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La farfalla nel cuore di Emily Jane Brontë

Presto sarà visitabile, a beneficio dell’ambizione delle nuove generazioni, la casa natale di una delle scrittrici più schive di sempre, che aveva preferito il regno dell’immaginazione al posto in società.

• Art a part of culture

Verrò quando più sei triste
sola nella stanza oscura
svanita ormai ogni follia del giorno
bandito il sorriso della gioia
nelle fredde tenebre serali.
(novembre 1837)

Il 30 luglio del 1818 nasceva a Thornton, piccolo villaggio nel distretto di Bradford (Yorkshire), Emily Jane Brontë. La casa dove ha vissuto sin quasi al secondo compleanno, prima del trasferimento della famiglia nella celebre Canonica di Haworth, è da poco di proprietà pubblica, dopo esser stata macelleria, piccolo museo e infine caffetteria (Emily’s). Una volta restaurata, la piccola villetta a schiera in Market Street verrà inaugurata in occasione dell’evento “Bradford City of Culture 2025”, con l’intento di farne un centro didattico con possibilità di soggiorno per lasciarsi ispirare a perseguire il successo nonostante gli svantaggi di partenza.

Un programma coerente se riferito a Charlotte Brontë, certamente ambiziosa, ma un paradosso considerando la personalità introversa di Emily, la cui evanescente fisionomia storica rende lecito chiedersi se sia mai esistita fuori dai manoscritti, custoditi con gelosia.

Nel suo caso il capolavoro narrativo e i luoghi della trama, pur immortalando il nome dell’autrice, sono diventati il vero oggetto di culto, dando ragione all’opinione di Wilde sull’opera di valore che deve rivelare l’arte e nascondere l’artista. L’unico romanzo, pubblicato con scarsa convinzione alla fine del 1847, assurto a mito intorno alla metà del Novecento grazie alle infedeli ma clamorose versioni cinematografiche, reso testo obbligatorio per il gentil sesso in fase adolescenziale ancora mezzo secolo fa, ristampato pressoché d’ufficio, ha in pratica reso secondaria la mente visionaria che l’ha concepito.

La perla rara di un’immaginazione geniale, che ha fatto di Emily una presenza granitica della letteratura, per usare parole sue “pietra per pavimentare le strade”, al contrario di molti scrittori acclamati, “latta lucidata per passare come argento”, appare perciò legata con un esile filo alla figura reale, vissuta appena tre decenni, sfuocata e grigia, intravista di sfuggita dagli abitanti di Haworth, rubricata tra gli esemplari di scarso interesse per la collettività.

Nella prefazione all’edizione del 1850 di Cime tempestose, Charlotte si riteneva già in dovere di dare spiegazioni a proposito della silenziosa e impresentabile parente: “Devo ammettere che conosceva la gente del paese in cui viveva quasi quanto una suora conosce il campagnolo che ogni tanto bussa alla porta del suo convento. Mia sorella non aveva una natura socievole; una serie di circostanze favorì e ne rafforzò la tendenza all’isolamento: di rado varcava la soglia di casa, se non per recarsi in chiesa e a passeggiare sulle colline. Sebbene provasse sentimenti benevoli per le persone che vivevano nei dintorni, non cercò mai alcun tipo di contatto con loro”.

Emily Jane possedeva in effetti una volontà “selvatica” e come l’amato falco Hero agognava i boschi e le vette, indifferente alle lusinghe del mondo. Fosse stato per lei, che pure amava sin da ragazzina trascorrere i giorni “nella miniera d’oro del sapere” e nel “Palazzo dell’Istruzione” edificato dalla fervida fantasia, leggendo un gran numero di autori (anche classici, da Esopo e Virgilio a Plotino), il romanzo e le poesie (circa duecento, tutt’oggi ignote ai più) sarebbero rimasti nascosti o finiti nel fuoco, sentendosi votata a trasferire la vita sulla pagina soltanto per esigenza espressiva, esercitare le facoltà mentali e mettere a frutto il talento ricevuto.

Sorda alle sirene cittadine, ai vincoli della comunità rurale preferiva il connubio con l’erica nella brughiera, mentre nella cornice domestica coltivava pisello siciliano, mele e ribes, assimilandosi a giacinti e campanule, fiordaliso e rosa canina. Ma non cercava nella natura il proprio volto, anzi, si offriva quale specchio fedele della durezza e ferocia di un habitat che relega gli uomini a spettatori e osservatori da una finestra o una feritoia.

