La realtà dei sentimenti
Esistono sempre mille motivi e nessuna ragione perché un amore finisca. L’ineffabilità dell’amore ne costituisce la forza, l’energia creativa, ma nel contempo anche la debolezza.
Se è vero che è necessario “credere”, altrettanto importante è conoscere per amare. In maniera troppo estremistica, si ritiene inutile o controproducente riflettere e pensare su un fenomeno fondamentalmente irrazionale.
Tuttavia, impedire alle persone di applicare l’intelligenza alle “questioni di cuore” produce molto spesso seri danni e conseguenze drammatiche.
L’amore è paragonabile alla febbre: termina per crisi o per lisi, cioè per una brusca caduta oppure per un graduale esaurimento. Anche nel secondo caso, però, esiste sempre un momento in cui si impone la sensazione intima e amara che qualcosa si è “rotto”.
Il sospetto di una estraneità, di una differenza irriducibile, giunge in superficie: “Constatare un giorno, sulla pelle della relazione, simile a una minuscola macchia, il sintomo di una morte sicura” (Roland Barthes). Allora l’alternativa è tra soffrire per il fatto che l’altro sia ancora presente o affliggersi per il fatto che egli sia già morto. La verità è come una sentenza: l’altro non è più quello che si amava.
È questo uno dei tanti luoghi comuni di quel teatro di parti obbligate che sembra non si possano eludere. Quel che ha termine in tal caso non è propriamente l’amore, bensì l’innamoramento o l’intensa attrazione. Noi chiamiamo “amore”, in effetti, relazioni emotive assai diverse fra loro e ciò ingenera confusioni che a volte determinano innumerevoli sofferenze.
L’innamoramento, che ha sempre una componente libidica (per quanto talora relegata sullo sfondo), è stato descritto come un miscuglio di investimento sessuale e idealizzazione, identificazione e proiezione, ponte tra il narcisismo e l’altruismo, tra il più estremo egoismo e la più cieca benevolenza.
Oggi si è propensi a ritenerlo una componente istintiva del comportamento associativo, qualcosa quindi di biologicamente determinato, previsto dalla natura per aumentare le probabilità di accoppiamento sessuale e garantire così la sopravvivenza della specie.
Lo psicologo John Money ha addirittura indicato la durata massima della fase acuta di una normale esperienza: in genere, non più di due anni. Comunque sia, l’innamoramento è destinato a finire.
L’illusione che possa durare per sempre, favorita dal mito dell’amore romantico (“e vissero insieme felici e contenti”), induce le persone a credere che, se si disamorano o non vanno d’accordo, vuol dire che hanno sbagliato partner o hanno interpretato male la situazione, per cui non resta altro da fare che continuare a stare insieme infelici e scontenti oppure divorziare, attendendo in segreto l’occasione buona.
Dice lo psichiatra M. Scott Peck: “Milioni di persone sprecano il proprio tempo e le proprie energie nel disperato e inane tentativo di adeguare la propria vita all’irrealtà di questo mito”. Non ci si rende conto che spesso proprio l’ammissione di non essere più innamorati potrebbe rappresentare l’inizio, anziché la fine, di un rapporto d’amore.
Aggrappandosi al sogno dell’estasi, alla illusione della fusione con un altro essere e alla fantasia di onnipotenza come elementi irrinunciabili dell’amore, impediamo più spesso di quanto si creda la nascita e la continuazione di profonde e costruttive relazioni affettive.
La passione dell’innamoramento, come pure l’esperienza orgasmica nel rapporto sessuale, sono “occasioni” di unione, ma non sono di per sé sufficienti. Determinando il crollo temporaneo dei confini dell’Io, ci consentono di gustare la scomparsa della solitudine e ci inducono a stabilire un contatto intimo con l’altro.
Non è affatto scontato, tuttavia, che questa soggettiva sensazione di amare conduca a un rapporto duraturo e abbia un seguito affettivo. Tanto è vero che, per lo più, di fronte all’evidenza della separatezza (impossibilità di essere una cosa sola) e della realtà individuale dell’altro, ci si sente paralizzati dalla delusione.
