Il film di Tom Hooper The Danish Girl, presentato alla settantaduesima Mostra del Cinema di Venezia (2015), è un’opera di pregevole fattura tratto dal romanzo omonimo di David Ebershoff (2000), dedicato al primo caso di correzione chirurgica del sesso anatomico per far corrispondere corpo e mente secondo il volere dell’interessato, più di due decenni in anticipo sull’ex-marine americano Christine Jorgensen che sconvolse il mondo nel 1953. La vicenda prende avvio nella capitale danese nei tardi anni Venti per concludersi con la morte del-della protagonista nel volgere di qualche anno.
Il vero Einar Mogens Andreas Wegener, nato a Copenaghen nel dicembre 1882, dopo aver vissuto in abiti femminili facendosi passare per propria cugina nella vita mondana parigina, aveva infine tentato nel 1930 (già quarantottenne) l’impossibile per l’epoca, cioè la trasformazione in donna sottoponendosi in una clinica di Dresda a cinque operazioni chirurgiche, dalla rimozione dei testicoli e del pene sino all’inverosimile trapianto dell’utero, sotto la supervisione del grande medico Magnus Hirschfeld, promotore della decriminalizzazione dell’omosessualità nella Germania del famigerato paragrafo 175.
Una storia eccezionale anche perché il re danese concesse il riconoscimento del nuovo sesso e del nome Lili Ilse Elvenes trascritto sul passaporto. Tre mesi dopo l’ultima operazione, nel settembre 1931, Lili moriva per le complicanze e veniva sepolta nella città tedesca.
Il film colloca in uno scenario raffinato ed estetizzante il dramma, suscitando infatti le critiche dei sessuomani moderni che esigono climi bollenti e preferirebbero veder confermato che c’è del marcio in Danimarca. L’ambientazione paesaggistica, architettonica e artistica indugia sulla bellezza e sulla delicatezza, escludendo la brutalità, la volgarità e il degrado di solito associati alla tematica.
Nonostante tali accorgimenti ed effetti speciali, consoni ad un contesto di persone colte, ricche ed emancipate, la storia evidenzia molto bene che c’è poco da sorridere nella condizione di colui che si percepisce condannato ad una prigione corporea in quanto difforme dall’identificazione di genere, poiché anzi lo scenario sostanziale è la tragedia, con tanto di trionfo finale della morte.
Non per nulla nella fase precedente alla metamorfosi Einar, pittore di talento a tema unico (una solitaria località paludosa), di fronte all’ironia della moglie circa il pericolo che egli si trasformi nel soggetto dei suoi quadri, risponde “la palude è dentro di me”. Un bagliore sinistro illumina per un attimo la profondità degli abissi in cui pescano la psiche e il cervello umani, un mistero sondato soltanto parzialmente e con molte approssimazioni.
In effetti, a differenza del cosiddetto transgender di moda attualmente, il transessuale non ha scelta, non fa i capricci e non gioca a nascondino o alla danza dei sette veli, per lui si tratta di un imperativo, con determinazione sente di dover andare fino in fondo, il che in realtà equivale a tornare all’origine, al peccato (difetto-errore) originale. Perché in ultima analisi si è dell’uno o dell’altro sesso e non entrambi o un po’ dell’uno e un po’ dell’altro, aut aut.
Inoltre, l’eccesso di distinzione esita regolarmente in livellamento e omologazione, perché il transessuale si ispira alla tradizione di separatezza esclusiva tra i sessi e al dettato della natura, non alla cultura di cui pure ricerca i contributi tecnici (farmaci e chirurgia). Il giovane, poi rivelatosi omosessuale, che manifesta interesse per Einar alla prima apparizione in società nei panni di Lili Elbe, coglie subito la differenza dalle altre donne nel suo atteggiamento da “ragazza d’altri tempi”, alla quale occorrerebbe chiedere il permesso prima di azzardarsi a baciarla.
Nell’immediatezza dell’intervento di asportazione dell’organo genitale, il primo desiderio espresso al benevolo e compiacente dottore è di avere un figlio, una possibilità rimandata dal medico al futuro (“un passo per volta”), perché per il/la paziente una vera donna è tale se si completa con la maternità.
Sicché, l’identità viene risucchiata dal ragno del genere sessuale facendo piazza pulita di esigenze affettive e sessuali, nonché terra bruciata nella personalità, al punto che la creatività si esaurisce, Lili cessa di dipingere e tutt’al più prende appunti sul proprio caso, registra i fenomeni e i vissuti in un diario, completamene assorbita da se stessa e dal compito primario di assolutizzazione della femminilità ideale.
Sul letto di morte la neo-nata dal corpo martoriato confida all’ex-coniuge in lacrime di aver sognato di essere una bambina tra le braccia della madre, ricomposizione di un cammeo originario tutto al femminile.
Nella transessualità, del resto, ci si muove in un universo domestico e materno, gineceo di donne indulgenti e comprensive, un po’ fate e un po’ streghe, sempre alle spalle dei figli e dei compagni, supporter dei “diversi” e di tutti gli eccentrici, pronte a imboccare, imbandire la tavola e sistemare il giaciglio delle loro “creature”, disposte al maternage e al sacrificio per il sesso debole, cioè quello maschile. Si deve difatti alla consorte Gerda l’evocazione alla luce della donna occultata o sepolta in Einar Wegener, un’altra maniera di mettere al mondo e partorire per lei che soffre di non avere figli.
“Sono come mi vedi”, dice la resuscitata Lili a colei che ne ha fatto la modella ideale per i suoi quadri riuscendo finalmente ad emergere e affermarsi come pittrice di successo; Einar intanto perde l’estro pittorico con l’accelerazione del processo che lo vede diventare “solo donna”, sconfessando l’emancipazione femminile di cui la moglie è efficace bandiera.
D’altronde, la donna “vede” se stessa nell’uomo e tende a femminilizzarlo, così come l’uomo si vede in controluce nella donna e vorrebbe mascolinizzarla, una proiezione subliminale di matrice narcisistica che attraversa tutti i rapporti etero-sessuali eppure è sottaciuta dagli studiosi.
Per noi nativi della liberazione sessuale almeno una conclusione è d’obbligo. Benché negli anni Sessanta del XIX secolo Karl Heinrich Ulrichs, antesignano del movimento omosessuale, avesse levato la voce contro il rigore di una legge sorda allo spirito sintetizzando l’essenza della questione nell’anima muliebre racchiusa in un corpo maschile, tra transessualità e omosessualità i punti di contatto sono assai minori di quelli supposti o dati per scontato. Se i caratteri e i comportamenti sessuali si dipanano lungo un continuum, in base all’insuperata definizione dello zoologo Alfred Kinsey, omosessuali e transessuali sono sì parenti, ma alla lontana.
Al di là del comune anelito alla libertà di espressione della personalità in un consorzio pienamente civile, ove diritti e doveri si bilancino, i contenuti e i significati delle due tipologie di esperienze divergono man mano che si approfondisce la conoscenza. Anche per questo verrebbe da parafrasare Auden: la verità, vi prego, sull’amore.
Mattia Morretta (27 febbraio 2016)