A farle da amico e alter ego il mastino nero Keeper, che poi aveva seguito il funerale in chiesa e per settimane era rimasto seduto davanti alla sua camera, trovando riposo a distanza di tre anni nel terreno della Canonica accanto alla Chiesa. Compagno ideale per una filosofa cinica, non poteva mancare nei poemi e nei disegni, persino la sorella maggiore li ha presentati insieme in alcuni romanzi.

Infatti May Sinclair, in un appassionato saggio del 1912, parla di Wuthering Heights come di una storia di solitudine femminile, di cui conta la forza e non la debolezza, e altresì di un lavoro costante di scarto dell’inessenziale, perché per lei tutto era presagio e attesa della rivelazione o della visione.

Emily Jane radicalizzava isolamento e sottrazione paradossalmente per alimentare la speranza e non depauperarla con illusorie opportunità sociali, avendo appreso presto che ovunque c’è “carestia di volti umani”. Al pari di una pianta o un animale, ha tesaurizzato quel che le offriva l’ambiente, rendendo le vicissitudini drammatiche della prima età una fucina di immagini in prosa e di epopee in versi, senza farsi mai distrarre dal compito di ricreare su carta una sua dimensione alternativa, un’occupazione tanto totalizzante da far dimenticare disagi materiali, patologie organiche, mancanza di gratificazioni e conferme.

Nel tumulto dei cieli e nel silenzio tombale del camposanto la sua figura ha perciò perso connotati fisici e anagrafici, diventando puro spirito narratore, simile al vento che grida nomi nella tormenta di neve ed evoca le voci di vivi e defunti.
Ebbene, come la nebbia confonde e la rarità degli alberi rende difficile orientarsi nei dintorni di Haworth (“il paradiso perfetto per il misantropo”), così la critica deve brancolare nel buio per l’assenza di dati, testimonianze, tracce tangibili.

In particolare il mutismo autobiografico (nelle briciole di lettere e diari) ha frustrato e vanificato la pretesa di identificare le fonti private della tematica amorosa. Perché non si riesce a credere che abbia potuto descrivere in maniera vivida e coinvolgente un sentimento di tale complessità in assenza di fatti concreti, dimenticando che regno vegetale e animale, stagioni, luna e stelle sono la scuola di formazione affettiva più qualificata e il dizionario della lingua madre.

Per questo in Cime tempestose le passioni sono sintonizzate sulla persistenza millenaria e sulla consistenza delle rocce (“Qui potrei credere possibile un amore che durasse tutta una vita”), non su frivolezza esteriore e mutevolezza superficiale. Non per nulla Camille Paglia, in una originale rilettura dell’opera negli anni Novanta, affermava che Emily andava in cerca della chiaroveggenza, non della soddisfazione sessuale o emotiva.

Pensatrice con una visione filosofica, degna dei contemporanei Leopardi e Lermontov, Emily è consapevole dello scheletro delle cose, e partendo dalla dura legge di sopravvivenza giunge al disegno generale che può restituire senso al dolore e all’orrore, poiché di fronte alle forze titaniche agenti nell’universo qualunque nostra pena risulta minuscola e insignificante. Per assurdo proprio il trionfo del male consente di intuire la verità mistica e trovar consolazione, grazie alla fede in una superiore giustizia e misericordia.

Lo spiega in modo lirico nel testo intitolato La farfalla, uno dei devoirs (compiti) svolti nel periodo trascorso insieme a Charlotte a Bruxelles, nel Pensionato del professor Héger, per perfezionare il francese. Datato 11 agosto 1842, sappiamo da Maddalena De Leo, rappresentante italiana della Brontë Society e curatrice della traduzione (I componimenti di Bruxelles), che il manoscritto era stato copiato in bella e insolitamente decorato.

Nel brano Emily ricorda di essersi incamminata una sera d’estate al limitare del bosco, col sole ancora alto e l’aria riecheggiante del canto degli uccelli. Una serenità di cui non poteva gioire a causa dello stato d’animo in cui il lume pare essersi spento e la vita è un deserto sterile in cui vagabondiamo, senza alcuna speranza di riposo o riparo, quando nell’immaginazione un rigido inverno ne inaridisce la vegetazione.

