La svolta culturale
L’esperienza ci insegna e ribadisce che conoscere, nonostante le aspettative e le speranze, non è una condizione sufficiente per prevenire. Molto istruttivi al riguardo sono i dati sui tentativi di adattamento messi in atto dopo le campagne di sensibilizzazione in Paesi come gli Stati Uniti d’America, dove l’Aids è in alcune città una realtà “ordinaria” perché può riguardare anche il vicino di casa. Nella patria dell’Aids le persone tendono a reagire con forme più o meno sofisticate di negazione, allo scopo di attuare il minor cambiamento possibile dello stile di vita e soprattutto del modo di pensare, il che è il punto nodale: i comportamenti dipendono dai modelli concettuali con cui si concepisce e interpreta il reale. Una delle conseguenze di tali “resistenze” è la cosiddetta monogamia transitoria, che sta diventando una delle strategie falsamente preventive prevalenti anche in Italia. Seguendo alla lettera gli slogan, molti giovani identificano la coppia, cioè l’unione tendenzialmente esclusiva e continuativa tra due individui, come uno strumento di prevenzione in sé e per sé. Gran parte delle persone ha compreso il messaggio che oppone la monogamia alla promiscuità enfatizzando la sicurezza della prima e la pericolosità della seconda. Prendendo per buona tale indicazione di fatto superficiale, i più hanno messo in atto tattiche elementari di autocontrollo nell’ottica di modificare poco o nulla delle loro abitudini. Per esempio, alcuni cambiano meno di frequente il partner e fanno durare più a lungo le loro frequentazioni, sentendosi così al sicuro perché si definiscono membri di una coppia e ammantando di sentimento l’esperienza. Sicché in tanti intrattengono più rapporti di coppia in successione e si ritengono dispensati dall’uso di precauzioni e dal dover tener conto dell’Aids. Le medesime considerazioni valgono per l’altro messaggio forte che addita gli sconosciuti come pericolosi e porta a ritenere “sicuro” chi è conosciuto. Naturalmente possono esserci anche decine di incontri sessuali fra due individui senza che si proceda in una effettiva conoscenza reciproca. D’altra parte, l’affidabilità sanitaria degli altri è quasi sempre messa in ombra dal bisogno di affidamento e dalle aspettative circa l’unione. Sono numerosi coloro che usano il profilattico con il partner solo nei primi incontri tralasciando poi ogni cautela autoconvincendosi che l’altro sia “sano” soltanto per l’esigenza di lasciarsi andare. In effetti, è difficile considerare “estranea” o “sconosciuta” una persona con cui si fa l’amore via via che la si frequenta. Per altro è proprio l’intimità fisica a generare quasi automaticamente sentimenti di fiducia e sensazioni di rilassamento con rinuncia alle difese. Chiunque prova disagio sentendosi forzato a “diffidare” del partner o dovendo controllare le aspettative di abbandono affettivo e sessuale. Tuttavia il vissuto di familiarità e di appartenenza non ha nulla a che fare con i rischi concreti di contrarre malattie a trasmissione sessuale: se l’altro è Hiv positivo e non sa di esserlo (o lo nasconde), non saranno l’affetto o l’intuito a proteggere dal contagio. Se ci si sofferma ad analizzare le motivazioni addotte per non usare precauzioni, si rimane sorpresi della leggerezza delle argomentazioni a fronte della serietà della situazione e delle conseguenze materiali. Molti lamentano che il preservativo diminuisca il piacere oppure provochi imbarazzo rendendo artificiale il sesso. Di fatto, le persone sono molto meno disinvolte nelle questioni sessuali di quanto vogliano far credere o credano, perché la sessualità risente delle approssimazioni dello sviluppo psicologico e delle carenze sul piano affettivo. Contenere e prevenire un’epidemia sono cose distinte. Un approccio preventivo suppone un lavoro impegnativo a lungo termine e a tutto campo, sullo sfondo di un’operazione culturale di ampio respiro. Sul