La farfalla nel cuore di Emily Jane Brontë
8 Luglio 2024

La favola taciuta

La vita silenziosa di Emily Dickinson tra natura e cultura

Forse in nessun altro caso letterario lo scenario naturale e la dimensione culturale mostrano appieno la reciproca influenza e interdipendenza, compenetrandosi alla maniera di trama e ordito in un unico tessuto, testimoniando che nulla di metafisico è possibile senza un substrato fisico, a maggior ragione in una specie il cui status elettivo è l’habitat del linguaggio. Infatti coltura e cultura derivano dallo stesso verbo latino che indica il coltivare.

Natura è ciò che conosciamo
ma non abbiamo l’arte di dire
così impotente il nostro senno
per la sua semplicità.
(n. 668, 1863)

La matrice biologica a dire il vero domina e ci determina sempre, ma soprattutto nella stagione iniziale e in quella conclusiva, lasciando nelle età intermedie spazio sufficiente per l’educazione e la formazione. Lettura e studio servono per poter seminare e via via far attecchire il germoglio, dedicandovi costanti cure, comprese la selezione e la potatura; la scrittura è invece assimilabile alla fioritura e alla maturazione dei frutti, con succosità e sapore dipendenti dal grado di assimilazione e trasformazione dei contenuti.

“Vomer di penna” la chiama Petrarca, che ara intorno all’alloro, mentre il dolce umore del pianto lo innaffia. Alda Merini nella premessa de Le briglie d’oro esortava per l’appunto i giovani a fare attenzione all’impegno in apparenza vano dei vecchi autori: “I poeti hanno vangato per voi la terra per tanti anni, per costruire altari”. In effetti la vanga della poesia rende fertile per l’umanità il terreno della lingua, un lavoro al contempo concettuale e manuale.

Si può ben dire che Emily sia stata “il fiore che mai in altro clima crescerà” di cui parla Thomas Milton nel Paradiso perduto. Viva e vegeta in quanto stanziale, quasi immobile come albero radicato nella terra natale, fedele alla sua indole, ha recintato e custodito il suo personale paesaggio interiore, l’hortus conclusus e il paradiso degli antichi, così come si chiudono i pensieri nei versi ed entro i confini della pagina.
Ed è indubbio che sino alla fine ha saputo conservare verso il pianeta l’atteggiamento ammirato tipico della fanciullezza, facendone l’occasione per acquisire e testimoniare la lucida coscienza delle crude verità rivelate dal libro vivente del creato.

Da ragazzina amava la ricerca solitaria all’aperto, passeggiate ed escursioni tra i colli e i boschi nei dintorni di Amherst. Il suo tempo era ed è rimasto segnato dalle fioriture e dai raccolti, non dall’orologio o dal calendario, tanto che ancora nell’adolescenza faceva fatica a leggere l’ora sulle lancette.
Le piaceva andare a vedere i fiori “a casa loro”, ne riportava vari esemplari (felci incluse) per avere la propria foresta a domicilio, nonostante madre e fratello la scoraggiassero mettendola in guardia da serpenti, specie velenose, rapimenti di spiriti maligni: “Ma io non rinunciai e non incontrai altro che angeli, che erano ancor più timidi al mio cospetto di quanto fossi io al loro, per questo non ho la stessa fiducia nella menzogna che hanno in molti”.

Proprio a tal scopo il padre a vent’anni le aveva regalato un mastodontico Terranova (o forse un San Bernardo), che lei aveva chiamato Carlo (“grande come me”). Delle colline e del “muto confederato”, i cui occhi diventavano eloquenti quando ascoltava le sue confidenze, diceva per lettera a Thomas Higginson: “Sono meglio degli esseri umani, perché sanno, ma non dicono”.
E aggiungeva: “Rifuggo da uomini e donne perché parlano di cose sacre, ad alta voce - e mettono in imbarazzo il mio cane - io e lui non abbiamo niente contro di loro, a condizione che se ne stiano da parte”. Si diceva altresì certa che sarebbe stato lui a correrle incontro per salutarla una volta giunta in Cielo.

