La maturità come crescita psicologica ed esistenziale
"Una tela tessemmo nell'infanzia, una tela di sole luminosa - una fonte scavammo da fanciulli d'acqua limpida dolce e cristallina; in verde età piantò ciascuno un seme e un ramo di mandorlo tagliammo - ora che siamo nell'età matura saranno inariditi nella terra?" (Charlotte Brontë, Retrospettiva, 1835)
Di norma si dà per scontato che la maturità sia una specie di traguardo che ciascuno raggiunge quasi automaticamente dopo una certa età, se si adegua al modello sociale prestabilito. In pratica si tratterebbe di seguire il percorso obbligato o consigliato che, attraverso tappe intermedie, porta alla formazione di una coppia e alla generazione di figli.
A quel punto l’adulto potrebbe considerarsi evoluto in modo definitivo e non dovrebbe far altro che conservarsi tale e quale. Al massimo, col procedere degli anni, dovrà operare qualche riaggiustamento o ritocco per poter meglio assumere a sua volta il ruolo di “esempio” nei confronti delle nuove generazioni.
La maturità così concepita è però qualcosa di molto discutibile. Diventare adulti sembra coincidere con il “sistemarsi”, accasarsi e rammendare con approssimazione gli strappi di uno sviluppo spesso difficile. Si deve far finta di niente se permane un senso di irrisolto o di fallimento, l’apparenza conta più della sostanza, quel che si fa credere agli altri più di quel che si prova davvero.
Eppure, vivere una vita “suggerita” dall’ambiente non è certo una prova di maturità. Al contrario di quanto si crede, l’adeguamento a uno schema di normalità e di mediocrità rende più deboli e non più forti. Sposarsi e procreare per soddisfare le aspettative altrui, stare in coppia o aggrapparsi a qualcuno per sfuggire alla solitudine sono finte soluzioni e mezze scelte, che non consentono di diventare protagonisti delle proprie esperienze.
Non basta esibire una carta d’identità che attesti un’età anagrafica ritenuta “adulta” o un certificato matrimoniale per mettere a tacere i dubbi sul significato della propria esistenza, o per credere di essere arrivati a destinazione.
Molte situazioni che coinvolgono chi ha tutte le carte in regola si rivelano esempi concreti di come non esista un “luogo della maturità” e non si possa considerare definitivo o insuperabile un dato livello di sviluppo. Questo non significa, come invece accade oggi, che ogni persona sia “minorenne” a vita, bisognosa di assistenza e tutela da parte di esperti o presunti tali.
In effetti, la messa in discussione del mito dell’adulto pare aver prodotto una infantilizzazione delle condotte, per cui aumenta il numero di adolescenti in ritardo che non riescono ad andare oltre né a trovare un nuovo ruolo positivo. Perciò c’è chi suggerisce (o detta) loro cosa fare o non fare, e crescere diviene sempre più complicato.
In realtà, anche tenendo presente l’influenza specifica dell’età sulle modalità di affermazione e di amare, non si deve credere che i giovani siano di per sé incapaci di relazioni e di comportamenti adeguati alle circostanze.
Il fatto è che bisogna intendersi sul concetto stesso di maturità. Per lo psicologo Arthur Jersild, “la maturità non è un punto terminale o un risultato finale, bensì una qualità o caratteristica, relativamente conseguibile a ogni età. Non è una meta lontana, bensì una realtà presente: ognuno è maturo in proporzione a quanto è stato capace di realizzare o è sul punto di realizzare, nonché in proporzione alle proprie capacità di fare, di pensare, di sentire e di partecipare attivamente agli stadi della vita”.
Un altro psicologo, l’americano Lawrence Kohlberg, ha individuato una sequenza invariabile di sei stadi di sviluppo per accedere alla “maturità”, intesa come capacità di esprimere giudizi morali in piena autonomia di pensiero.
Il quinto stadio è quello della persona che giudica le azioni in base al criterio dei diritti universali degli individui e di solito non è raggiunto prima dei 25 anni. Il sesto stadio sarebbe quasi impossibile da raggiungere prima dei 35 anni e corrisponderebbe all’utilizzo del criterio della completa reciprocità dei diritti e dei doveri.
Sembra che pochissime persone riescano comunemente a conseguire un tale livello di eticità, mentre i più restino bloccati nella fase del semplicistico rispetto degli usi e costumi del sistema sociale di appartenenza. D’altronde, se si valutano molte tipologie di rapporti spacciati per maturi, ci si rende conto di quanto sia frequente l’arresto dello sviluppo.
Per esempio, certe unioni “regolari” sono fondate su un’impostazione incestuosa, del genere mogli-bambine e mariti-padri, oppure mogli-madri e mariti-bambini, senza vie d’uscita. Interesse e bisogno sono il terreno su cui fioriscono rapporti basati sulla compensazione o su atteggiamenti predatori.
Si ha sovente l’impressione che l’unione equivalga a una mutilazione e che il legame rimpicciolisca le personalità piuttosto che favorirne l’espansione. L’amore come rinuncia o impoverimento non è “normale”, anche se è approvato culturalmente. Talvolta ci si accontenta del fatto che l’altro ci faccia bene, un po’ come l’aria di montagna, non riuscendo a comprendere le opportunità di evoluzione offerte dal percorso comune.
Anche l’amore romantico non ha, da questo punto di vista, migliori credenziali. Quel “cuore a cuore” da romanzetto rosa, tutto slogan “amare è”, a ben guardare è solo una “falsa reciprocità che maschera un narcisismo a due”, come ha scritto Denis de Rougemont.
