L’altro Aids (ovvero ombre e tabù della prevenzione)Sito Web Omonomia, 2005
Nel regno della cecità, com’è noto, l’orbo è re. Non sorprende allora che nel vero e proprio mondo a parte dell’Aids si considerino ancora attuali i punti di forza del passato remoto, benché diventati nel frattempo punti deboli o addirittura buchi neri. Coloro che ieri dovevano (istituzionalmente) o intendevano (volontaristicamente) operare in senso preventivo, da tempo volgono le spalle al presente o tengono gli occhi ben chiusi.
La natura di fenomeno epocale dell'Aids (tanto da far parlare di “peste del secolo”, flagello e meritata punizione per tipi umani ai margini, attualizzando linguaggi d’altri tempi e concezioni apocalittiche) non ha solo prodotto iniziative a livello comunitario, con la nascita di associazioni di volontariato e il riadattamento di organizzazioni già operanti nel settore del disagio e della devianza, ma ha anche condizionato le successive risposte istituzionali, portando alla creazione di servizi con caratteristiche pressoché uniche nel panorama della sanità pubblica.
Del resto, se è stata ritenuta necessaria l’emanazione di una Legge dello Stato, soprattutto per esigenze di garantismo nei confronti delle “vittime” del male, si può ben comprendere come e quanto l’eccezionalità possa aver avuto e ancor oggi abbia un peso rilevante nella gestione della limitata ma clamorosa epidemia dell’infezione da Hiv in Italia.
Accenno di sfuggita alle ONG di settore, per il loro ruolo secondario nel merito, benché esse figurino tuttora tra i principali referenti quando si tratta di cercare informazioni in materia (magari via Internet) o di promuovere incontri nelle scuole.
Quasi tutte paiono caricature in qualche caso grottesche di quel che furono, ferme come sono all’epoca della maggiore affermazione sul palcoscenico dei media e stancamente al seguito del carro dei programmi ripetitivi e monotoni delle aziende sanitarie, senza speranza di riprendere quel ruolo guida originario proprio della fase di fermento sociale e senza coraggio sufficiente per farsi da parte.
I numeri assoluti dell'Aids, in Italia come un po' in tutti i Paesi ricchi, sono piccoli, si sa. Non così per le altre infezioni trasmesse per via sessuale, le cui ondate e picchi negli ultimi anni (in particolare tra gli omosessuali) costituiscono la riprova più evidente di quanto poco abbiano prodotto le campagne sull'Aids in termini di coscienza della problematica e di stili di vita.
La responsabilizzazione della condotta sessuale (che non è mai stata l'obiettivo della propaganda sul rischio Hiv) non dipende da una "reazione" momentanea e ancor meno dal possesso di nozioni (è la presa di coscienza ad indurre al buon uso delle informazioni).
D'altronde, è fin troppo comodo far passare per esito della “prevenzione” il ridimensionamento dell'Aids, perché, una volta scemato il polverone iniziale, si è potuto/dovuto constatarne la scarsa diffusibilità e il suo, per così dire, opportunismo, nel senso dell'importanza di diverse concause (bacini circoscritti, circuiti favorenti, altre patologie genitali, etc.). C'è poco da attribuirsene i meriti, perciò, visto che sia volontari sia medici hanno avuto e hanno un ruolo marginale nel contenimento dell’epidemia.
Nelle condizioni attuali di intervento, purtroppo, tutti i giochi son già fatti per coloro che hanno alle spalle il vero rischio (e risultano Hiv positivi o affetti da una MTS ) e quasi tutti per coloro che hanno ancora davanti un alto grado di rischio da correre (per motivi interni). A essere onesti, si dovrebbe riconoscere che un lavoro serio e a lungo termine in questa area è quasi un'utopia.
Tra le tante questioni in sospeso, almeno due meritano di essere discusse con franchezza, non fosse che per render ragione della complessità della situazione, alla quale proprio i sedicenti "esperti" rispondono con formule e azioni elementari, superficiali e approssimative.
Esse sono correlate al deficit di prospettiva culturale, che si traduce in incapacità di vedere ciò che è sotto gli occhi e quindi di operare in un'ottica preventiva: l'impostazione minimalistica delle strutture di screening; la componente di psicopatologia e di Aidsfobia; il pregiudizio ideologico a favore del sesso.
Servizi sanitari
In primo luogo, il test Hiv viene gestito secondo modalità rimaste immodificate nella sostanza da più di 15 anni (è cambiata solo la forma). Lo screening impersonale capace di offrire tempestività e flessibilità nei primi anni dell’epidemia ora è di fatto fuorviante e regressivo perché applicato in modo aprioristico, finendo per svantaggiare soprattutto coloro che sono più esposti e isolati nonché per trasformare in signor nessuno persone normali e capaci di senso civico.