Perché canta il pettirosso fra i rami di una vecchia quercia con voce squillante? Forse per orientare la pallottola di un cacciatore o i sassi del fanciullo verso i suoi piccolo nel nido? Le mosche che si aggirano sul ruscello sono bocconi per rondini e pesci, i quali a loro volta saranno prede di qualche tiranno dell’aria e dell’acqua, gli uomini poi per divertimento o bisogno uccideranno gli assassini.

La natura è un enigma inesplicabile e poggia su un principio di distruzione: ogni essere è strumento instancabile di morte per gli altri e deve perire, e ciò nonostante noi festeggiamo il giorno della nostra nascita lodando Dio di averci permesso di vivere. Se l’uomo reca tormento, divora, soffre, viene annullato, ed è tutta qui la sua storia, perché è stato creato?

La giovane, notando un bel fiore appena sbocciato lo coglie, salvo accorgersi che tra i petali si annida un bruco, triste emblema della condizione terrena. D’impulso lo getta e calpesta il verme, ma, quasi fosse un angelo inviato dall’alto, vede volteggiare tra gli alberi una farfalla dalle grandi ali luccicanti d’oro e di porpora, che brilla un istante dinanzi ai suoi occhi e si dilegua nell’azzurro. Ed ecco l’illuminazione, una voce interna che invita a comprendere il simbolo della vita a venire: il mondo, grande macchina di miseria per la produzione di incessante male, è l’embrione di un nuovo cielo e di un’altra terra di infinita bellezza, l’infimo è anticipazione del sublime.

L’autrice manifesta dunque una profonda capacità analitica e sintetica, che le permette di cogliere sottili sfumature e corrispondenze nascoste tra piano fisico e sfera spirituale (sul modello di Leibniz), percepibili soltanto con una seconda vista e col distacco di chi è conscio di saper vedere. Il suo occhio al contempo di naturalista e di visionaria può così attingere al trascendente sotteso ai fenomeni sensibili.

D’altronde anche la scienza certifica la comunicazione attiva a tutti i livelli in natura, un sistema di scambi informativi parallelo al pensiero umano, la cui energia è partecipe di quella presente nel cosmo, in circolo tra realtà visibile e invisibile. Ed Emily, come dice nel romanzo, ha coltivato le facoltà di riflessione invece di disperderle in sciocche inezie, dimostrando di possedere insieme alla potente ispirazione una ferrea volontà, una solidità che le garantisce il senso morale indispensabile per penetrare le meccaniche celesti e istintuali.

Il suo esempio è la prova di quanto conti essere abbandonati alle proprie forze, nonché di come sia fondamentale seguire vocazione e costituzione, dando testimonianza di sé in maniera onesta e generosa, abitando e salvaguardando il mondo interiore. Perché aver cura dell’identità significa tagliare il ramo che non dà frutto e potare la pianta per migliorarne la qualità. Un volto autonomo rende allora superfluo indossare le maschere offerte-imposte dalla collettività, riducendo al minimo il dazio da pagare alle apparenze e alle convenzioni.

E tuttavia la coscienza sottratta al conflitto con la società, mediante l’autoesclusione, ritrova dentro di sé un equivalente contrasto. Poiché in noi agisce il magma incandescente del pianeta, una psiche non attuale o ammodernabile, bensì perenne e astorica, fonte di archetipi e mitologia, creatività, religiosità, sensitività e spiritismo. Per ciascuno quindi lotta e sofferenza sono inevitabili.

Eppure, attraverso la finestra della mente volitiva, ove Emily siede silenziosa e anonima, fa capolino l’immutato cuore di bambina sigillato dopo la perdita precoce della madre e delle prime due sorelle.

Infatti in uno dei compiti scolastici di Bruxelles (26 luglio 1842), simulando un’impossibile corrispondenza con la genitrice, sembra lasciar trapelare senza filtri l’intimità desolata: “Desidero tornare ancora una volta a casa e vedere le mura e coloro che amo tanto. Se almeno voi poteste venir qui, credo che basterebbe la vostra presenza a guarirmi. Venite allora, cara mamma, e dimenticate questa lettera, ho parlato solo di me ma di persona racconterei tante altre cose”. Nei suoi versi l’àncora dell’umano affetto gettata nell’oceano dell’eternità:

Sia sacro il luogo del tuo riposo
ovunque giaci o giacerai
venti dolcissimi ti sfiorino il viso
i più lievi di tutto il cielo.

Ti invieranno gli angeli
teneri sogni e pensieri d’amore
anche quando non potrò più
sul tuo sonno vegliare.
(luglio 1843)

Mattia Morretta