Legami a rischio: Uno studio sulla vita affettiva e sessuale nelle relazioni con soggetti Hiv positivi a cura di Claudia Donvito e Mattia Morretta, ASL Milano, 2000
In queste tenebrose camere, dove vivo giorni grevi, di qua di là m’aggiro per trovare finestre (sarà scampo se una finestra s’apre ). Ma finestre non si trovano, o non so trovarle. Meglio non trovarle, forse. Forse sarà la luce altra tortura. Chi sa che cose nuove mostrerà. (C. Kavafis, Le finestre, 1910)
Precedenti e storia
L’interesse istituzionale e sociale per i congiunti di soggetti Hiv positivi ha avuto nel corso degli anni uno sviluppo discontinuo e spesso contraddittorio, portando soltanto in epoca recente ad individuare una popolazione portatrice di bisogni specifici e suscettibile di interventi diretti e non solo mediati.
Per molto tempo i partner e i familiari delle persone Hiv positive sono stati presi in considerazione solo in modo indiretto sia dal punto di vista medico che dal punto di vista psicologico. Il fattore mortalità (alta probabilità di patologia rapidamente ingravescente e pochi anni di vita in media dalla diagnosi di Aids) ha condizionato anche l’ottica degli interventi di educazione sanitaria resi necessari dalla trasmissibilità dell’infezione per via sessuale ed ematica. Gli operatori di area medica si sono concentrati sull’individuazione di trattamenti efficaci per le patologie correlate alla immunodeficienza e capaci di bloccare in maniera stabile la replicazione virale, dedicando ai congiunti del paziente Hiv positivo un’attenzione secondaria e parcellare in quanto finalizzata a renderli consapevoli delle implicazioni della diagnosi e partecipi delle esigenze terapeutiche.
I sanitari dei reparti di malattie infettive e degli ambulatori di screening si sono trovati ad occuparsi del problema delle informazioni relative alla vita sessuale e alla convivenza come impegno supplementare, rivelatosi spesso impraticabile non solo per le abituali difficoltà di presa in carico dell’entourage di ogni tipo di paziente da parte delle strutture sanitarie pubbliche, ma anche per le caratteristiche peculiari dell’infezione da Hiv in termini sociali e culturali (gruppi più colpiti già oggetto di pregiudizio o discriminazione, contesti familiari e relazionali destrutturati o patologici, tutela della riservatezza, risvolti anche penali della contagiosità, etc.).
I rari e frammentati interventi psicologici per i congiunti sono stati a loro volta condizionati dalla connotazione sociale della malattia e dalla sua rapida evolutività negativa; localmente sono state così sperimentate offerte di sostegno individuale e di coppia (o di gruppo a livello delle Organizzazioni Non Governative) motivate soprattutto dall’intenzione di ridurre la sofferenza provocata dall’impatto violento e traumatico della diagnosi e della malattia mortale, allo scopo di migliorare la capacità di tenuta e di convivenza del nucleo colpito.
Altre iniziative con importanti risvolti psicologici hanno riguardato l’ambito pediatrico dell’Aids (educazione delle madri Hiv positive e assistenza dei nati infetti) e la domanda di fecondazione assistita delle coppie discordanti (sperimentazione della purificazione del seme dell’uomo Hiv positivo).
Nella gran parte delle esperienze di aiuto psicologico (nel settore pubblico e nel privato-sociale), la dimensione relazionale è stata comunque concepita e analizzata dal punto di vista della persona Hiv positiva identificata come soggetto debole e vittima di drastiche coartazioni nell’espressione sessuale ed affettiva.
Nel complesso si può dire che, quando presi in considerazione e coinvolti dalle strutture di cura o dalle associazioni di volontariato, i familiari e i partner stabili sono stati soprattutto incoraggiati a collaborare al processo di adattamento del malato alla patologia e alle sue numerose complicazioni (dalla perdita di status al gravoso regime terapeutico), nonché sostenuti nell’elaborazione del lutto e dello stigma sociale ; talvolta, ai partner è stato inoltre fornito appoggio per accettare le limitazioni nella sfera sessuale e riproduttiva.