A partire dalla seconda metà degli anni Ottanta, le autorità sanitarie locali hanno istituito centri per il test in anonimato e linee telefoniche dedicate all’informazione (a Milano rispettivamente nell’autunno del 1985 e nella primavera del 1987), che trovavano la loro ragione d'essere nella necessità di andare incontro ai soggetti contagiati o a rischio (ambulatori con minima strutturazione e pressoché assente burocrazia, collocazioni logistiche fintamente ordinarie oppure ai limiti del degrado) e di contenere le reazioni di allarme con strumenti usufruibili dal maggior numero di cittadini al minor costo per l’individuo e la collettività.
Si è trattato di fatto di servizi di confine, a metà tra il sanitario e il sociale, in cui anche le prestazioni mediche sono state fornite secondo modalità tipiche della assistenza solidaristica. Basta citare il caso delle centinaia di individui con diagnosi di sieropositività “seguiti” e “curati” per diversi anni (in qualche circostanza sino addirittura al 2001!) in strutture tanto anonime da non poter neppure produrre dati epidemiologici di basso profilo e con quasi completa discrezionalità degli operatori del momento.
In alcune città per diverso tempo è stato possibile effettuare il prelievo ematico per il test presso Organizzazioni “Non Governative”, che fungevano da mediatori e garanti di soggetti ritenuti socialmente vulnerabili.
In diverse Regioni non sono mancati Numeri Verdi con fasce orarie estesissime (qualcuno ha tentato spudoratamente la copertura totale delle 24 ore), di cui è rimasta qualche traccia in forma di Help Line private pagate con denaro pubblico per dare a pochi irriducibili la sensazione di svolgere un ruolo importante per la collettività (indifferente, più che ingrata). Un sussidio ai singoli “attivisti” parrebbe in molti casi più onesto e senz’altro più economico.
Una delle manifestazioni più evidenti della derivazione del sanitario dal sociale e della confusione dei piani di lavoro, la si trova nel linguaggio utilizzato dagli innumerevoli “esperti” dell’Aids: tutti fanno counselling e ricorrono a parole chiave (le quali in genere chiudono piuttosto che aprire le porte della comunicazione), indipendentemente dal loro profilo professionale (medico, psicologo, infermiere, assistente sociale, volontario, eccetera, perché la lista è davvero lunga per l’Aids e c’è posto per tutti nel salotto più alla moda della sanità) e dalla loro collocazione in strutture sanitarie o associazioni. Come se tutti avessero gli stessi obiettivi o le medesime finalità (slogan pubblicitari, per lo più, o didascalie elementari, giochi di prestigio da principianti).
Il fatto che le Istituzioni preposte si siano praticamente adeguate alle iniziative attuate nell’epoca pionieristica dalle ONG, limitandosi molto spesso a sancire le soluzioni più urgenti dal punto di vista sociale (Comunità e Case di Accoglienza) e a ritagliare per le ASL un ruolo di “verifica e controllo”, ha condotto da un lato a situazioni francamente anomale nel Servizio Sanitario Nazionale (determinando nel tempo percorsi differenziati per i malati non compatibili con l’effettiva rilevanza del problema), e dall’altro lato alla stagnazione dei fantomatici interventi di prevenzione, pressoché invariati nell’ultimo decennio e abbandonati alla deriva della casualità sotto le mentite spoglie di un interesse politico di facciata (con finanziamenti di progetti non raramente aleatori).
Va notato che la sorveglianza dell’infezione da Hiv è agli albori dopo un deludente periodo di prova. Del resto, i Centri HIV/MTS sono tuttora organizzati in base a modelli elementari e massimalistici, che ne fanno delle anonime anticamere dei rinomati reparti di malattie infettive degli Ospedali principali e dei partner obbligati di Associazioni nominalmente potenti e di successo, le quali non si fanno scrupolo di diffondere diffidenza e pretenziosità nei confronti delle istituzioni che pure ne sono i principali finanziatori.
Occorre ricordare che è la rilevanza psicosociale pregressa dell’Aids a dar ragione della sussistenza di servizi dedicati, cospicui investimenti, programmi fantomatici quando non bizzarri, gruppuscoli d’ogni genere, nonché degli iter burocratici accelerati per il godimento di prestazioni (dal test gratuito, anonimo e senza impegnativa del curante, all’invalidità civile e all’assistenza domiciliare o residenziale).