Ci si limita allora ad assistere passivamente al funerale del sentimento, magari con le lacrime agli occhi; oppure si insiste in una recita melodrammatica, la lotta contro l’odiosa realtà, con la speranza di una resurrezione in cui in fondo non si crede.
La convinzione che l’amore possa e debba seguire solo la legge del “tutto o nulla” spinge alla disonestà e alla mistificazione o alla distruzione brutale di quel “poco” che c’è.
Non poche coppie resistono al tempo non certo grazie all’affetto, bensì per via della morbosità del legame: in tali casi una fine inequivocabile sarebbe l’unica soluzione salutare, e ai due partner gioverebbe una seria riflessione sui motivi che li costringono a logorarsi in una relazione il cui unico scopo è rendersi infelici a vicenda.
Importante è “cosa” finisce, poiché una fine può essere anche momento di rinascita, se è frutto di una decisione realistica che consegue a una evoluzione personale. Molto più spesso, invece, tutto resta come prima, cioè l’individuo non fa un solo passo avanti rispetto alla condizione in cui si trovava precedentemente al rapporto. Ciò potrebbe di per sé bastare a far giudicare quell’esperienza come non-amorosa, nonostante le illusioni personali in proposito.
L’amore arricchisce anche e soprattutto attraverso lo sforzo e l’impegno che comporta, perché trasforma il soggetto e lo pone a confronto con nuove possibilità di essere. Se non aiuta a “crescere”, probabilmente non è amore.
Nulla è più difficile di cambiare sé stessi, e l’amore può spingerci a farlo, ma è indispensabile che coincida con una nostra scelta in tal senso.
Ciò che distingue l’amore dal non-amore non è l’egoismo (o l’altruismo), bensì lo scopo. Non si può usare la parola amore per indicare ogni relazione in cui si investe affettivamente qualcosa, senza tener conto del contesto e delle caratteristiche del vincolo che ci lega a un oggetto.
Se lo facciamo, continuiamo ad alimentare equivoci e a credere che ci sia amore laddove c’è tutt’altro. C’è da chiedersi perciò se sia proprio l’amore a finire in certe situazioni. Molte volte l’amore finisce perché, paradossalmente, non è mai iniziato.
Ciascuno arriva al rapporto affettivo con un patrimonio imbarazzante di problemi psicologici e di modalità stereotipate di difesa. Per esempio, è più probabile che ci si unisca a qualcuno nonostante la fiducia piuttosto che in virtù di essa. Gli stessi motivi che inducono a stabilire un legame possono diventare moventi per “uccidere” l’amore.
In tanti scambiano la dipendenza per amore. Compiono pertanto una sorta di innesto sull’altro, vivendo come parassiti invece di metter radici in se stessi. Sprecano tutte le energie per farsi amare, tanto che non ne hanno più per amare a loro volta. Credono di acquisire un’identità per riflesso o in funzione di quella altrui, in quanto membri di una coppia
L’incapacità di tollerare la solitudine e di mitigare il bisogno di colmare il vuoto interiore, spinge a comportarsi in maniera appiccicosa, invadente e irrispettosa, al punto di disgregare anziché promuovere il rapporto.
Talvolta, per un gioco di incastro di personalità, in cui ci si condiziona a vicenda in ruoli rigidi, la relazione dura; l’amore però bisognerebbe cercarlo al microscopio. Del resto, è facile e consolante trovare affetto nei propri sentimenti verso qualcuno, ma ben più difficile è praticare con coerenza l'attenzione amorosa.
C’è chi crede di amare l’altro solo perché assume l’atteggiamento di chi dà, di chi si sacrifica. Sono le “vittime” del rapporto, convinte che il grado di mortificazione cui si sottopongono sia un segno della loro disponibilità.
