Le sabbie mobili della dipendenza amorosa
"Ma che cos’è il cuore, signora? Vale meno di quanto non si creda. È accomodante, accetta tutto. Lo si arreda con quello che c’è, non ha pretese. Il corpo, invece, lui sì che è di gusti difficili, come si suol dire, e sa quello che vuole. Un cuore non sceglie mica. Si finisce sempre per amare" (Colette, Il puro e l’impuro, 1941)
Durante la giovinezza ci si sente in un periodo di prova, una sorta di apprendistato senza vere conseguenze, durante il quale è consentito dedicarsi a sperimentazioni senza sbocchi o esplorare vie secondarie, prima di giungere a riconoscere l’inevitabilità di un percorso principale e personale.
Nel trovare la propria strada è infatti implicito il riconoscimento della fine e quindi della morte. Proprio la paura della definitività della coscienza di sé porta molte persone a perdere o a sprecare il tempo, nel tentativo di sospendere la crescita e scongiurare il tramonto. Si accumulano così finte ricerche, poiché di fatto si cerca solo di non entrare nella propria esistenza e di non trarre le logiche conseguenze dalla consapevolezza della realtà.
Giunge in ogni caso il momento in cui diviene necessario cominciare a trovare il piacere e l’amore nell’esistenza concreta e attuale, recuperando anche alcuni elementi del passato come eredità e patrimonio. I conti devono almeno in parte quadrare, uscendo dalla logica del lamento che impedisce la presa d’atto della propria storia in maniera utile alla preparazione del futuro.
L’amore è uno degli argomenti più dibattuti e più saturi di malintesi e di mistificazioni. In genere, quando si descrivono i propri gesti come dettati dall’amore, ci si consola e ci si gratifica automaticamente: molte azioni pessime diventano positive, se vengono fatte risalire al motore sentimentale. L’amore è sempre visto come buona intenzione, comunque vada e qualunque distruzione compia nel suo inveramento.
Nei momenti di difficoltà, quando la base su cui poggiamo le certezze vacilla e l’identità è messa in seria discussione, la questione delle relazioni affettive si tinge di cupo sentimentalismo e assume i caratteri dell’emergenza esistenziale.
L’urgenza di conferme e di rassicurazioni può spingere ad azzardi ed errori molto gravi, ritenuti parte integrante della irrazionalità tipica del fenomeno amoroso.
Proprio nelle vicissitudini critiche, invece, occorrerebbe applicarsi al riesame attento di ciò che caratterizza la propria storia sentimentale, perché molta della sofferenza amorosa si rivela auto-procurata in rapporto alla mancanza di autentici legami affettivi in momenti particolari della vita.
L’affetto profondo nutre e diventa un patrimonio che non si può perdere. Se c’è o c’è stato un vero incontro umano, si determina un attaccamento che aumenta la capacità di vivere e l’adattamento alla realtà.
Molti preferiscono le bombe emozionali agli affetti interpersonali, vogliono provare emozioni forti e particolarmente intense, confondendole con l’affetto, cioè ritenendo di essere coinvolti con gli altri perché «sentono» molte cose.
Gli stimoli che non arrivano in profondità, tuttavia, non fanno vibrare l’intera persona; colpiscono alcuni punti fondamentali e dicono cose significative sul modo di essere nel mondo del soggetto implicato, ma non aprono orizzonti di comprensione e spesso non sono neppure di aiuto concreto.
È molto importante allora distinguere tra dipendenza e attaccamento.
La teoria dell’attaccamento fa riferimento alla funzione adattiva dell’amore: ci sono bisogni e comportamenti inscritti nel nostro corredo instintuale, che fanno da substrato biologico di fenomeni considerati puramente psicologici o culturali.
Garantirsi o mantenere la vicinanza con una figura in grado di offrire protezione e sicurezza contro le minacce ambientali è una condotta che si ripresenta nella vita nelle situazioni di crisi in cui diventa significativa (nella realtà o nella «fantasia») la minaccia alla sopravvivenza.
L’attaccamento possiede una valenza biologica e svolge una funzione di adattamento all’ambiente; pertanto è un comportamento tendenzialmente evolutivo. La dipendenza, al contrario, non ha scopo biologico e non attiva dinamiche evolutive; mantiene l’individuo in uno stato di bisogno: c’è solo la ripetizione di un trauma e non si esce mai dalla mancanza.
L’attaccamento, se funziona, determina un moto di crescita del potenziale personale, grazie all’aumento della sicurezza e della fiducia in se stessi.