Evoluzione del fenomeno e conseguenze psicosociali
Le modificazioni intervenute negli ultimi anni nella storia clinica dell’infezione da Hiv, in particolare la riduzione della letalità della malattia e il controllo farmacologico della sua progressione, hanno comportato un cambiamento dello scenario generale in cui si collocano sia il soggetto sieropositivo e i suoi congiunti sia gli interventi potenziali a loro destinati. La nuova “natura” di patologia cronica e il prolungamento della vita hanno avuto e sempre più hanno implicazioni importanti in tutte le sfere dell’esistenza e in modo determinante in quella relazionale; l’elemento della trasmissibilità dell’infezione ne risulta enfatizzato, proprio in ragione della rinforzata o confermata agibilità sessuale della persona Hiv positiva.
Il diffondersi dell’ottimismo terapeutico sulla base della constatazione dei risultati dei trattamenti sui grandi numeri e la parallela (ma non direttamente conseguente) diminuzione della risonanza sociale dell’Aids, hanno contribuito alla normalizzazione delle condizioni di vita dei diretti interessati e del loro entourage.
La drastica riduzione del trauma della diagnosi (nella prospettiva della cura tempestiva ed efficace) e la notevole attenuazione dello stigma sociale (reazioni di intolleranza sostituite da una relativa indifferenza), hanno prodotto un crollo della richiesta di sostegno psicologico a tutti i livelli (compreso quello solidaristico, con chiusura o ridimensionamento dei gruppi di auto-aiuto) e persino al declino dell’interesse per le terapie “complementari”, a tutto vantaggio di una concezione riduttiva e pragmatica della problematica. La medicalizzazione dell’infezione da Hiv si è così accompagnata alla progressiva scomparsa dalla scena sociale e dai servizi territoriali di una domanda non sanitaria in senso stretto (comprendendo l’assistenza domiciliare erogata dalle ASL).
Eppure, proprio nel momento in cui aumenta l’articolazione degli atti relazionali (sessuali ed affettivi) delle persone Hiv positive, si impone il problema del contenimento vero e proprio del contagio e della sorveglianza dei soggetti implicati in rapporti più o meno stabili (tenendo conto per altro dell’ingente spesa sanitaria correlata attualmente al trattamento dei casi di infezione da Hiv).
Due fattori, tuttavia, concorrono attualmente a rendere meno probabili interventi educativi e psicosociali: la presa in carico pressoché esclusiva dei soggetti Hiv positivi da parte degli ambulatori ospedalieri e l’ottica prevalentemente terapeutica degli stessi. Ciò comporta, infatti, un rapporto medico-paziente focalizzato sulla compliance al trattamento e sui protocolli di ricerca, a scapito spesso persino della offerta e della verifica delle informazioni relative alla vita di relazione degli assistiti, dando ormai per scontata la conoscenza delle norme di comportamento e riducendo la cosiddetta prevenzione al consiglio di informare i congiunti e di fare uso del profilattico nei rapporti sessuali.
Il contatto con i partner ed i familiari nell’ambito ospedaliero è in genere minimale e comunque raramente sostanziale, poiché il contesto è normalmente inadatto e non predisposto alla presa in carico, pur solo consulenziale, dei congiunti dei pazienti. Pertanto, la pur auspicata normalizzazione dell’Aids dal punto di vista clinico e sociale rischia al presente di porre in secondo piano le implicazioni relazionali e persino epidemiologiche della malattia.
In effetti, la necessità di curare la patologia ha comunque oscurato la stessa ricerca e sorveglianza epidemiologica, poiché a tutt’oggi in Italia la conoscenza della diffusione della infezione e dei comportamenti sessuali nei gruppi più esposti al contagio è ancora molto generica ed approssimativa, al punto da non aver potuto dare luogo a studi e progetti coerenti e originali.