significato stesso del termine prevenzione val la pena di interrogarsi, dato l’abuso che ne viene fatto e i riferimenti oscuri dell’attuale concezione della salute. Uno psicoanalista francese, Norbert Bensaïd, ha detto in proposito che un certo tipo di medicina preventiva “sfruttando la nostra paura di morire ci fa morire di paura”. Si richiama qui un modello salutistico che ci costringe a esercitare un’attenzione morbosa di tipo ipocondriaco su quello che è uno pseudo-corpo, qualcosa a metà tra l’oggetto decorativo e il terreno di coltura di microbi: superficie levigata da saggiare con lo specchio e profondità inquietante per il bisturi del chirurgo o il tavolo anatomico. Il corpo è sottratto ai legittimi “proprietari” perché all’esterno appartiene alla società, siamo tutti sorvegliati e sorveglianti a causa dell’addestramento estetico cui siamo sottoposti quotidianamente; all’interno appartiene ad una medicina che lo esplora, armi in pugno come in una caccia grossa, alla ricerca delle minacce “latenti” all’ideale integrità fisica. Il corpo non è più abitato dal soggetto, bensì espropriato di vissuti elaborati in autonomia. Nei fatti la vita privata non esiste più, è andata perduta con l’affermarsi dell’edonismo di massa. Un tempo la repressione costringeva ad adottare maschere che però potevano essere tolte facilmente in privato e lasciate da parte in molte circostanze per trovare un po’ di spontaneità. Attualmente l’adeguamento ai canoni è totale e totalizzante: la televisione e mezzi di comunicazione arrivano a controllare l’uomo fin nei dettagli dell’intimità. All’ingiunzione a lavare i panni sporchi in casa e a tacere, si è sostituita quella a trasferire “fuori” e a nominare ogni aspetto personale, il che non significa che sia aumentata la capacità di comunicare tra gli uomini. Non è poi così importante il fatto che si promuova una condotta o il suo contrario, per esempio che si spinga a praticare o non praticare il sesso; l’importante è che permanga il “debito” e che si dipenda da modelli. Non cambia molto se al posto del “non devi” si impone il “devi”, specie su vasta scala. Fino agli anni Trenta circa la medicina era impostata sulla tradizione classica arricchita dai contributi delle svolte culturali dell’Ottocento. In pratica, il medico aveva il compito di accompagnare nella vita come uomo di cultura, se possibile guida morale, limitandosi sovente a constatare la presenza di patologie e il sopraggiungere della morte. In seguito, grazie al concorso delle conquiste tecnologiche e alle scoperte farmaceutiche, la situazione è mutata radicalmente e alcuni filoni prima secondari sono diventati primari. La concezione esistenziale, che considera i limiti e le difficoltà inevitabili, è fuori moda, scoraggiata e condannata mediante una colpevolizzazione di quanti la rappresentano per tutti. Gli unici criteri validi sono quelli di mercato, l’etica una zavorra, le regole morali (che aspirano all’universalità) vengono citate per fingere di ricollegarsi alla cultura antica, trattata in concreto quale anticume. I maturi e gli anziani non hanno più nulla da dire, se i parametri di valutazione sono l’efficienza, il computer e i linguaggi moderni. Tutte le epoche hanno conflitti inter-generazionali e pongono ai singoli problemi di adeguamento ai nuovi assetti organizzativi, però le generazioni precedenti hanno sempre avuto il compito di trasmettere l’impianto culturale a quelle successive, mentre oggi i vecchi devono comportarsi da giovani perché sono destituiti di sapere esistenziale o portatori di contenuti inservibili. Ciò che viene “espulso” dalla coscienza e dallo spazio condiviso finisce per gravare oscuramente e inconsapevolmente sulla società. Il condizionamento sociale tende a creare delle “oasi di impossibilità” in cui nessuno vuole trovarsi e ha creato enormi problemi alle persone con patologie croniche o gravi, che devono fare i conti con i fantasmi