Molte volte non funziona perché il soggetto non ha avuto possibilità di sperimentarlo in modo positivo nel passato; sicché finisce per sbagliare le figure a cui si rivolge, non riuscendo a individuare coloro che potrebbero davvero essergli utili per uscire dalla situazione di disagio. In altri casi il difetto è nella capacità di collaborare e quindi di utilizzare proficuamente l’occasione.
Da piccoli si impara a stare soli sapendo presente la madre e ciò consente di tollerare la solitudine da adulti, come pure di ricercare la compagnia altrui in modo non manipolatorio. Godere della possibilità di stare soli in presenza di una figura significativa e rassicurante consente di diventare autonomi, cioè di potersi allontanare ed esplorare l’ambiente, in quanto la solida base interiore di sicurezza creatasi in precedenza sostiene la ricerca di libertà e di autonomia.
Il fatto di restare vincolati e «appiccicati» sembra perciò la testimonianza dell’incapacità di un rapporto di produrre reale autonomia, dissimulando la dipendenza con l’intensità del bisogno amoroso.
L'accoppiamento dovrebbe incrementare le opportunità di sopravvivenza dei suoi membri, poiché soddisfa anche tale funzione, benché involontaria e inconscia. Si dovrebbe tenerne conto nella formazione di coppie, anche non legate da motivazioni sessuali, soprattutto nel momento in cui diventa obbligatorio fare i conti con le proprie esigenze reali.
L’alone mistificatorio che circonda l’amore spinge chi ama o ritiene di amare a giustificare per questo solo fatto ogni vissuto e ogni richiesta. Per alcuni, l’amore diventa anche l’unico o uno dei pochi motivi per considerarsi degni di stima.
Ciò spiega perché molti legami, instaurati sulla base di una passione tanto grande quanto pretestuosa, si rivelino poi distruttivi e pericolosi.
Vi sono rapporti che nascono su un sottofondo di profonda disistima (a volte di depressioni gravi), in cui appare solo la platealità di un sentimento ritenuto capace di superare qualunque differenza e problema.
Il presunto amore viene esaltato in effetti dal compito di tollerare le difficoltà e di confrontarsi con i disagi, divenendo un fattore di parziale auto-terapia attraverso la pseudo-valorizzazione di sé come vittima o come salvatore. In tal modo viene evitato proprio ciò che servirebbe, cioè il confronto con il proprio sentimento di nullità e di precarietà.
Sulle sabbie mobili della mancanza e del bisogno è impossibile edificare rapporti onesti e proficui.
Molto spesso si sente descrivere la ricerca dell’amore o la relazione sentimentale come una operazione aritmetica assai singolare, nella quale c’è addizione di frazioni e non di unità.
Ciò rappresenta bene il punto di partenza dell’individuo: non si tratta di una identità che si aggiunge ad un’altra, perché c’è un solo soggetto considerato portatore della gran parte dei fondamenti di solidità e di valore. La perdita del partner equivale allora ad un ritorno a zero, non a uno.
La costruzione del vincolo avviene in tal caso a partire dalla percezione di se stessi come profondamente mancanti (vuoti). Il desiderio nasce dal vissuto di privazione e dall’aspettativa di un arricchimento, quindi si nutre di insoddisfazione.
Tuttavia, non è possibile confondere il bisogno di affetto con quello di identità. A quali livelli dell’essere si situa la mancanza?
Nel caso dell’amore malato, la persona manca di un substrato profondo, non si tratta di elementi superficiali o di dettagli. C’è un vissuto esistenziale di vacuità, la carenza è viscerale, infatti non si colloca nel cuore ma nella pancia. Si va quindi oltre la dimensione affettiva, per sconfinare nel terreno dell’identità personologica.
Chi ha sperimentato vari tipi di disagio psicologico tende a vivere le relazioni con gli altri in modo molto predatorio, cercando cioè di strappare all’altro ciò di cui si sente mancante, senza saper riconoscere dove si situa tale "assenza" e quindi senza capire di cosa veramente necessita.
Le privazioni subite o le carenze oggettive non sono compensate, come si tende a credere, mediante la realizzazione di rapporti erotici o di passioni sentimentali. A torto, si continua a ritenere che l’amore sia terapeutico di per sé, facendo confusione tra tutti i tipi di emozioni, sentimenti e affetti cui si dà arbitrariamente il nome di amore.
Quando si forma una coppia viene spontaneo congratularsi e salutarla come un evento felice, poiché a livello simbolico essa rappresenta per tutti una promessa di miglioramento dell’esistenza e di continuità della specie. Spesso, però, non c’è nulla di buono nel legame tra i due individui e si parlerebbe più appropriatamente di «associazione a delinquere» che non di amore.
