Anteprima NON FU L’AMORE
5 Novembre 2024

La via spirituale di Giuni Russo
A vent’anni dall'addio o arrivederci

• Art a part of culture

Nella notte tra il 13 e il 14 settembre del 2004 si spegneva la voce più umana e metafisica del panorama musicale italiano, perla rara a lungo sminuita dall’industria discografica e infine riscattata dalla verità spirituale. Forse una delle tortore amorose, umili e fedeli, sottratte da San Francesco alle mani crudeli dei mercanti e rimaste con i frati finché non avevano avuto licenza di partire.

Son comparsi fiori sulla terra
viene il tempo di cantare,
già s’ode la voce della tortora nell’aria
(Cantico dei Cantici, Scena seconda, 12)

Narra Ovidio nelle Metamorfosi che era stata Giunone a condannare Eco a poter ripetere solo le ultime parole pronunciate dagli altri, per punirla dei discorsi con cui le aveva impedito di coglier sul fatto Giove consentendo alle amanti di fuggire. Innamoratasi di Narciso, la ninfa aveva osato farsi udire nascosta nel verde, ma uscita allo scoperto il giovinetto, prima incuriosito, l’aveva disdegnata ed ella si era ritirata in boschi e antri solitari, consumandosi sino a ridursi alla sola voce da tutti udita ovunque.

Che rapporto c’è tra il mito riplasmato dal poeta e la storia di Giuni Russo, al secolo Giuseppa Romeo, al di là del primato assoluto della vocalità? Probabilmente un vissuto di insufficiente attenzione patito nell’infanzia da parte di mamma Rosa, all’atto della sua nascita prossima ai quarant’anni, gravata dalle incombenze domestiche in una dimora sempre affollata di gente.
Tanto che della piccola si era occupata la sorellina Anna, morta però per meningite fulminante quando lei aveva quattordici mesi. Da quel momento il ruolo di sorvegliante era toccato alla sorella adolescente, che le cuciva i vestiti e non esitava a pungerle la lingua con lo spillo se parlava in modo scorretto. Una mancanza di adeguata considerazione che si è ripetuta, guarda caso, durante la carriera.

Penultima di dieci figli, Giuni conserva della genitrice soprattutto la memoria della dote canora, quella bella voce spontanea di soprano con cui accompagnava la giornata facendo risuonare la casa di musica, soprattutto arie napoletane, o si esibiva su richiesta altrui.
Non sorprende allora che abbia recuperato nel percorso artistico il miglior repertorio partenopeo, perché in qualche modo aveva sin dal principio fatto eco alla mamma cantante improvvisata, che cercava nei motivi sentimentali e patetici attimi di libertà dall’angustia quotidiana. E a sua volta ha trasformato una sofferenza taciuta e incompresa in nostalgia sonora dell’amore, ritrovando così la madre “lontana e perduta” al pari della patria per gli emigranti.

La vaghezza di sguardo e di pensiero in famiglia risalta nell’incertezza sulla data di nascita, che infastidiva Giuni in quanto indice di “stonatura” tipicamente siciliana, collocando una nota stonata nel suo venire al mondo: per l’anagrafe di Palermo era il 7 settembre 1951, per i genitori il 10, sul certificato di battesimo il 6 (una scoperta fatta quattro decenni dopo).

La sua parabola di cometa è illustrata nella biografia ufficiale del 2009 curata da Bianca Pitzorno, intima amica, un sentito omaggio che sollecita la curiosità di indagarne la psicologia. Del resto restituire il palpito di una vita è quasi impossibile e per tracciare un profilo di personalità serve sufficiente distanza, di spazio e di tempo.
La cronologia delle tappe artistiche segue per forza di cose un andamento lineare in superficie, tra luoghi e protagonisti dell’epoca, gli spostamenti al Centro e al Nord partendo da un Sud modesto e indolente.

Appaiono invece più sfumati i paesaggi interiori, accennati gli slanci verso ascese immateriali, tutt’altro che mondane. Perché certo non era mai stata tentata davvero dalla notorietà, piuttosto anelava a svolgere con serietà e passione un compito sociale mediante il talento vocale, una missione ideale per via sensibile, come ogni autentico artista. D’altronde la scelta della scrittura musicale ha reso secondaria o superflua quella diaristica, il personaggio è diventato un habitus per veicolare messaggi traslati sulla scena.

