L’Aids e l’uomo contemporaneo
Si può riconoscere un diffuso scetticismo riguardo al progresso scientifico, evidente per esempio riguardo alle sperimentazioni tecnologiche (mutazioni e manipolazioni genetiche), segno del vissuto di esposizione globale al pericolo nella contemporaneità cui si tenta di rispondere volendo sapere “tutto”, perché la possibilità di controllo è effettivamente scarsa in generale. La sensazione di disagio esistenziale, di avere poco potere sulle nostre e le altrui vite, può facilitare l’elaborazione di ipotesi fantasiose, quale quella della creazione in laboratorio del virus dell’Aids.
Ciò che più inquieta dell’Aids è la questione sessuale, l’associazione tra relazione d’intimità e morte, un tema in realtà antichissimo, benché “nuovo” per i moderni. Negli ultimi decenni avevamo assistito ad una vera esplosione sessuologia: la ricerca del piacere in maniera consumistica e meccanizzata, per cui l’idea di conseguenze dannose e addirittura fatali in seguito ad atti sessuali, identificati solo come piacevoli, non può che spaventare e disorientare.
In verità, l’Aids è un condensatore di paure facilitate dal modello culturale prevalente, perché coinvolgersi affettivamente ed essere in intimità con gli altri è comunque sentito come potenzialmente nocivo e limitativo per il funzionamento sociale e produttivo, nonché per la “libertà” di realizzazione (affermazione, mobilità, agibilità, ecc.). Ogni singolo individuo deve restare svincolato e in continuo movimento, incapace di rilassarsi, fermarsi, abbandonare, stare con se stesso e con gli altri.
Per un certo tipo di “scienza” il corpo stesso è un pericolo essendo suscettibile di patologie, invecchiamento e infine decesso, mentre l’ideologia dominante punta alla definita sconfitta della morte. Trapiantare organi che non funzionano, modificare tutto ciò che è possibile, ringiovanire forzatamente, sino a costruire un automa freddo e immortale, senza vincoli affettivi e moralità. Evocando malattia e morte in assenza di mezzi efficaci di contrasto la cosiddetta medicina preventiva orienta l’esistenza verso la preoccupazione morbosa per la salute, incapace di favorire la dignità umana che si fonda sull’assunzione della coscienza della mortalità. Paradossalmente si viene colpevolizzati in nome della vita per il fatto di vivere e “naturalmente” ammalarsi e morire.Se la sessualità è in primo piano nell’Aids è anche perché è un ambito di relativa impotenza, in cui prevale l’istintività e il controllo razionale è ritenuto scarso o nullo. L’istanza sessuale è potente e tutta la società è organizzata intorno al perno della seduzione” in tutti i contesti (lavorativi e privati). L’epatite B che pure condivide con l’Aids i legami con sessualità e sangue non ha ricevuto la medesima attenzione, non solo perché è la prima volta che una malattia viene così platealmente e capillarmente divulgata, ma anche perché è giunto al culmine un processo culturale che trova nell’Aids l’espressione massima di significati impliciti.
L’Aids invita a considerare tutti come estranei, se non nemici, gli umori individuali a contatti con quelli altrui, sangue e secrezioni sessuali, sono in linea di massima “pericolosi” perché non ci si può fidare di nessuno, partner fissi compresi. Non è in fondo che un’accentuazione dell’impostazione paranoide della socialità attuale: ciascuno deve difendersi da estranei che lo circondano da ogni parte e controllare i livelli di prossimità, perché l’intimità fisica genera coinvolgimento emozionale e “fiducia”, con grave rischio di perdita di difese e conseguenti danni psicofisici.
Chi ho a fianco per strada può avere una vita privata oscura e minacciosa, anche chi non ha contatti con “gruppi a rischio” manifesta un grande fascino per l’Aids pur in forma negativa, a causa di una malsana gestione del rapporto mente-corpo (coscienza e pulsioni). Infatti preoccupandosi per l’Aids molti vengono a sfiorare aspetti in ombra della personalità e della socialità, una maniera paradossale di recuperare qualcosa di mancante o reso distorto dalla rimozione. Perciò la casalinga cinquantenne si chiede se i suoi rapporti risalenti a venti anni prima possano influire sul suo presente.
In alcuni casi l’oggettività e la realtà sono del tutto assenti e l’Aids configura un problema di salute mentale per la collettività nient’affatto marginale. In ogni caso, i motivi per essere preoccupati sono sempre “privati”, anche le domande più insipienti e grossolane hanno un senso ed uno scopo, in quanto prodotte dalle difficoltà e dei fantasmi individuali, espressione delle dinamiche interne.