e i rifiuti gettati dagli altri nella pattumiera ove vengono gettati dolore, malattia e morte. L’evacuazione della sofferenza si manifesta specialmente nella scomparsa del lutto, che non si porta più in tutto l’Occidente, neppure al Sud. La morte viene gestita in strutture definite perché è una bomba che va fatta brillare dagli esperti, visto che gli uomini comuni non sanno cosa sia. Addirittura si chiede “ma come, è morto?” e le cause di decesso elencate dalla medicina fanno pensare che in loro assenza probabilmente non si morirebbe. La morte di alcuni individui è specifica, li riguarda proprio per quel che sono o hanno fatto, per la loro “storia”. Si punta a tener lontano dalla maggioranza e dal centro ideale della società ciò che provoca dispiacere, sofferenza, pensieri sgradevoli. Le uniche patologie confessabili sono quelle curabili e così i problemi, possono essere accettati purché abbiano una soluzione. Per questo il dolore esistenziale non ha più posto, pur essendo connaturato al fatto di vivere, perché se la vita è una ferita aperta che non si può sanare, tanto vale non rifletterci sopra visto che non si può promettere il superamento e il benessere standard. Una “salute” da fantasticheria infantile viene indicata come una conquista probabile, benché niente di biologico migliori nel tempo, l’industria salutistica fa credere di poter esser domani più sani di ieri. Si comprende allora perché parlare di morte e dolore sia fare un discorso di utopia sociale. La sofferenza è una realtà conosciuta da tutti “a memoria”, sia perché fa parte della nostra vicenda personale sia perché inscritta nell’inconscio collettivo. Un’autentica sessualità procede solo da maturazione e conquista, perciò i singolo sono disorientati dovendo imparare sull’abbedecario di una certa sessuologia che prescrive l’orgasmo simultaneo e la democrazia sessuale, nonché l’umanesimo di una misera sottocultura psicologica che produce manuali per essere realizzati e soddisfatti, guai a non seguire le prescrizioni. Pertanto, non importa se si nega o si afferma la sessualità, poiché di fatto ogni negazione è al contempo affermazione e viceversa. Nell’epoca vittoriana negare il sesso portava a farne una presenza ossessionante, come l’affermazione pubblica tanto sfacciata di erotismo e seduzione non può che comportare alienazione del piacere sperimentato in proprio. Basta notare il livello generale di insoddisfazione e l’impossibilità di trovare soddisfazione, il che è funzionale al mercato, perché chi sa esprimersi e soddisfarsi in autonomia ha meno propensione al consumo indiscriminato di “piaceri”. Il piacere dunque esce dal privato e occupa il sociale, siamo passati dal diritto alla sessualità al dovere di averla e in forma affermativa, senza chiaroscuri, tutta luce e senza ombre, facile come bere un bicchier d’acqua o una bibita, la pubblicità insegna. Il linguaggio commerciale detta le norme di comportamento e addirittura promuove forme di identità. Attraverso i media non si fa e non si può fare “cultura”, ma a dire il vero non possono fare di più altre istituzioni residuali del passato. La famiglia è stata caricata di recente anche del compito di soddisfare la sessualità. Per secoli nessuno ha pensato all’ambito famigliare come ad un luogo del piacere sessuale o dell’amore di coppia. Essa era concepita prevalentemente come espressione di un accordo tra i sessi per ragioni biologiche e sociali. Le mutate esigenze di controllo, con i suggerimenti della psicanalisi, l’hanno col tempo riempita di una sessualità prorompente, facendone la sede non solo della gestione della riproduzione umana ma anche del piacere sessuale individuale, e negli ultimi decenni pure dell’affettività e della comunicazione. Un’altra grande “scomparsa” cui assistiamo, infatti, è quella dell’amicizia nella rete comunitaria, poiché essa sussiste come fenomeno giovanile o giovanilistico, un espediente per