In particolare, per i partner (stabili, instabili od occasionali) di Hiv positivi, che costituiscono il gruppo in assoluto a maggior rischio, non si va oltre una definizione sommaria e talora aprioristica, inutilizzabile per qualsivoglia programmazione di interventi preventivi.
Conoscenza della popolazione e rete di servizi
L’esperienza della Città di Milano mostra concretamente l’inesistenza di un sistema pur minimale di monitoraggio coordinato relativamente ai congiunti di soggetti Hiv positivi, unitamente alla constatazione della disomogeneità (fino all’incongruenza e alla contraddittorietà) degli interventi informativi e di sostegno attuati vuoi negli ospedali e nei Centri Screening vuoi nelle ONG.
L’approfondimento delle caratteristiche del campione (comportamenti, uso di precauzioni, atteggiamenti nei confronti della sessualità, attitudini psicologiche, grado di compromissione sociale e psichica, etc.) rappresenta l’unica base plausibile di iniziative volte sia a contenere la diffusione del contagio sia a dare risposta all’eventuale domanda di salute psicofisica dei destinatari.
Da un lato, si tratta di perseguire una coerente logica preventiva, garantendo un lavoro accurato di definizione dei bisogni e dei tratti distintivi della popolazione in oggetto, soprattutto nei Centri territoriali dedicati allo screening Hiv e alle malattie a trasmissione sessuale, presso i quali converge la maggior parte dei soggetti a vario titolo implicati in rapporti con persone Hiv positive e al cui interno è quindi più probabile ipotizzare la creazione di spazi di consulenza ed educazione a loro destinati. D’altro lato, è in questione la verifica dell’opportunità e della fattibilità di interventi più propriamente terapeutici dal punto di vista psicologico e psichiatrico, individuando tipologie di bisogni, di situazioni relazionali e di soggetti passibili di specifici trattamenti.
La valutazione dell’utenza sulla base dei dati già noti, del bisogno oggettivo rilevato e della domanda espressa è il presupposto indispensabile per la programmazione di risposte qualificate, in grado di tener conto al contempo di finalità preventive e di esigenze terapeutiche nella relazione con una popolazione caratterizzata sia dall’elevata esposizione al rischio di contagio sia da alto livello di disagio psicologico e in molti casi anche da svantaggio socioeconomico.
Per i soggetti Hiv positivi e i loro congiunti portatori di grave psicopatia e sociopatia è inevitabile prima o poi l’impatto coi servizi territoriali (Ser.T, NOA, CPS) e nei loro confronti vengono strutturati per necessità numerosi interventi che non possono essere definiti terapeutici in senso stretto, trattandosi per lo più di operazioni di contenimento e barriera per limitare i danni all’esterno e all’interno del nucleo patologico. Per quanto indispensabili, i gesti di cura rivolti a tali gruppi rientrano tra le misure correzionali o repressive cui la collettività ricorre per far fronte al disturbo sociale correlato. L’Aids in alcuni contesti è solo un ulteriore o ennesimo sigillo su vite marginali e fallimentari, di per sé insufficiente a determinare trasformazione migliorativa; i relativi trattamenti sanitari rivestono perciò un significato riabilitativo o assistenziale, per tutelare la salute residua e del singolo e degli ambiti di appartenenza.
La vera e propria prevenzione, invece, deve e può riguardare l’utenza che afferisce volontariamente nei servizi per lo screening Hiv pur senza articolare la domanda di aiuto. Per tali soggetti è possibile identificare percorsi diversificati a seconda dei bisogni e del potenziale di salute, non solo in termini di mantenimento dello stato di Hiv negatività ma anche in termini di sviluppo di risorse personali.
Ciò presuppone la presenza nei Centri Hiv di personale qualificato e competente, oltre alla possibilità di lavorare in rete con altre strutture per un invio organizzato a forme specifiche di assistenza (Consultori Familiari, Unità Terapia Familiare, CPS, Ser.T, etc.). In particolare, l’attenzione va posta sui singoli e sulle coppie suscettibili di evolutività positiva (produttività e partecipazione sociale, creatività personale, maturità, etc.), fornendo loro appoggio, informazioni e strumenti per accedere a cure o esperienze costruttive.