D’altronde, la sessualità è stata proposta negli scorsi anni come tranquillante e mezzo per attenuare l’angoscia esistenziale, per cui si crea un conflitto irrisolvibile se diventa a sua volta ansiogena, anche perché il sesso e l’amore rimangono nascostamente luogo elettivo di colpevolezza e disistima. Il senso di colpa connesso alle pulsioni può facilmente trovare nell’Aids punto di appoggio e di scarico, anche se è in gioco qualcosa di più profondo e generale, una colpa per così dire ontologica.
La paura si incentra pure sul carattere misterioso dell’Aids, perché di norma si procede con un bagaglio di presunto sapere conservato in maniera inerziale, invece il nuovo elemento minaccioso disturba e mette in crisi la sicurezza personale. La questione della morte è centrale perché raramente è stata avvertita in termini di massa come oggi. Per secoli la tematica è stata un affare elitario, trattato da medici, intellettuali (pensatoti e artisti) e ceti superiori, mentre a livello popolare veniva ritualizzata ed esorcizzata. Adesso è patrimonio generalizzato e nessuno vuole più morire, a differenza del tempo in cui alcuni potevano permettersi di “non morire” metaforicamente.
Tutti nel presente vogliono essere terni, giovani, belli, efficienti, la massificazione del “desiderio” genera complicazioni e danni perché pochi sono in grado di fare elaborazioni sul senso del limite e sulla finitezza. La morte ci conferisce individualità, siamo individui perché moriamo e ci è dato un periodo definito di presenza sulla terra, nonché uno spazio di senso o non senso.
La morte non può che terrorizzare quando appare come delimitazione di un “vuoto”, una vita priva di significato e tensione morale, sterile nell’accanimento sul godimento di “cose” materiali. Una vita anti-evolutiva non può accettare l’idea della fine del percorso non accettando in primis neppure il movimento, il tragitto. La pressante spinta in senso narcisistico porta a ritenere di avere a disposizione tutte le opportunità e non doversi confrontare con la sofferenza, potendo evitare ciò che è sgradevole.
Nel dettato laico e scientista si viene autorizzati a rifuggire dal confronto con i limiti e il limite per eccellenza, cioè la morte, divenuta pornografica. Si mira a posticiparla all’infinito e a sfruttarla in termini di massa come materiale spettacolare e morboso, magari osservata a distanza nelle disgrazie, guerre, catastrofi del terzo mondo, compreso quello interno all’Occidente (immigrati, minoranze etniche, emarginati, omosessuali).
Anche il corpo è “evitato” nell’attualità al di là dell’apparente valorizzazione dell’immagine e della sollecitazione dei sensi. La testa farebbe quasi a meno della zavorra corporea, che si deteriora e conserva sentimenti ed emozioni, l’unica parte nobile è il cervello, strumento di conquista e potere, perfezionabile sino alla immaterialità anticamera dell’immortalità.
Morire in giovane età in una società “giovanilistica”, nella quale si vive molto più a lungo, è difficile da accettare. A ben guardare è il valore medesimo della vita ad essere in crisi, il che rende la fine ancor più inaccettabile perché niente è più penoso del sentire di sprecare l’esistenza o trascorrerla in modo artificiale. Se la vita è un bene tanto prezioso, è perché è raro sentirsi pienamente vivi.
Nel secolo scorso erano ritenuti eroi coloro che si sottraevano a determinate vaccinazioni, un fenomeno in ripresa per lo scetticismo nei confronti del modello scientifico staccato dalla natura e dal passato. Fioriscono sette e medicine alternative perché bisturi, protesi e integratori alimentari non possono dar risposta ad interrogativi esistenziali e antropologici. Quando il sapere ufficiale sembra sterile e povero, incapace di considerare l’emozionalità, si preferisce qualcosa di meno definito e più fideistico, che dà spazio a suggestione, fantasia, “creatività” magica, reciproco influenzamento.
Se nel tipico approccio medico la persona è ridotta ad un organismo o ad un codice genetico, molti cercheranno rifugio nelle ideologie “alternative” che offrono contesti protettivi e appartenenza, magari con una certa rigidità nella definizione dei valori (bene-male, buono-cattivo), però con considerazione per le istanze emotive e irrazionali. La stessa carta di credito concessa alla scienza rivela in realtà un atteggiamento poco razionale, che approfondisce dipendenza e fatalismo dei singoli (qualcun altro penserà a noi e per noi). Inoltre, anche gli scienziati sono uomini e quindi si può ben dubitare delle loro qualità umane.