Bisogna riconoscere che l’ossessione della relazione di coppia come prova di realizzazione è frutto della propaganda prima psicoanalitica e poi sessuologica dell'ultimo quarto del XX secolo.
Se non si fa parte di una coppia perfettamente modellata su certi standard salutistici, si rischia di venir considerati dei falliti a livello sociale. In verità, si tratta solo dell’altra faccia della medaglia dell’individualismo spietato incoraggiato dalla stessa civiltà che finge di avere a cuore l’amore!
È difficile perciò districarsi nella giungla dei messaggi vecchi e nuovi sull’amore, per capire cosa si desidera dal punto di vista affettivo e cosa voglia dire realmente la compatibilità reciproca.
Val la pena di verificare se stare con qualcuno, in determinate circostanze, migliori davvero l’esistenza o la peggiori. L’instabilità personale e lo squilibrio vengono aggravati, infatti, da un vincolo casuale, dettato dal bisogno, con qualcuno che non sia in grado di svolgere una funzione di appoggio o di garantire reciprocità nel sostegno.
Chi si sente diverso o anormale, dà molta importanza al fatto di sentirsi accettato, al punto di aspirare solo ad ottenere il sì dell’altro scambiandolo per accettazione reale. Ma l’accettazione passa anche attraverso il no, cioè il fatto di stabilire delle condizioni per stare insieme, perché si prende sul serio la relazione. Se non si può dire no, non si può dire sì, sia agli altri che a se stessi.
Il sì che riceve, per esempio chi è Hiv positivo pare più importante di tutto il resto, perché viene fatto diventare la prova della accettabilità della malattia. Non credendo ciò possibile, se ne cercano continue testimonianze; l’altro è salvezza e via di fuga, al contempo carceriere e memoria della condanna, e lo si sottopone a esami e sperimentazioni, ponendo in secondo piano la questione della sua adeguatezza effettiva come partner.
Non sono poche le persone con Hiv che finiscono per creare coppie in cui non possono contare sul partner e devono addirittura sostenerlo, il che è francamente troppo quando sopraggiunge un aggravamento.
Il soggetto si accontenta, dice a se stesso che si appoggia sull’altro perché si appoggia sulla sua «accettazione», che gli consente una apparente dualità. Nei fatti però non può contare sull’altro per migliorare il proprio equilibrio nella convivenza con la sieropositività.
Vi sono tante coppie in cui il partner chiude l’accesso al percorso di convivenza con la malattia, perché funge da barriera che si interpone tra l’Hiv positivo e il mondo esterno, e quindi fa da garante di uno squilibrio e di un confinamento.
La collusione nel mettere il coperchio sugli interrogativi esistenziali è frequente anche nelle coppie formate da persone entrambe sieropositive. Quando compare in superficie il pensiero sulla malattia e la morte, l’altro si sente in dovere di coprire il disagio e sgomberare il terreno dalle domande.
Pensare insieme è una delle operazioni più difficili e impegnative, poiché si tratta di tollerare il pensiero altrui oltre alle sue emozioni, in vista di un percorso di riflessione e di elaborazione comune.
Stare con qualcuno sulla base della soddisfazione, quando le cose vanno bene, è relativamente facile, ma condividere i vissuti e i pensieri negativi nella sventura è una vera impresa.
D’altronde, provare disperazione o interrogarsi sul senso della vita in presenza di un altro è un’esperienza dura, poiché l’altro rappresenta, pur nel suo mutismo e nell’astensione da interventi, il testimone ineludibile della miseria umana conferendole ancora più realtà.
Naturalmente, proprio l’esistenza di tale testimone mantiene viva nello stesso tempo la speranza nella comprensione e nella compartecipazione.
La stragrande maggioranza delle relazioni, purtroppo, è segnata dall’impronta dell’aggrappamento e dal tentativo di mettere il silenziatore all’espressione delle inquietudini.
Ci si dovrebbe chiedere allora se sia poi conveniente stare con qualcuno, non in senso strumentale, bensì nel senso dell’utilità. Si tratta di utilizzare l’occasione della vicinanza con un altro essere umano, il quale, insieme ai problemi in più, dovrebbe offrire l’opportunità di un migliore adattamento alla vita e alla realtà.
In ogni caso è assurdo voler rinchiudere nella relazione di coppia la maturazione individuale. Gli attaccamenti sono funzionali nel momento in cui rendono possibili gli scambi con diversi interlocutori.