Emily aveva iniziato a tenere un erbario a nove anni, giungendo infine a collezionare oltre 420 esemplari di fiori, steli, piante, persino due alghe, tutti essiccati e pressati. Una passione mutuata dagli studi di stampo illuministico, ma sempre libera dai ceppi dell’approccio accademico, tanto è vero che i nomi botanici non compaiono mai nei suoi testi e lei non risparmia ironie sulla scienza che a tutti i costi vuole interferire e squalificare altre letture o interpretazioni dei fenomeni.
Per esempio, tiene a sottolineare che se potessimo vedere il nostro panorama dall’altra parte, come Mosè, certo disdegneremmo molte discipline del tutto ignorate dagli angeli istruiti nei cieli scolastici (n. 168, 1860).

Anche nella corrispondenza con la cognata Susan sottolineava il suo provincialismo: “Sono una dei campi, si sa, e se mi trovo a mio agio col dente di leone, in un salotto faccio solo una triste figura”. Vantava di esser stata allevata nel suo “giardino puritano”, di essere un insetto di terra (balboa), una Phebe (pigliamosche), “niente di più e niente di meno”, e di aver come criterio di riferimento musicale il Robin (pettirosso).

Se daisy (margherita) era il soprannome con cui a volte si firmava, il botton d’oro era il suo capriccio perché entrambi sbocciavano dal frutteto e si augurava di venir portata al cimitero attraversando quel biondo corteo: “Quando verrà il mio turno, voglio un ranuncolo. L’erba me ne darà uno senza dubbio”.
Si diceva innamorata del giglio, di cui coltivava molte varietà, giocando sulla sfumatura sensuale: “Se fossi sicura di non essere vista da nessuno, potrei fare certe avances di cui nell’aldilà mi pentirei”. Si spingeva sino a ironizzare sul Vangelo: “L’unico comandamento al quale ho mai obbedito: guardate i gigli”.

D’altronde contava sul verde rigoglioso che circondava la grande dimora paterna, un vasto frutteto con centinaia di piante, ciliegi, peschi, susini, peri e un meleto avviato dal nonno, dal quale si ricavava il sidro. Non solo e non tanto realtà sensibile o tangibile, ma anche e soprattutto dimensione spirituale e sacra dell’esistenza, “bibbia” nella quale cogliere il disegno generale della creazione, occasione per interrogarsi sui massimi sistemi, concentrandosi sull’infimo e l’infinitesimo per trascendere l’angustia materiale e sociale. Non a caso il suo innaffiatoio era minuscolo, da bambina.

Scrutare la palpebra di vetro del pozzo vicino al granaio, da cui si attingeva l’acqua senza vederne il fondo, per lei era come guardare in faccia l’abisso, sfiorando con sgomento il mistero dell’universo. Una profondità insondabile, anticipo del sapere della tomba, che è il costante benché taciuto oggetto del nostro pensiero, una altezza celeste vertiginosa e forse patria definitiva, noi a metà in bilico su un solo piede tra la caduta e l’ascesa.

Come api, farfalle, colibrì e insetti, prediligeva il semplice trifoglio dei prati, ingentiliva versi e lettere con le immagini dei garofani “del poeta” (detti infedeli perché a fioritura biennale), peonie, iris, narcisi, gardenie, nasturzi. Nei mazzolini che inviava, chiamati nosegays (cioè, ornamenti gradevoli da annusare), inseriva talvolta biglietti con frasi emblematiche. Alla viola del pensiero (pansé), usata per decorare la superficie del pan di zenzero di sua fattura, ha dedicato una delicata poesia sulla fedeltà alla versione originale di ogni essere:

Caro fiorellino dal fascino antico!
È fuori moda anche l’Eden
e son antiquati gli uccelli!
Il cielo non cambia il suo azzurro
e nemmeno io, la piccola violetta,
mai sarò convinta a farlo.
(n. 176, 1860)