In realtà, esse sono mosse dal bisogno di conservare una certa immagine di sé, di sentirsi moralmente superiori camuffando l’odio e la sete di vendetta. Se l’altro si sottrae alla recita, ecco che l’investimento positivo cessa e la vittima si sente una volta di più tale dinanzi alla sfacciata ingratitudine.
Taluni sono capaci di prodigarsi e accettare l'altro finché asseconda la loro volontà e i suoi gusti coincidono con i loro. Se interviene un mutamento, è soltanto ormai una “seccatura”, una fonte di fastidi.
Altri vivono il partner unicamente come estensione di se stessi e sono perciò incapaci di provare o comprendere i suoi sentimenti, pretendendo, anzi, che sia lui a sentire ciò che sentono loro. All’altro non lasciano che frustrazioni e senso di colpa, incolpandolo persino di insensibilità.
Vi sono, per esempio, uomini che, una volta sposati, si dedicano solo alla professione, però esigono che il coniuge sia lì sempre disponibile per consolarli e rifocillarli. Altrettante donne, raggiunta la sistemazione col matrimonio, non hanno più scopi nella vita e si rifiutano di comprendere le esigenze del marito. È facile, in un caso come nell’altro, sentirsi in trappola e tentare la fuga.
Anche coloro che ritengono indispensabile la passione e il sentimento per garantire la relazione compiono un errore che prima o poi si paga. Sotto la spinta delle emozioni ci si comporta spesso in modo per nulla amorevole.
L’amore non è solo un sentimento, ma anche volontà e azione. Ciò comporta fatica e coraggio, per prestare davvero attenzione all’altro, rinunciare temporaneamente ai propri pregiudizi, accettarlo e accettarsi. Chi non intende “conoscersi” fino in fondo e lavorare su se stesso non può conoscere e collaborare con altre persone.
Molti non sono disposti a rischiare una parte importante di sé né a far credito di una sincera fiducia. Presto o tardi, perciò, saranno preda della sindrome del “ti lascio prima che lo faccia tu”.
Cambiare se stessi per adattarsi alle caratteristiche del partner e divenire così più “simili” è altrettanto rischioso, perché, come ha affermato Lou A. Salomè, “solo chi rimane completamente sé stesso si presta alla lunga a venir amato”.
Cercare di immettere nell’altro il proprio contenuto, modellandolo a propria immagine e somiglianza, ha effetti funesti a lungo termine. Rispettando l’individualità e favorendo la crescita reciproca, si può continuare a rappresentare reciprocamente un punto di riferimento valido e amoroso. La stima, infatti, genera stima.
Questo non significa che una buona relazione non possa aver termine. Lo psichiatra D. Cooper ha dichiarato: “Nessun rapporto in cui si sia entrati in modo significativo può mai finire; il problema è appunto entrarvi in modo significativo”.
La precisazione è importante perché ci porta a porre l’accento sulla scelta di sperimentare tutte le potenzialità di una relazione, sino a verificarne il suo limite naturale. A quel punto si è liberi di amare anche per il resto della vita, che la si viva insieme o ci si separi.
In tutto ciò l’intesa sessuale è importante, ma non è indispensabile. Freud ha scritto: “l’amore sensuale è destinato a estinguersi nel soddisfacimento; per poter durare deve fin dall’inizio essere associato a componenti puramente tenere, ossia inibite nella meta, o subire una trasformazione siffatta”.
Sessualità e amore si influenzano a vicenda, nel bene e nel male. È difficile sostenere che i problemi sessuali possano essere la causa dell'esaurimento di un rapporto amoroso, essendo sintomo di un disturbo più globale della comunicazione nella coppia. Non serve dunque cercare un antidoto o tentare un’opera di restauro.
Occorre capire l'essenziale, la verità più profonda, e a quel punto è possibile arrivare ad accettare individualmente il viaggio della evoluzione. Anche la coscienza della nostra solitudine esistenziale è una conseguenza dell’amore.
Mattia Morretta (Testo originale La fine di un amore, Fascicolo n. 59, Enciclopedia Amare, 1987)