trascorrere ore libere o evitare solitudini pericolose in certe fasi della vita. Non è ritenuta un valore capace di ordinare l’esistenza e produrre dinamiche specifiche e significative nella comunità. Sicché è la famiglia a trovarsi investita della soddisfazione del sentimento e dello scambio amicale. Ciò spinge a goffi e talora brutali tentativi di identificazione tra genitori e figli, con conseguente blocco della trasmissione culturale propria del contesto parentale. Del resto, si parla di famiglia” avendo in mente un’entità che è più norma neppure statistica (padre, madre, figli), perché è un luogo comune che serve a ridistribuire responsabilità fittizie oppure impossibili da attribuire nel sociale. L’attuale società promuove e diffonde modalità passive di sperimentare sentimenti e condotte, vengono stimolati piaceri impersonali in cui il ruolo del soggetto è ridotto alla scelta tra prodotti, il massimo dell’attività è fare chilometri per andare in discoteca, cioè per mescolarsi con le stesse caricature presenti sotto casa. I godimenti più venduti sono quelli che non necessitano di ricerca personale, già trovati prima di venir concepiti, proposti e catalogati secondo schemi precisi, acquistati nei supermercati confezionati con tanto di brivido trasgressivo, per giunta depurati del senso di colpa. Nessuna creatività è possibile, le fantasie trovano corrispettivi nel mercato e il cerchio si chiude. La privazione dell’esperienza è gravida di conseguenze funeste perché è un’operazione essenziale che riguarda l’apprendimento delle responsabilità esistenziali. Sulla base delle gioie e dei dolori vissuti, accompagnati da elaborazioni e riflessioni, ciascuno fonda la propria identità e matura la propria presenza nel mondo. Le persone vanno incoraggiate a ridefinirsi in quanto esseri umani confinando in secondo piano le identificazioni imposte dalla modernità, puntando a diventare ognuno un centro di orientamento recuperando la bussola interna e l’equilibrio. Nella quotidianità vanno spezzate le connivenze e le complicità con i modelli che impediscono di convivere, per esempio, con la sofferenza. Non dobbiamo accettare di farci sottrarre la possibilità di comprendere la natura e il senso tanto del dolore quanto del piacere. La società è disposta a elargire surrogati e pillole gratificanti per andare incontro al desiderio di onnipotenza e all’insaziabilità narcisistica. Più ci nutriamo di sogni di gloria e godimento e più ci allontaniamo dalla realtà esistenziale, predisponendo l’esilio degli svantaggiati che si perdono per strada a causa di malattia e accidenti. Quel che si pensa della sofferenza e del valore o disvalore della convivenza coi limiti condiziona l’ottica con cui si guarda ai malati. Il malato è accusato di tradimento perché rende evidente la possibile uscita dal registro del benessere. Chi ne esce in maniera definitiva o non è più recuperabile allo standard diventa un “diverso”, perché solo la salute ideale è considerata normalità, la malattia inguaribile è una diversità talmente radicale da dover essere confinata in spazi appositi. Ciò spiega pure il sostegno di organizzazioni che si occupino delle cure e intanto circoscrivano il fenomeno, in modo da evitare ogni commistione tra la specie dei sani e quella dei malati. I sani, infatti, sperano di non dover mai conoscere direttamente la malattia. Gli stessi volontari possono affossare la solidarietà quando si trasformano in guardiani fedeli di un pensiero disumanizzante, che toglie alla malattia la qualità di esperienza umana. Il significato della convivenza con la coscienza della mortalità e del dolore insuperabile allora viene trascurato o svalutato a vantaggio di un assistenzialismo ottuso. Non interessa capire come si possa accettare la sfida di adattarsi ai limiti sublimando l’ambizione di superarli, fatto che di per sé costituisce un insegnamento utile a tutti. Come acquisire un’educazione