Non sono ragioni sanitarie in generale e neppure epidemiologiche in particolare a spiegare un tale dispiego di “forze” e dispendio di risorse economiche. Eppure, tale ragione culturale viene ignorata, sia nella gestione dei Servizi sia nel rapporto con l’utenza, fino a non essere mai nominata.
Gli stessi infettivologi sono medici alla ribalta per l’impatto della malattia sulla società e sull’immaginario collettivo, non per sapere o scienza superiore; anzi, è soltanto tramite l’aggancio con il tema più ampio dell’immunologia in declino nell’uomo occidentale, che è possibile rinvenire un interesse per la medicina e per la collettività, e non certo per le sperimentazioni e i cocktail farmacologici anti-Hiv che hanno importanza solo per i pazienti e i loro curanti.
Di converso, l’attenzione e l’attrazione (fatale) degli utenti degli Ambulatori di Screening riguarda sovente proprio i significati antropologici, che risultano gli aspetti in assoluto più misconosciuti e rimossi dagli operatori del campo, che finiscono per fare come i pazienti, fingendo di occuparsi effettivamente dell’infezione e della epidemiologia (percentuali, norme igieniche, informazioni).
Va ricordato che gratuità e anonimato sono stati mezzi e non fini dell’approccio iniziale all’Aids, per facilitare l’avvicinamento ai servizi da parte di soggetti con comportamenti a rischio nella vita sessuale; questi ultimi difficilmente si sarebbero rivolti al medico di famiglia o agli ospedali, per ragioni “comprensibili” pur se non condivisibili o non giustificabili, in un clima di allarme e cosiddetta “psicosi collettiva”.
La facilitazione del percorso mediante canali appositi pareva opportuna per individui non in condizione di affrontare nelle sedi ordinarie il problema delle conseguenze sanitarie di condotte particolari in ambito sessuale o relazionale (sfera privata di stili o scelte sessuali, che come quelle religiose o politiche non sono di regola oggetto di comunicazione né possono precludere accesso a cure o servizi).
Ciò serviva a evitare discriminazioni o a ridurre la possibilità che il pregiudizio negativo causasse sia disservizio che non identificazione dei casi di malattia per evitamento del test diagnostico da parte dei membri dei gruppi a maggior rischio e stigma.
Oggi, però, la facilità di accesso e l'offerta di visite/esami senza costo materiale e morale risultano in molti casi controproducenti, comportando non esposizione in prima persona e assenza di personalizzazione della domanda con l’alibi del rischio di etichettamento o di violazione della privacy, finanche diagnosi di sieropositività ufficiose senza conseguenze riguardo al trattamento – con licenza di non cura e di scelta di rivolgersi o meno agli ospedali.
La dimensione psicopatologica
Non è difficile capire perché, in tali condizioni, si trovi a trarne presunto vantaggio la dissimulazione della patologia psichica e della devianza sociale o sessuale, grazie alla mescolanza indiscriminata degli utenti accomunati dall’esigenza di ottenere informazioni, visite o test a buon mercato per l’Hiv e in subordine le altre MTS.
La scarna strutturazione dei servizi funge indirettamente da amplificatore dei sintomi (psico)somatici e dei fantasmi centrati sulla patologia (patofobia e patofilia) nelle persone disturbate o problematiche. Sicché, si rafforzano da un lato le modalità autistiche/autarchiche di gestione del disturbo e la negazione di esso da parte dei diretti interessati, e dall’altro lato la scotomizzazione o la sottovalutazione dei problemi oggettivi da parte delle figure sanitarie coinvolte.
Ne risultano aggravati l’isolamento sociale, il ritardo o l’assenza di diagnosi psichiatrica, la mistificazione esistenziale e relazionale (nessuno sa nulla nell’entourage) e persino l’impostura ideologica (bisogno di aiuto psicosociale scambiato e trattato come bisogno informativo sull’Hiv).Un contributo alla confusione e alla frammentazione viene senza dubbio dalla moltiplicazione degli esperti e delle fonti informative (basta un'occhiata alla giungla dei siti web).
L’anonimato, occorre ribadirlo, non è un’accentuazione o un derivato della riservatezza, e neppure una variante radicale della privacy. Esso fa a meno della soggettività che le altre due tutelano presupponendola.
Riservatezza è una bella e profonda parola, con una storia edificante alle spalle, mentre anonimato è un termine brutto e gravido di associazioni negative (unica eccezione la mortificazione dell’Io e della vanità nel gesto caritativo o nel percorso di recupero dell’alcolismo).
