotidianità più autentica e naturale, nella cornice di uno straordinario paesaggio selvatico, consente di integrare i vizi e le virtù di base in un progetto di realizzazione nel quale lealtà e amicizia superano le barriere di fede, politica, ceto. Ne deriva una difesa del chiaroscuro e della contiguità di bene e male, contro i miti del successo, l’idolatria del soldo e l’imposizione dell’uniformità culturale.
Il romanzo occupa un posto speciale nell’itinerario esistenziale di Stevenson, perché rappresenta la premessa della successiva drastica opzione per un mondo alternativo al modello commerciale di vita occidentale. Non a caso si chiude con la mano della Provvidenza che conduce David fino alle porte della Banca, trascinandolo attraverso l’impetuosa marea cittadina “come un relitto in balia delle onde spumose”.
In The South Seas Stevenson spiegherà di esser stato aiutato nella comprensione delle genti indigene dalla conoscenza delle popolazioni scozzesi, che nel secolo precedente si erano trovate in uno stato conflittuale di transizione analogo a quello dei nativi delle Marchesi. Uno scenario dominato da autorità straniere oppressive e sfruttatrici, tribù disarmate e capi destituiti, introduzione di nuove abitudini corrosive (l’abuso di alcolici), e soprattutto l’effetto deleterio del denaro quale fulcro del sistema.
Robert Louis, ancor prima di prendere il largo, parte dunque dalla nostalgia “dell’erica e dei daini” della profonda Scozia, una terra ancestrale nella quale gruppi di famiglie si disputavano il potere, esattamente quel che sperimenterà di lì a poco in Polinesia.
Il suo fascino per una piccola comunità patriarcale fondata sulla tradizione e sul vincolo morale, imperniata su un leader temuto e “amato”, traspare nella figura di Cluny Macpherson, uno dei condottieri della rivolta del 1746, il quale pur proscritto e fuggiasco, costretto all’isolamento in una “gabbia” fatta di tronchi sulla sommità di una collina rocciosa, esercita la giustizia e risolve controversie con la “nuda parola”.
Al pari di qualsiasi re è preda di collera e tuona dall’alto, impartisce ordini e scaglia terribili minacce, i suoi servi tremano e umilmente piegati si allontanano “come fanciulli davanti alla giusta ira del padre”.
Le rudi società barbariche, a metà tra natura e civiltà, appaiono agli occhi dell’autore più vicine ai dati antropologici originari, benché ne conservino pure i lati negativi e sgradevoli. In effetti, egli stesso diviene a Samoa una sorta di sovrano onorario, grazie alla fama e al ruolo di rappresentante della potenza britannica, tutelando gli interessi degli abitanti nei confronti dei funzionari coloniali, non senza patire rappresaglie dalle fazioni in lotta.
Sposatosi nel 1880 con una americana (vedova e con un figlio), Stevenson era andato a vivere per qualche tempo a Silverado, un campo minerario abbandonato a nord di San Francisco, adattandosi a condizioni proibitive per aumentare le distanze dal consorzio civile. Otto anni dopo intraprende la crociera nel Pacifico del Sud che decide del suo destino, si ferma alle isole Marchesi e a Tahiti, soggiorna sei mesi a Honolulu ove visita il lebbrosario, infine approda alle isole Gilbert e a Natale dell’anno successivo giunge a Samoa, ove sceglie di stabilirsi. Acquista perciò un terreno e vi costruisce una casa assai confortevole, registrando con cura nel diario la furia degli elementi e le violente rivalità degli uomini, intimamente fedele alla sua vocazione letteraria, tanto da lasciare in eredità ben cinque testi narrativi.
La fine lo coglie all’improvviso il 3 dicembre 1894 intento a dettare una frase emblematica di un nuovo romanzo (La diga di Hermiston): “un’ostinata convulsione di materia bruta”. Viene sepolto con gli onori riservati ai capi tribù sulla cima del monte Vaea dinanzi all’oceano.
Un decennio prima aveva scritto in Kidnapped: “Sarei crollato a terra per morire sulle fradicie erbe di queste selvagge montagne come un daino o una volpe, e le mie ossa sarebbero divenute bianche e fragili come le ossa di un animale dei boschi. Cominciai ad amare questa prospettiva, a immaginare, quasi con desiderio e con orgoglio, la scena di questa mia purissima morte, solo in quella regione deserta, mentre le aquile rapaci vegliavano, col loro volo solenne, sul mio povero corpo”.
Mattia Morretta