Non ha senso riversare tutti i bisogni e tutte le richieste nel rapporto con un solo essere umano, segregandosi in una sorta di cammeo d’amore sovente mortifero.
La persona prigioniera dello stereotipo della mancanza ritiene di aver bisogno di amore perché si sente vuota e crede che di non potercela fare da sola, non riuscendo a tollerare la coscienza di sé e della morte. Allora non si deve tanto uscire da se stessi e muoversi verso gli altri, quanto procedere verso l’interno ed entrare di più dentro di sé.
Solo dopo la conquista della propria interiorità, l’amore consente una sorta di ricongiungimento oltre l’identità, l’occasione di «trovarsi, perdendosi», benché come episodio saltuario, come momento in cui si può smarrire il senso della propria finitezza e dei propri confini.
Agendo sulla base dei riflessi condizionati si è portati a credere che i processi «riparativi» possano provenire solo dall’esterno, quindi a tentare di «accaparrarsi» le persone mediante rapporti sessuali o agganci di qualunque genere, per accumulare opportunità e poter «prelevare» fuori l’occorrente.
Ma quel che serve non può essere preso, in quanto per diventare patrimonio personale va ricevuto e contenuto. È inutile rubare agli altri ciò che non si sa dove tenere e non si può utilizzare positivamente: occorre rendersi capaci di ricevere e dare.
In una situazione in cui la minaccia alla sopravvivenza è concreta, quando i conti non tornavano neppure in precedenza, perché la funzione di adattamento alla realtà e a se stessi era stata menomata, è gioco forza ritrovare la bussola entrando più profondamente dentro se stessi.
La sofferenza e lo svantaggio fanno emergere aspetti della personalità molto negativi e sgradevoli (malevolenza, invidia, odio, ecc.). Tuttavia quel che troviamo nella nostra interiorità è la nostra storia, di cui dobbiamo avere cura, a maggior ragione se è stata dolorosa o tragica.
Occorre tenerne conto quando si tenta di edificare rapporti interpersonali a partire dalla coscienza della diversità o della malattia.
È necessario un tempo di sospensione e di verifica per acquistare una maggiore chiarezza sulle proprie difficoltà e sui propri bisogni, per fare dei gesti effettivamente orientati e non ridondanti o dispersivi, per evitare di ripetere le cose di sempre nelle relazioni affettive. Il bisogno e la mancanza vanno delimitati, fatti propri, resi autentici e non generici; solo in tal modo possono fungere da ponte con le altre persone.
I veri rapporti di attaccamento aumentano l’autonomia ma non danno l’autosufficienza, anche se quando si è sani si può arrivare a credere di essere autosufficienti.
L’autonomia in tal caso è capacità di tollerare la propria solitudine e la propria identità finita, come presupposto di una reale comunione positiva con gli altri.
Il primo passo è sganciare l’attenzione dal vissuto di urgenza per arrivare a uno sguardo di insieme su se stessi e recuperare l’autenticità nella propria vicenda umana. La sofferenza personale e la sperimentazione delle ferite profonde sono un patrimonio, un pieno e non un vuoto, una conquista irrinunciabile.
In genere si pensa che le ferite siano dei vuoti e si cerca di riempirli con elementi esterni. Alcuni arrivano a pretendere di essere risarciti di ciò che non hanno avuto, continuando ad attendersi il risarcimento a opera di altri, magari chiedendo le stesse cose che desideravano quando avevano cinque anni.
Sono cresciuti fisicamente, ma a livello affettivo sono rimasti nelle sabbie mobili della mancanza d’amore. Credere che una relazione sentimentale possa «guarirli» è un malinteso.
Per certe ferite la consapevolezza personale è obbligatoria, la crescita del soggetto deve avvenire in solitudine, pur con l’aiuto di figure capaci in concreto di essergli utili. Da ciò nasce la possibilità di relazioni veramente attuali, con persone a cui non si chiede più risarcimento per il passato, poiché si è preso atto che il passato è passato e che quel che si teme è già accaduto.
Così, per la oggettiva mancanza d’amore nell’infanzia, prenderne atto una volta per tutte è ciò che può aiutare a trovare amore nel presente, anzitutto arrivando a provare una profonda pietà per se stessi, senza aspettare che siano gli altri ad accettarci per quel che siamo.
Per chi non si accetta risulta incomprensibile l’accettazione altrui, di cui pure si sente il bisogno disperato. Chi ci ama può incoraggiarci ad amarci, ma spetta a noi poi arrivare fino in fondo.
Mattia Morretta (1996)
Testo originale in Sessualità e Aids: dal limite alla creatività, A77 Milano