Per fortuna, oltre alle sue interpretazioni canore, abbiamo abbastanza per farci un’idea della sua anima, a cominciare da due biglietti scritti a mano inviati alle suore carmelitane di Milano, punto di riferimento costante dalla metà degli anni Novanta. Parole che aprono una breccia nel muro della cronaca e confermano che le grandi verità vengono rivelate ai semplici, non a chi si ammanta di dottrina o superiorità intellettuale.

In un fax del maggio 1998, ad esempio, con ingenuità disarmante la novizia in pectore cita un capitolo delle Fondazioni di Teresa d’Avila sul trattamento da riservare alle “malinconiche”, un testo che nell’originale contiene pezzi di bravura esilaranti, specie riguardo alle punizioni che l’autrice raccomandava di infligger loro per averne ragione. Teresa, aquila e colomba, simpatica e arguta non meno che determinata e tagliente, affascinava e divertiva Giuni, che l’ha assunta senza indugio quale Santa Madre, una sorta di agnizione da opera lirica. Nel messaggio alle religiose gioca perciò con garbo sul timore di risultare affetta da malinconia affidandosi alla loro competenza in materia.

Nella sua famiglia, a dire il vero, il cattolicesimo era più una tradizione che un credo, difatti Giuni non era stata cresimata, perché di solito i figli ricevevano il sacramento quando si sposavano. Tutti insieme i Romeo la domenica andavano in spiaggia e nella stagione estiva si trasferivano a Ustica, essendo pescatori il padre e i due nonni.
Con la distesa marina già da bambina lei aveva stabilito un rapporto speciale, fatto di sguardi reciproci (“Mi fissava come un’icona russa”), non a caso il suo ricordo è associato all’inno nazional-popolare alternativo Un’estate al mare, firmato da Franco Battiato e Giusto Pio. Viene in mente la battuta di Ennio Flaiano: “Ogni successo, in fondo, è un malinteso”.

Lo svantaggio di non essere seguita con assiduità nella crescita l’aveva in parte resa più libera, tanto che da bambina la chiamavano la “spadaccina” per i duelli coi maschi brandendo un’arma di legno, col credito di un capobanda visto che poteva acquistare dolciumi per tutti con gli spiccioli di cui le riempiva le tasche il papà.

Aveva frequentato le elementari in un Istituto gestito da suore, ove la maestra aveva subito colto le sue doti vocali e le chiedeva di esibirsi davanti alla classe, ma lei accettava solo a condizione di restare nascosta dietro la porta. Una rappresentazione efficace dell’esigenza di una grata attraverso la quale esprimersi, dissociando la fisionomia dal mezzo di comunicazione col mondo esterno. I brani erano essenzialmente motivi tradizionali napoletani e siciliani oppure gli inni sacri, un’impronta che torna visibile e si impone nel periodo della piena maturità.

È a 8-9 anni che decide di votarsi all’arte differenziandosi dal nutrito gruppo di congiunti: “Io non sarò come loro, diventerò una grande cantante”. Ma si immaginava interprete di teatro con un pubblico di rilievo, non di musica leggera. Sicché aveva studiato di malavoglia e alle medie di nascosto si era iscritta a un corso di chitarra al Conservatorio, lavorando nel pomeriggio per poter pagare lezioni di canto con un maestro noto tra i cultori della lirica, il quale ne aveva fatto la sua accompagnatrice nei saggi dimostrativi nelle scuole.

Nell’adolescenza erano stati i famigliari a darle la spinta verso il mondo della canzonetta sollecitati dai modelli televisivi, poiché allora il successo canoro era il principale ascensore sociale. Quindicenne aveva partecipato al Concorso Voci Nuove di Castrocaro, giungendo vittoriosa al traguardo per poi venir eliminata in quanto troppo giovane.
L’anno dopo era stata la madre a iscriverla a sua insaputa, gravandola di aspettative che non poteva deludere.

Grazie alla vittoria aveva acquisito il diritto di partecipare a Sanremo, ove era stata notata dal direttore artistico della EMI di Milano, ma al Festival (febbraio 1968) Giusy Romeo era stata esclusa dalla finale, unica consolazione un gesto di cortesia da parte di Louis Amstrong, che le aveva regalato il bocchino d’argento della sua tromba. Per contratto era stata mandata a cantare in America e in Giappone, conoscendo presto la solitudine delle stanze d’albergo, una ragazzina senza tutela in un deserto urbano, perché la mamma era troppo presa da figli e nipotini, il padre era contento della strada intrapresa ma a non si rendeva conto della situazione oggettiva.