La teoria punitiva dell’Aids è molto condivisa, anche se poco coscientizzata. La sensazione è che vi sia qualcosa di troppo, un eccesso simbolizzato dai comportamenti di alcune frange di popolazione. Dietro la sessualità non c’è più nulla, essendo esplicita al massimo grado e non più simbolo di altro, solo una cosa tra le altre. La questione non è soltanto poter superare i limiti e la misura a causa del non appagamento, bensì anche di non avere una struttura di base e delle radici. Da un lato non sappiamo dove stiamo andando e dall’altro su quale terreno poggiamo i piedi.
C’è chi ha ritenuto l’Aids frutto della frattura tra corpo e mente, vedendo nel crollo delle difese immunitarie un fenomeno anche simbolico, la perdita di identità dell’uomo che non sa più chi è. Se ne deduce che è giunto il momento di “tornare indietro" oppure che un’entità superiore gridi vendetta.
L’idea della punizione non è in assoluto e di per sé negativa, dipende dall’uso che se ne fa. Si immagina che l’Aids riguardi chi ha esagerato nel sesso, un abuso sessuale che esprime tendenze autolesive gravi. Ciò è rassicurante per gli altri, perché c’è sempre bisogno che qualcuno ecceda affinché altri riescano a restare nei limiti, è una necessità reciproca o vicendevole.
Per tutto ciò l’Aids può essere un’occasione per ridiscutere modi di vivere e di pensare, un’esigenza iniziata prima dell’epidemia, se pensiamo che Foucault aveva parlato del compito di liberarsi dall’istanza del sesso per poter vivere persino la sessualità.
Il ripensamento sulla moralità della condotta può rilevarsi per alcuni un’opportunità di crescita, per altri significare la perdita di ciò che credevano d’aver conquistato (la sessualità quale diritto, le conquiste civili), ciascuno utilizza tale materiale in base ai meccanismi di difesa per lo più inconsci.
A essere onesti, una rivoluzione sessuale non c’è mai stata nella maggioranza dei casi. Raramente si è trattato di un processo di elaborazione e maturazione, portato fino in fondo nella personalità. Per lo più è stato un adeguamento passivo al clima di licenza e tolleranza in campo sessuale, senza reale convinzione e profondità, per un fenomeno imitativo (così fan tutti). Ciò è il contrario di quel che potremmo definire una sessualità a misura d’uomo. Certo, si erano verificati cambiamenti positivi, a cominciare dal linguaggio utilizzabile, però la massificazione rischia di vanificare i progressi.
La diffusione della possibilità di giudicare il sesso a livello di massa stravolge il senso e la portata sia della repressione che della liberazione. Tutti hanno una sessualità nella società moderna, nel senso che sono chiamati ad essere consci di possedere tale dimensione e ad esercitarvi un potere, il diritto che facilmente diviene dovere di esercizio o ammissione. Il criterio del portinaio e del parrucchiere è basato sul sapere implicito in quanto patrimonio della comunità di appartenenza, quindi fatto di banalità, luoghi comuni, impersonalità, stereotipi. Per fare della sessualità una forza a disposizione del soggetto, invece, è necessario personalizzarla e rielaborarla.
Va auspicato che l’Aids modifichi il modo di pensare alle relazioni sessuali ancor più che di praticarle, perché, ad esempio, parlando di omosessualità l’importante non è mai stato avere libertà di azione bensì libertà morale di essere omosessuali. Perciò è un equivoco preoccuparsi di un’ipotetica riduzione di attività sessuale, interpretata a senso unico come coartazione di libertà personale. Qui è in gioco la sessualità come fenomeno sociale e culturale, in quanto personalizzazione della tensione erotica unitiva, quindi quale dinamica interpersonale.
Fattori più negativi influenzano i giovani, in particolare i minorenni, la cui componente omosessuale nessuno mai prende in considerazione, perché può essere forte la tentazione di rimuovere il problema per non sentirsi mettere in discussione nel periodo di fondazione dell’impianto dell’identità sessuale. Spesso per gli omosessuali, come per gli eterosessuali della rivoluzione sessuologia, il sesso è l’unica maniera di acquisire un’identità e un senso di valore.
Non è la particolare “costituzione” a rendere difficile il cambiamento dello stile di vita degli omosessuali, piuttosto la coazione a desiderare e agire il sesso in carenza di un adeguato modello di auto-definizione. Non lascia il segno fare più o meno sesso, ciò che conta è il modo di pensare la sessualità, il che significa accettare come benefica e valida anche l’ipotesi di astinenza periodica. La vera questione non è il quanto e il come della sessualità, e neppure il durante, il dove e con chi, se mai il prima e il dopo.
Mattia Morretta (1987)