di tipo esistenziale che stabilisca cosa fa parte integrante della vita umana, è l’interrogativo più pregnante dei nostri tempi. Sofferenza, malattia e morte fanno parte dell’esistenza tanto quanto la gioia, la felicità e il piacere. I più sembrano aver optato per una concezione a senso unico che prevede una corsa precipitosa verso il massimo possibile di godimento, lasciandosi alle spalle e dimenticando ogni dispiacere, orrori e brutture nascosti sotto il tappeto. Pur non essendo una novità, la degradazione antropologica del presente riguardo alla concezione dell’uomo, va presa molto sul serio e tenuta sotto sorveglianza. Il discorso sul dolore e sui limiti non è impossibile e non deve essere evitato neanche con i più giovani. Anzi, l’adolescenza è proprio il momento in cui il confronto con la finitezza si impone con chiarezza per la presa d’atto della fine dell’infanzia. Compare allora l’ineludibile interrogativo circa il proprio destino e la propria vocazione: chi sono e cosa posso fare della mia vita? Il problema cruciale di ogni adolescenza è costituito dalle domande sui passi da intraprendere, sui mattoni da porre, sull’impostazione del viaggio esistenziale. Un percorso reso più difficile se viene disconosciuto, gli adolescenti non crescono e non vogliono crescere in diretta proporzione alla quantità di adulti che si rifiutano di essere tali. Quasi nessuno vuole appartenere alla generazione precedente, tutti sono coevi e più e meno coetanei, non volendo rinunciare ai vantaggi secondari dell’infantilismo cronico. Più “grandi” si comporteranno da adulti, più vedremo comparire giovani capaci e desiderosi di accettare la sfida evolutiva. Si tratta di assumere una posizione ontologica vivendo in coerenza con la condizione di generazione che precede quelle successive. Che ciò non venga favorito nell’attualità non è un buon motivo per defilarsi e non occupare il proprio posto. Nelle famiglie spesso i genitori non sono gli adulti della situazione, rifuggono dalla presa d’atto del significato complessivo del ruolo. Il fatto è che la coscienza di sé è almeno in potenza coscienza della fine, della vita come parabola con una ascesa e una discesa. Quasi non si trovano più persone disposte a scendere, quasi tutti puntano a stabilizzare il culmine e non intendono rinunciare alla realizzazione di propri “desideri”. Venire a patti con la consapevolezza dell’impossibilità di realizzare tutti i desideri in una vita è un’ipotesi spaventosa e punitiva per i più. Accettare di concentrarsi su alcuni obiettivi fondamentali e vivere tessendo trame di desideri che non chiedono di essere tradotti in atto, è francamente complesso. Eppure è solo così che può essere inteso il “destino” individuale. Oggi, invece, trionfa l’orgia delle possibilità: vuoi fare il cantante, lo scrittore, l’uomo politico, il mago? Tutto ti è possibile. Ma sono solo contraffazioni di destini, perché il destino costa enormemente e non è possibile percorrere più strade contemporaneamente. Bisogna scegliere, proprio quel che al momento si rifiuta, poiché si vende ciò che non mette in discussione e non fa pensare. Le vie difficili vengono abbandonate perché richiedono fatica e non danno garanzie. Così l’esperienza scompare. Un’autentica esperienza infatti si acquisisce solo con anni di duro lavoro la cui retribuzione non consiste in denaro e si misura in umanità e saggezza. Benché tutto il mondo sembri procedere in direzione contraria, più che mai valgono per i giovani le esortazioni di Gottfried Benn: “Tener duro, sedere contro la parete, leggere Giobbe e Geremia”. Mattia Morretta
Pubblicato in: Vivere oggi, Anno 8 n. 8, Ottobre 1994; L’Orizzonte , Rivista trimestrale del Centro Ambrosiano di Solidarietà di Milano, Anno II, N. 1, Gennaio-Marzo 1995 Testo originale relazione tenuta il 3 giugno 1994 nel Convegno “Una prevenzione possibile”, Centro Assistenza Sieropositivi e Aids, Ussl n. 3, Varese