A diciott’anni, nell’autunno del 1969, aveva conosciuto Maria Antonietta Sisini (musicista di origine sarda), davanti a una discoteca in cui entrambe tentavano di entrare a dispetto della minore età. Da quel momento avevano fatto coppia fissa e l’amica aveva rinunciato a cantare per dedicarsi alla composizione al suo fianco.
Durante la magra e difficile gavetta Giuni si era iscritta alla scuola serale per la licenza magistrale, abbandonata dopo due anni, per tre mesi aveva pure fatto l’operaia in una fabbrica di scatole da scarpe, quindi aveva ripreso a studiare canto iscrivendosi al corso per coro lirico del Teatro Massimo di Palermo.

Si deve arrivare al 1975 per datare un inizio più preciso di carriera con il nome di Junie Russo scelto da un impresario per inscenare una italoamericana del New Jersey, ma il primo brano di rilievo risale al 1978 con il 45 giri Soli noi , che coincide con l’assunzione del nome con cui è conosciuta.

Poco dopo comincia la collaborazione con Alberto Radius e Franco Battiato e nel 1981 entra nella scuderia CGD sotto la controversa direzione di Caterina Caselli. Ne scaturisce lo scrigno di gioielli dell’LP Energie (Una vipera sarò, Lettera al governatore della Libia, L’addio, Il sole di Austerlitz, Atmosfera), che tuttavia, pur suscitando grande interesse, non produce incassi corrispondenti.

Il successo però arriva a stretto giro con la celeberrima Un’estate al mare, nel 1982 il 45 giri più venduto in Italia, vincitore del Festivalbar e del Telegatto. Seguono altri album sotto il segno della qualità e dell’originalità, quali Vox nel 1983 e Mediterranea nel 1984, con motivi che diventano a livello subliminale la colonna sonora di un’intera generazione di omosessuali nostrani (Babilonia, Amore speciale, I ragazzi del sole), basterebbe ricordare i versi d’ispirazione lorchiana: “Dal terrazzo canta il mariquita / Libertà morale per noi” (Buenos Aires).

Finché avviene una rescissione brutale e anticipata del contratto da parte della CGD, con tanto di lettera di discredito ufficiale. Inizia così un periodo di ostracismo nel settore, che alimenta il suo bisogno di cambiare aria in tutti i sensi, con un viaggio in Palestina sui luoghi di Gesù e un trasferimento a Roma, dove viene ingaggiata da un’etichetta più modesta, che produce nel 1986 il successo estivo di Alghero.
Il ritorno in Lombardia avviene nel 1987 e col favore di Battiato può pubblicare l’anno seguente una raccolta di romanze e arie di Bellini, Donizetti, Verdi, col titolo A casa di Ida Rubinstein.

Sta di fatto che nella crisi professionale risorge prepotente l’esigenza spirituale, con Sisini inizia a frequentare l’Istituto per lo Sviluppo Armonico dell’Uomo, ispirato al filosofo guida di Battiato, legge Rudolf Steiner e testi esoterici, Giovanni della Croce e Ignazio di Loyola, si iscrive al corso di teologia dell’Istituto Scienze Religiose di Corso Venezia a Milano. Nel 1993 in Toscana, vicino a Sansepolcro, le due amiche scoprono la Casa di Spiritualità di Nostra Signora del Cenacolo, contatto che le porta ad avvicinarsi alla analoga struttura meneghina in zona Brera.

Da qui la decisione di farsi cresimare preparate da due suore, una delle quali presta a Giuni un libro su Teresa d’Avila, generando un effetto catartico con la canzone Moro perché non moro, nata da una poesia della patrona degli scrittori spagnoli. Il coinvolgimento è tale che Giuni contatta il Convento delle Carmelitane (cercando il recapito sull’elenco telefonico) per sottoporre la sua versione del testo e poi lascia una copia del nastro in portineria.

La risposta non si fa attendere, Madre Emanuela la accoglie con commozione ed entusiasmo, creando le condizioni per un’appartenenza senza riserve, al punto che Giuni proporrà di esser sepolta nel campo riservato all’Ordine nel cimitero di Musocco, ove difatti riposa con il nome d’arte sovrapposto a quello secolare al pari di una vera suora.
L’impegno a loro favore si estende anche alla Sardegna, sua seconda patria, dove cerca di aiutare le carmelitane per il convento di Nuoro, ipotizzando un CD del coro delle consorelle. Inoltre individua come direttore spirituale un frate francescano della Chiesa di Sant’Angelo in via Moscova.