Occorre considerare che in futuro diverrà ancor più rilevante il fenomeno della normalizzazione esistenziale dell’Aids, reso possibile negli ultimi anni dai successi terapeutici. Questo significa che molte persone si trovano e si troveranno di fronte alla necessità e alla possibilità di elaborare progetti di vita relazionale con aspettative simili a quelle altrui, pur in presenza di limiti oggettivi non ordinari nello scambio fisico e nella coscienza di malattia.
L’incombenza della morte e della patologia invalidante ha infatti caratterizzato fino a poco tempo fa sia i pazienti Hiv positivi sia i loro congiunti, portando entrambi nonché i loro referenti (operatori sanitari e psicologi) a pensare in termini di sopravvivenza. Si trattava comunque di vite a rischio, vissute sotto una costante minaccia e quindi senza reali prospettive o progettualità. La stessa enfasi sulla generazione di figli da parte di coppie con membro Hiv positivo, ha testimoniato soprattutto il prevalere di un vissuto di fine e di perdita, talora tanto urgente e disperato da condurre a tentativi di riproduzione ad ogni costo.
Va sottolineata l’importanza del coordinamento tra gli enti interessati per la riuscita di qualsiasi tipo di intervento. Nella maggioranza dei casi, in realtà, la responsabilità dell’integrazione tra le diverse forme di assistenza viene delegata/lasciata all’utente, mentre i servizi resistono o mostrano riluttanza nel mettersi in comunicazione tra loro (paventando perdita di potere o autorità e temendo l’aggravio dei compiti). Sicché, nei casi migliori, l’utente si trova rinviato da un servizio all’altro senza precisa definizione della presa in carico; nei casi peggiori, viene usato come ostaggio o tramite di una guerra non dichiarata.
In particolare, il ricorso a servizi diversi e senza alcun rapporto tra loro aumenta la frammentazione delle coppie discordanti per l’Hiv, depotenziando il lavoro di prevenzione e di assistenza eventualmente attuato sui partner secondo logiche e finalità non condivise e prive di strategie sinergiche.
Acquista, quindi, rilevanza ancora maggiore un lavoro educativo sul singolo o sulla coppia per migliorare le competenze sul piano dell’orientamento e della richiesta di aiuto. Una conoscenza più precisa dei propri bisogni e dei propri limiti determina aumento della capacità di cercare attivamente e infine ottenere risposte, trattamenti e cure, pur in assenza di una rete territoriale strutturata.
Il fulcro dell’intervento di consulenza o sostegno è infatti costituito proprio dalla trasformazione del bisogno oggettivo di aiuto in bisogno soggettivo, mediante la presa di coscienza della condizione di disagio o di malattia e la mobilitazione di risorse personali, superando l’aspettativa passiva di beneficio o il fatalismo vittimistico.
Ulteriore elemento di riflessione è l’opera di selezione dell’utenza portatrice di reale sofferenza e capace di collaborazione, quindi suscettibile di relazioni educative o terapeutiche. Una parte non trascurabile di utenti dei servizi per l’Hiv e le MTS è, in effetti, caratterizzata da abitudini comportamentali fortemente strutturate e relativamente immodificabili, a causa dell’età e dell’indisponibilità degli individui ma soprattutto dei meccanismi psichici che ne sono alla base (ad esempio, agìti sessuali che esprimono difese rigide o primitive nei confronti di gravi malesseri inconsci, oppure grado estremo di invischiamento relazionale).
Occorre controllare, pertanto, l’interventismo pedagogico, correzionale e terapeutico, prendendo atto di limiti strutturali e limitazioni oggettive. D’altronde, la stessa consulenza non può essere imposta o realizzarsi senza partecipazione dei destinatari. Indispensabile è la domanda volontaria.
Mattia Morretta (novembre 2000)