L’equilibrismo della vita nella sventura Corso formazione Comunità Exodus, Milano, 1994
La comprensione della dinamica psicologica e del vissuto propri di una condizione di disagio è spesso facilitata dalla "distanza", cioè dal punto di osservazione esterno. Il fatto di non essere coinvolti fino in fondo, in presenza di una sincera disponibilità alla immedesimazione, può consentire uno sguardo obiettivo ma partecipe sull'esperienza altrui.
Chi è malato dichiara di frequente di non essere capito e ritiene che sia a conti fatti impossibile per gli altri capire veramente cosa si provi ad esserlo. La questione è mal posta, poiché gli "altri" non possono sentire, però hanno la possibilità di scegliere di capire e a volte di aiutare anche il diretto interessato a conoscersi meglio.
Ogni esperienza viene all'inizio sempre "subita", in qualche modo, per poi essere "vissuta" e infine "compresa", benché non è garantito che ci si arrivi. Molti non hanno l'opportunità di comprendere ciò che stanno vivendo o hanno vissuto, a volte è chi sta accanto o intorno a non stimolare o non favorire l'elaborazione dell'esperienza di chi attraversa, letteralmente ad occhi chiusi, la sofferenza imposta con la forza dalla malattia. L'individuo può riuscire a trasformare il trauma in un movimento evolutivo grazie a circostanze più o meno fortunate in gran parte indipendenti dalla sua volontà.
La società e l'ambiente circostante agiscono generalmente in modo da disorientare gravemente le persone con Hiv, lasciandole per lo più sole e prive di bussola, laddove molte non possedevano una bussola neppure in precedenza e allora può trattarsi dell'occasione propizia per cercare di procurarsela. Il discorso sul sostegno, nonostante i travestimenti filantropici e scientifici, rischia di tradursi sovente in un'operazione ideologica fine a se stessa. È il modo in cui si usano le proposte culturali a determinare effetti positivi o negativi sulle persone.
Di solito si assiste ad una confisca del destino e alla espropriazione della possibilità di basarsi sui propri vissuti con grave danno per coloro che si affidano ai vari esperti di salvezza. L'elenco monotono dei disturbi che possono verificarsi nel decorso della sieropositività corrisponde ad una impostazione che pretende di ridurre l'esperienza personale al meccanismo psicologico; anche se l'obiettivo pare quello di aiutare a spiegare i fenomeni, alla fine lo scopo primario sembra quello di controllare i problemi, cioè gli interrogativi suscitati inevitabilmente dalla sofferenza. Si possono compiere abusi non solo con atteggiamenti discriminatori e manifesti intenti persecutori, bensì anche con attitudini dichiaratamente opposte di benevolenza e di supporto.
La vera attenzione determina crescita delle persone che ne sono "oggetto", però costa moltissimo ed è un lavoro faticoso e continuativo; più semplice è la "gestione", tenendo l'altro sotto controllo e spesso da vicino (sotto gli occhi) come nel volontariato. Non è pertanto ammissibile che i corsi di formazione funzionino da "autorizzazione a procedere" garantendo ai volontari o agli operatori gratificazioni e coscienza pulita. Anche quando abbiamo ottime intenzioni e ci siamo abituati a prestare aiuto agli altri, dobbiamo tener presente che non si finisce mai di capire quali motivazioni ci muovono e di aggiustare il tiro di quell'attitudine ad andare verso il prossimo che è anche un'arma pericolosa.
Per aprire le porte della comprensione ed entrare nella dimensione esistenziale delle persone con Hiv possono essere utili alcune chiavi di lettura. La prima questione è l’identità', la definizione di chi sono e che esperienza vivo. Nell'attuale contesto culturale, essere malati ed in particolare di patologie inguaribili o circondate da un alone di incurabilità equivale a vivere una esperienza di diversità, nella quale sui fondamenti biologici si innestano elementi antropologici.