Le esperienze e i contenuti virano con decisione sul registro spirituale: visita in Turchia il Mausoleo di Rumi, grande mistico del XIII secolo, dà alla luce Voce prigioniera con esecuzioni registrate dal vivo, partecipa a più edizioni del ciclo Musica dei Cieli in varie località (memorabile il concerto nella Basilica milanese di San Lorenzo), utilizzando anche letture di Ingeborg Bachmann, Simone Weil, Edith Stein e Cristina Campo.

Ma inesorabile avanza pure il destino, i primi sintomi di una seria malattia si manifestano nella primavera del 1999 e in estate si arriva alla diagnosi di tumore. Giuni ricompare in pubblico nel 2003 a Sanremo con Morirò d’amore e al Festival Internazionale del Cinema Muto di Pordenone, si impegna senza risparmio per il film degli anni Venti “Napoli che canta”, tornando a intonare le canzoni della mamma.
Poi il sipario cala il 14 settembre 2004, il funerale si tiene nella Chiesa di Santa Teresa di Gesù Bambino di Via Colonna a Milano, la bara a terra come per le religiose, mentre viene diffuso l’intenso e straniante brano La sua figura, tratto da Giovanni della Croce, in sintonia con il carmen laetare, allietare col canto.

Dunque Giuni, che era partita dalla pura vocalità, dopo la cattività discografica ha con determinazione scagliato la sua freccia affettiva mirando dritta al centro canoro, cercando di svincolare la propria nota dall’involucro fisico e dalle aspettative legate al ruolo, identificandosi col grido di gabbiano sulle onde e con l’allodola dell’aurora, l’alouette che nel Paradiso di Dante “ʼn aere si spazia / prima cantando, e poi tace contenta / de lʼultima dolcezza che la sazia”.

Perché la voce va più a fondo dell’impressione visiva sul piano emozionale e mentale, non per niente obbedire viene da audire , ed è in grado di far sentire presente chi è lontanissimo o non c’è più. E l’udito è il nostro senso più spirituale e intellettuale, tanto che si può immaginare un aldilà fatto solo di voci. Platone infatti nella Repubblica afferma che vale più cambiare la musica di un Paese che la sua costituzione.
Cantare, che deriva da canere , modulare l’emissione di suoni, è una necessità umana insopprimibile per attutire l’impatto negativo del rumore del mondo sull’animo, nonché rendere marginali le angustie e le meschinità invocando il bene affinché entri e risieda in noi.

Quindi Giuni era ed è figura a sé stante, mai davvero integrata nel mondo dello spettacolo, dispari per temperamento speciale e una posizione refrattaria allo show business. In lei il talento è stato lo strumento per svolgere con umiltà un “servizio”, prima sociale e poi esplicitamente spirituale, quando con la scelta di campo della stagione conclusiva ha potuto affrancarsi dalle regole commerciali per dedicarsi alla lode del vero senso del vivere.

Ben prima dell’esplicita assunzione del tema religioso, era già evidente in lei la nostalgia di un altrove, una Patria o un Regno; il suo canto era attraversato da sentimenti antichi e transpersonali, lacrime e gioie di un tragico destino dietro le quinte della commedia e della vanità. Per questo la sua personalità anelava al sacrificio dell’Io contingente a favore di un’identità essenziale e assoluta, senza maschere, facendo riemergere in sé e da sé il Verbo per esprimere in modo obliquo misteri e simboli profondi.

Consapevole che il mondo non perdona chi non lo omaggia, ha cantato l’importanza di fare della vita interiore un giardino o un orto botanico, da seminare attendendo pazienti fioritura e frutti, residenza profumata per ospitare il Re e la Regina dell’Anima. È sufficiente ascoltare Nada te turbe , La sua figura , Io nulla , Oceano d’amore , La Sposa .
Seguendo la diletta Maestra Teresa, confidenzialmente chiamata Terry, ha compreso e voluto ricordarci che “la gioia celeste penetra fino al midollo, mentre i piaceri terreni colpiscono solo la superficie dei sensi”. Ma nel suo intimo, pur desiderando con ardore il cielo, ha ospitato sino all’ultimo l’amore per un’umanità sensibile. Vox turturis audita est in terra nostra .

Seguimi mi dice e nel silenzio custodisci il cuore
(La sua voce )

Mattia Morretta