A una certa età Dickinson la domenica non si reca più a messa, non va neppure a vedere la Chiesa Congregazionista progettata e curata dal fratello Austin, ma in compenso mette le ali in giardino, dove il coro sono gli uccelli e il pastore Dio stesso che tiene la predica senza mai dilungarsi: “Così invece di andare in cielo alla fine / ci vado di continuo”. Si dichiara titolare di quote di azioni aromatiche nelle banche delle primule (violacciocca, in inglese stock), possedimenti estesi come rugiada.

Dagli anni Sessanta aveva cominciato a soffrire di irite (dolorose aderenze tra iride e cristallino), una condizione che le procurava fotofobia, tanto da renderle difficile la visione: “Prima che mi si spegnessero gli occhi / amavo anch’io vedere” (n. 327, 1862). Per questo le era stata allestita al chiuso una serra, larga due metri e lunga cinque, addossata alla parete della cucina per garantire più calore, adiacente allo studio del padre: “Mi basta attraversare un pavimento per ritrovarmi sulle isole delle spezie”.

Dopo il rientro della famiglia nel grande “Palazzo” edificato dal nonno sulla via principale di Amherst, per la sua camera era stata inoltre scelta una carta da parati con rose rampicanti senza spine, riemersa durante recenti lavori di restauro. La regina dei fiori troneggiava d’altronde nelle poesie e nel giardino, in particolare la rosa di Damasco (“l’ancella damascata”), gradita alle api per la fragranza, i cui gambi spinosi tendono l’imboscata a chi vuole reciderla.

Non va dimenticato il riferimento a Shakespeare, visto che nel Sogno di una notte di mezza estate Titania si addormenta sotto un pergolato di rose damascene. Se la rosa balsamina (alla fragranza di mela) era “quella della mamma”, dalla finestra al piano superiore poteva vedere il sentiero tinteggiato dai roseti che collegava la casa alla villa di Austin e Susan.
All’inizio dell’estate erano la nota dominante, pergole, gazebo, cespugli e siepi di rose riccio (con spine feroci), rose a grappolo, singole, variegate.

Sull’esempio della fioritura, risultato di un processo predeterminato e finalizzato, le parole per lei erano semi sbocciati nel cervello e fruttificati dallo spirito, ogni vocabolo conteneva un concetto per fare di un componimento un trattato sui misteri insoluti dell’esistenza individuale e del cosmo. Da qui la diffidenza verso la pubblicazione dei testi, cui la sollecitava Helen Fiske (maritata Hunt e poi Jackson), romanziera di fama.

L’amica, coetanea e compaesana, le rimproverava il rigido riserbo sulle poesie: “Fai torto all’epoca in cui vivi non cantando ad alta voce. Quando sarai come dicono gli uomini morta, ti spiacerà di esser stata così avara”. Ma lei aveva risposto: “Noi preferiremmo andare dalla soffitta - bianchi - al bianco creatore - che mettere a profitto la nostra neve”.

Morale della favola, la solitaria matita di Dio ha migrato presto e per sempre dall’ordinario corso mondano alla pagina, preferendo scrivere la vita e non viverla secondo il dettato e le aspettative altrui. Per questo la sua altezza e la reale dimensione sono apparse evidenti solo a posteriori, rendendola più vitale dopo la morte comunemente intesa.

Perché l’essere umano è un progetto che arriva a compimento e può avere il suo pieno effetto soltanto quando è ultimato, come testimoniano personalità della storia e dell’arte che continuano a vivere nei secoli in milioni di persone, grazie alla loro capacità di non aderire al presente e di proiettarsi altrove, quindi di beneficiare di una variabile indipendente già in corso d’opera.

Se smetterò di indossare una Rosa
in un giorno di festa,
sarà perché al di là
della Rosa

sarò stata chiamata
(n. 56, 1858)

Mattia Morretta