Un'intera società, un insieme di soggetti accomunati da modalità di pensiero similari determina un'atmosfera "materiale" capace di condizionare profondamente i malati, forzandoli a definirsi solo in negativo. Nella seconda metà degli anni Ottanta si è dovuto lottare a lungo affinché diventasse di uso comune la dicitura "persone sieropositive" e fosse abbandonata la terminologia asettica o fiscale (infetti, sieropositivi tout court, ecc.). È stato fondamentale lavorare alla definizione dello status connesso alla sieropositività, a partire dal tipo di linguaggio usato per farvi riferimento, proprio in ragione dell'importanza del significato dell'Aids per la collettività. Del resto, la definizione della "umanità" è ai giorni nostri largamente trascurata e data per scontata, il che vuol dire che ci si passa sopra in senso letterale.
Pertanto, se io vivo un'esperienza di diversità d cui gli altri mi forniscono gli stereotipi, i modelli comportamentali, il linguaggio, il mio primo compito è quello di cercare di comprendere chi sono e cosa vivo tenendo conto del dettato altrui. Gli altri mi propongono di considerarmi un individuo infettato da un virus che devasterà il corpo a causa della distruzione del sistema immunitario. Vengo così sacrificato sulla pubblica piazza per indicare che la morte riguarda me e quelli come me; si apprestano i cordoni sanitari e la prevenzione nelle sue varie articolazioni allo scopo di tenere ben distinti i campi della salute-normalità e della malattia-diversità.
Anche le pubblicità sulle altre patologie sono esplicite in proposito, ve n'è una che mostra una candela accesa ormai prossima allo spegnimento: il malato terminale non può attendere, i sani devono "pagare" se vogliono che i territori restino distinti e non ci sia confusione o commistione. I malati terminali sono sull'altra sponda (o nell'altro mondo) e chiedono denaro ai sani colpevolizzandoli per il tramite delle organizzazioni umanitarie. Le associazioni per l'Aids si comportano nello stesso modo molto spesso, senza rendersi conto (in apparenza almeno) che, mentre esigono soldi per la ricerca e l'assistenza, recintano col filo spinato il campo del dolore rendendolo inaccessibile a colpi di pietismo e bontà.
La malattia rimane la diversità assolutamente indesiderabile che va confinata nella riserva ai confini della società o nei suoi spazi "protetti". Chi è malato non fa più parte inesorabilmente del mondo dei sani e viceversa, quasi si trattasse di due specie diverse. Nonostante salute e malattia non esistano come condizioni assolute, veniamo forzati a credervi volenti o nolenti. Un'altra pubblicità augura al lettore del messaggio di essere colpito da una grave malattia neurologica e ciò nell'intento di coinvolgere ed avvicinare al problema dei malati l'indifferente ed egoista cittadino sano. Si è dunque giunti al punto che per ricordare all'uomo medio l'esistenza della malattia occorre prenderlo a sassate e colpevolizzarlo per un "bene" (cioè una ricchezza) che possiede soprattutto perché gli viene "attribuito". Il modo in cui la malattia è percepita a livello collettivo non è messo in discussione da simili iniziative filantropiche. Si crea via via una sensazione di fastidio e di estraneità che impedisce di riflettere sul significato della malattia e della stessa salute. Per chi è Hiv positivo, allora, il primo problema è riconoscersi, capire in cosa consista la sieropositività, recuperare la centralità del vissuto e ridefinirsi, da soli o meglio ancora con l'aiuto di qualcuno. Soltanto persone particolarmente avvantaggiate da esperienze costruttive precedenti possono elaborare in completa autonomia i significati personali e culturali associati alla diversità. In un primo momento la sofferenza grave abbatte qualunque individuo, lo scaraventa a terra; per rialzarsi c'è bisogno, non tanto della mano concreta di qualcuno, quanto della sensazione di un "ambiente" disposto a sorreggere e a far recuperare la posizione eretta, anche se non c'è garanzia di salvezza. Indietro non si torna, la persona di prima non ci sarà mai più, ma questo è il segno di ogni individualità: la storia di ciascuno non è che il susseguirsi di cambiamenti continui ed irreversibili. Questo è la storia , assolutamente irripetibile, e via via che procede crea insieme all'esperienza la memoria: è stato e non sarà più. Molti non considerano rilevante l'aspetto dell'interconnessione tra ciò che si vive