Una fetta consistente dell’utenza dei Centri HIV/MTS è costituita da soggetti che hanno o ritengono di avere qualcosa da nascondere, che non è mai la condotta sessuale in sé e per sé, bensì un intrico di elementi attinenti alla sfera della salute e dell'intimità psicosessuale, gravati dall'aspettativa (del tutto irrealistica) di messa al bando nella pubblica piazza.
Poiché cercano di tenere nascosti i vissuti di anormalità, inferiorità, inadeguatezza psichica e sociale, essi paventano lo smascheramento della recita della normalità, oppure di quella che si rivela essere una rappresentazione della trasgressione (quanti sembrano diversi a livello sessuale grazie a identificazioni fittizie e superficiali: per esempio, psicotici o borderline travestiti da moderni gay e bisex!).
Di conseguenza essi temono una condanna intesa come perdita di aggancio o appoggio relazionale, l’ostracismo e l’emarginazione una volta svelata la loro diversità sociale, legata alla debilità/defettualità. L’Aids deve perciò rappresentare la patologia "rivelatrice", colpevole, procurata, provocata, meritata: si tratta della morte e della malattia proprie di personalità fragili, assestate su un continuo livello di “sopravvivenza” emozionale e mentale.
Siamo, infatti, di fronte alla drammatizzazione dei temi della malattia potenzialmente mortale e della responsabilità esistenziale tipica di alcune forme di disagio psichico, nella quale viene presa a prestito e a pretesto una patologia di moda, cioè suggestiva e nell'aria, ancorché ormai non più certamente o rapidamente mortale come all'epoca del suo impatto traumatizzante sulla società. L’assenza della tragedia rende possibile la messa in scena del dramma o addirittura della commedia (occuparsi di Aids e rimuovere gli altri problemi esistenti).
L' Aids si conferma per assurdo quale attesa "punizione divina" per mitomani alla rovescia, megalomani della caduta, onnipotenti della diabolicità; i quali si aspettano una pena esemplare e non si accontentano di banali malattie veneree, curabili e senza titoli in cronaca.
In non pochi casi si deve constatate che la patologia psichica è la verità ultima dell'intero impianto della condotta sessuale e che l'individuo aspira a ricevere una diagnosi medica e a essere seguito e sottoposto a terapie (ma è un'altra la patologia di cui soffre).
L’ambiguità dei Servizi si associa a numerosi fenomeni negativi che rimangono nell'ombra: la dispersione delle risorse, la confusione sui referenti della salute dei cittadini, la collusione con la patologia, l'aumento immotivato e improduttivo della spesa sanitaria, la distorsione della concezione stessa della prevenzione (parlare di diagnosi precoce è per lo più un equivoco).
Paradossalmente oggi chi risulta Hiv positivo viene invitato a rivolgersi al proprio medico per il passaggio in cura agli ospedali, mentre coloro che manifestano sintomi o alterazioni attribuiti impropriamente all’esistenza della infezione da HIV non si trovano davanti veri ostacoli all’autolesionismo sotto forma di richiesta di test sierologici.
Un approccio più sostanziale potrebbe forse opporre una barriera e un freno al circolo vizioso dell'ipocondria e dell'ossessione nonché all'atteggiamento mistificatorio, rendendo più probabile l’identificazione dell’effettivo malessere.
Non basta la forma, infatti, perché la richiesta di tessera sanitaria o di pagamento di alcune prestazioni non comporta automaticamente relazione e comunicazione (l'attenzione è la variabile fondamentale e dipende dalle persone).
Occorrerebbe saper identificare la marea del disagio psicosociale che porta (sovente col vento in poppa di banali notizie di stampa o televisive) sulla spiaggia dell’infezione da Hiv i naufraghi della patologia psichiatrica, i pirati dei disturbi di personalità, i derelitti della anomalia sessuale senza patria né terra, gli scarti del processo di adattamento sociale.
Quanti soggetti sradicati (studenti presunti o sedicenti, fuori sede o migranti, del sud Italia in particolare e di paesi stranieri), in perenne “formazione” o con carriere o professioni inesistenti, fallimentari nei ruoli sociali e nel lavoro, fanno dell’Aids il loro nascosto punto di riferimento, quasi una stella polare a rovescio?!
Va anche detto che chi non sa come muoversi nell’ambito del comportamento sessuale, neppure oggi che esistono informazione più che accessibili, preservativi gratuiti, tanti presunti tutori, è effettivamente inadeguato sia in senso psichico che in senso sociale, e come tale andrebbe “trattato”, nel suo stesso interesse.