La cornice idilliaca tenta di nascondere l’amara verità: si smette di crescere e quello che si prospetta è un futuro fatto di noia e monotonia. Infatti, è dal momento in cui ci si trova che cominciano le vere ricerche.
Un rapporto amoroso può essere una vera e propria occasione per approfondire la conoscenza di se stessi e per correggere alcune distorsioni della personalità, ma è un errore credere che sia di per sé terapeutico o evolutivo.
È proprio la capacità di stare da soli che consente di apprezzare e migliorare il contatto con gli altri, ed è l’accettazione della separazione che permette di avvicinarsi realmente ad un’altra persona.
Dice in proposito la scrittrice Marisa Rusconi: “Liberarsi dai fili invisibili della dipendenza ci appare l’obiettivo massimo e nello stesso tempo la meta minima del rapporto uomo-donna (di ogni rapporto). Massimo perché è in realtà difficilissimo da raggiungere, minimo perché solo quando si stabiliscono relazioni non più basate sul bisogno si possono creare rapporti d’amore, di reciproca attenzione, di scambio, di ricerca”.
Il panorama dei legami definiti “maturi” è invece abbastanza desolante. Rifacendosi alle fasi dello sviluppo della sessualità infantile nella lettura freudiana, possiamo identificare quattro tipi di coppie.
Anzitutto quelle “orali”, nelle quali la dipendenza e l’avidità impediscono una reciproca delimitazione, dando luogo al classico quadro simbiotico di chi ritiene di poter fare a meno del mondo credendo di rappresentare un tutto onnipotente o un’isola felice.
Ci sono le coppie “anali” fondate sul controllo e sul dominio, oppure sul dono e sul sacrificio, che possono essere sia molto stabili sia perennemente in forse.
Le coppie “falliche”, a loro volta, sono caratterizzate da rivendicatività e tendenza al potere: ciascuno dei partner cerca di primeggiare e di affermare il proprio predominio.
L’ideale per la psicoanalisi sarebbe la coppia “genitale”, nella quale vige il criterio dello scambio e la diversità dell’altro è accettata come piacevole e senza riserve. La piena maturità dal punto di vista libidico è più un’utopia che una realtà, una meta difficilmente raggiungibile.
Da parte sua, lo psicoanalista Wilhelm Reich ha contrapposto al carattere nevrotico quello genitale quale modello di salute. Quest’ultimo appartiene ai soggetti capaci di adattarsi alle più diverse circostanze, accessibili sia al piacere che al dispiacere, non dominati da elementi infantili e irrazionali.
Tale individuo ha superato il complesso edipico senza rimuoverlo e sa sublimare quanto dell’aggressività e delle tendenze pregenitali (oralità, analità, voyeurismo, etc.) non può essere utilizzato nella vita sessuale.
Tuttavia, le descrizioni dell’Olimpo della maturità lasciano un po’ perplessi, anche perché si prestano a venir strumentalizzate da questa o quella ideologia. Del resto, ciò che è “infantile” costituisce sovente un materiale cui attingere per una trasformazione benefica, non una minaccia o un segno di crepe nella crescita.
Si può ben dubitare di una maturità che pretenda per l’adulto la rinuncia a tutte le sue componenti di debolezza e alla tenerezza fisica. Le persone che si amano non smettono di tenersi per mano soltanto perché possono fare l’amore. Il rapporto sessuale, inoltre, è senz’altro più di un mutuo servizio, come pure quello affettivo è più di una associazione.
Lo schema della domanda e dell’offerta, del dare ed avere, non può andar bene per tutte le relazioni interpersonali. La “cooperazione” prevede che due individui operino insieme, ma che ciascuno si dia da fare per il proprio piacere e prestigio.
La “collaborazione” si riferisce a un Noi e comporta l’adattamento ai bisogni dell’altro per realizzare la soddisfazione di entrambi. In questo caso è possibile sviluppare una sensibilità profonda per ciò che desidera l’altro, può accadere l’impossibile: lasciare che l’altro possa continuare ad essere se stesso e fare spazio dentro di sé per comprenderlo e accoglierlo.
Un rapporto di piena intimità si può costruire solo quando nessuno dei partner abdica alla propria individualità, né rinuncia alla propria autorealizzazione. Che si viva in coppia o soli, ogni persona ha un compito specifico che consiste nel diventare ciò che potenzialmente si è, attraverso la dialettica fra conscio e inconscio.
È un lavoro per certi aspetti assolutamente privato e personale, in cui gli altri possono essere di aiuto o stimolo, niente di più. Si tratta allora di non fare resistenza, di non opporsi al cambiamento che la vita cerca di suscitare in noi, altrimenti si perde la possibilità di capire la nostra storia.
Vi sono momenti critici nell’esistenza che determinano la riattivazione dei conflitti rimasti irrisolti, sono appunto le opportunità per maturare e cambiare.
Secondo la psicoanalista T. Benedek la maturità psicologica dell’uomo e della donna passa per il processo della parentalità. Ciò non significa che bisogna procreare per diventare adulti, ma che è necessario affrontare e superare la crisi del “mettere al mondo” qualcuno o qualcosa.
È importante cioè che il soggetto elabori mentalmente il problema della creatività e giunga a “partorire” con la testa.
Si può optare per la creazione che si predilige, purché si tratti di sublimazione e non di compensazione nevrotica. In verità, l’autentica creazione, lo scopo dell’uomo è partorire se stesso in senso umano.
Mattia MorrettaTesto originale La maturità psicologica, Fascicolo n. 89, 1987, Enciclopedia Amare, Fabbri Editori