Un aspetto poco valutato è quello della inattendibilità delle dichiarazioni sui fatti riferiti e sui motivi della richiesta del test, specie nel caso di rapporti omosessuali (una mistificazione tendenziale dell’orientamento o dell’esperienza effettiva, che ancora adesso porta ad attribuire alla voce "Altro" persino nelle statistiche ufficiali sull'Aids non pochi casi dovuti a pratiche omosessuali).
Una visione distorta e una percezione morbosa dell’Aids portano a descrivere e rappresentare in modo artefatto o non veritiero i comportamenti ritenuti a rischio, in senso sia peggiorativo che migliorativo.
D'altronde, gli stessi gay politicizzati chiedono anonimato, preservativi, facilitazione di test e cure, ma non visite venereologiche sistematiche per individuare e trattare MTS in sede anale e orale. Ciò, in effetti, presupporrebbe il riconoscimento della promiscuità abituale e la presa d'atto delle conseguenze, nonché la consapevolezza che la "maggioranza" è gregaria, passiva, fatalista anche nella minoranza gay (e quindi va presa per mano e trattata anche un po' paternalisticamente)!
In ultima analisi, chi fa esami per sedare ansie e preoccupazioni irragionevoli, come chi si nega confidenzialità e franchezza sulla sfera sessuale in contesti sanitari, resta preda dei propri fantasmi e della irrazionalità se può agire da padrone assoluto delle decisioni mediche.
Molti tra coloro che si rivolgono ai Centri MTS non intendono instaurare un dialogo, bensì usufruire di una sorta di self-service, in cui il personale di turno non è che elemento accessorio (sorta di cornice), in un certo senso persino “superfluo”: il rapporto è con il test temuto/agognato, magari con l’enfasi sul “prelievo” di sangue, in una dimensione autarchica che non prevede scambio, confronto e tanto meno “reciprocità”.
Il test Hiv, allora, lungi dall’essere un utile test di realtà (adattamento all’ambiente con adozione di condotte coerenti con la situazione oggettiva), costituisce per i più un test di malattia: chi è Hiv negativo è autorizzato a ritenersi/credersi “sano”, a dispetto di ogni altra condizione patologica in atto o potenziale, vuoi a livello organico vuoi a livello psichico.
Inoltre, nonostante ogni abitudine inveterata a compulsioni, viziosità e perversioni, se il test è negativo e se a grandi linee si dichiara di usare il preservativo, si è catalogati tout-court come “normali”.Ritengo sia dis-educativo accettare che finanche individui con titolo di istruzione medio-alto e con ruoli professionali importanti (non raramente in ambito sanitario) esercitino un malinteso e pretestuoso diritto all’uso della sanità in assenza di alcuna contropartita: richieste abnormi di disponibilità oraria, aspettativa di impersonalità ai confini della clandestinità, ritiro dei referti deciso in proprio, falsificazione della identità ben al di là dell’esigenza di anonimato, sfiducia dichiarata nei confronti delle Istituzioni in presenza di comportamenti parassitari, negazione di qualunque forma di rapporto comunicativo con il personale addetto (trattato come nullità o presunto controllore di Stato, oppure come macchina erogatrice di prelievi e referti).
Troppi frequentatori di Servizi con l'etichetta Aids non si comportano da cittadini e rifiutano la cittadinanza ai loro interlocutori, sentendosi autorizzati ad agire in modi che in qualsiasi altro contesto sarebbero stigmatizzati come incivili e antisociali.
Dopo un quadro a colori tanto vivaci per assenza di filtri protettivi, non si può che auspicare una pianificazione ragionata e realistica di qualsivoglia "prevenzione", tenendo conto delle effettive variabili in gioco e di quanto la società sia disposta a investire nell’area della patologia correlata al comportamento sessuale.
In questo senso, va usato un linguaggio diverso da quello abituale, a cominciare dalla ridefinizione dell’Aids quale problematica che attualmente riguarda o interessa in modo elettivo le seguenti categorie di poveri: > soggetti privi di mezzi materiali per accedere alle informazioni e ai sussidi profilattici, nonché alle cure efficaci; > soggetti privi di mezzi psichici per utilizzare informazioni possedute, servizi e trattamenti esistenti; > minoranze sessuali prive di strumenti culturali e supporti comunitari per tutelare salute sessuale e affettiva; > soggetti che spostano sull’Aids il vissuto di vulnerabilità che minaccia la vita psichica (meccanismi di difesa rigidi e disadattivi, patofobia/patofilia costitutiva di personalità deficitarie); > altri “diversi”: soggetti marginali, disadattati, non integrati nonostante un’apparente normalità (fallimento del ruolo o dell'inserimento sociale).
Mattia Morretta (ottobre 2005)