e ciò che pensano gli altri. Oltre alle reazioni, sono anche i pensieri e le fantasie altrui, persino a grande distanza, sulla malattia e sulla morte, a influenzare materialmente le persone malate. Si determinano movimenti collettivi di idee che portano a crocefiggere e sacrificare alcuni per conto e in nome della comunità oppure al contrario danno origine a tentativi di riscatto sociale. Se non esistesse l'interdipendenza, non sarebbe possibile neppure il processo di umanizzazione che l'Aids ha innescato in tanti paesi Occidentali. Benché spesso prevalgano sentimentalismo e commozione, la spinta verso l'umanizzazione della società c'è stata e se ne vede qualche frutto anche in Italia. D'altronde, oggi il discorso sulla morte è uno dei pochi in grado di sostenere l'utopia di un cambiamento in senso umanitario della società Occidentale, poiché, al di fuori dell'ambito ideologico della politica, può far convergere vasti settori sociali sui temi della valorizzazione dell'uomo e della spiritualità. La gran parte delle persone con Hiv, disorientata e stordita, deve abbracciare l'identità che le viene proposta anche sotto mentite spoglie. I più si arrendono all'impietosa medicalizzazione, nel migliore dei casi dopo una lotta piuttosto strenua, fatta di fughe e avvicinamenti, un corpo a corpo periodico con la realtà dell'Hv difficile da materializzare. La sieropositività infatti è una condizione ai confini della metafisica, un po’come nei racconti di Kafka in cui all'improvviso cambia la definizione di un elemento e l'individuo si trova "colpevole" di qualcosa di impreciso e trasportato in una dimensione alternativa, pur non potendo dire su cosa poggi concretamente il mutamento. Non resta che abbracciare la definizione fornita dalla medicina, imparare la terminologia scientifica che parla di infezione virale ed elenca un insieme di particolarità e conseguenze biologiche, di cui pure è importante diventare consapevoli. Bisogna accettare di consegnarsi ad una logica militaresca in cui con l'uso di farmaci si combatterà contro la malattia indipendentemente dalle persone malate. L'attenzione dei sanitari è rivolta alla malattia non ai malati, sono le patologie a costituire oggetto di applicazione; e poiché il modello prevede che la malattia si estranea rispetto alla persona che ne è affetta, il corpo può essere aggredito nell'interesse del paziente. Ne deriva la presunzione di poter attaccare la malattia senza colpire l'uomo malato, il che è impossibile dato che non esiste malattia senza persona (o essere vivente).
Poter contare sul conforto e confronto di uno "specchio" aiuta a ricostruire un'immagine positiva e a ridefinire l'identità.
Raramente, d'altra parte, vengono indicate strade che siano qualcosa di più di blande consolazioni. Mi pare accada anche per le terapie complementari o naturali accompagnate da messaggi grossolani o competitivi. La concezione e la definizione della salute e della malattia possono essere identiche, pur cambiando le proposte terapeutiche e filosofiche. L'identità di "paziente" è una specialità degli americani, che sono bravissimi nel delineare la fisionomia del malato consumatore sofisticato di sanità, consapevole dei diritti e agguerrito sul piano della politica sanitaria. Resta da definire per quale "salute" e quale "umanità" valga la pena di lavorare.
A proposito di Aids sono consentiti solo discorsi sui bisogni sanitari o sociali, quindi sul versante medico e su quello della marginalità. Alla fine l'unica cosa di cui non si parla, perché pare superflua o addirittura controproducente per i diretti interessati, è il contenuto umano dell'esperienza: cioè proprio quei contenuti universali che potrebbero essere compresi da tutti grazie alla facoltà di “immaginazione simpatica” e al patrimonio storico-culturale.
In tal caso, però, sorgerebbero altre difficoltà, in quanto chi ha capito non può evitare un cambiamento, mentre chi ritiene di dover spiegare la realtà incomprensibile può eludere la questione del cambiamento. Porsi in rapporto con l'altro con l'intenzione di capirlo davvero, comporta non solo un lavoro faticoso ma anche un effettivo mutamento nella propria esistenza: tener conto dell'altro, degli altri. Gli altri: che farne? Quando ce lo si pone come interrogativo diviene inquietante e terribile, gravido di conseguenze perché occorre, per esempio, pensare che si ha di fronte una persona che può essere Hiv positiva, malata di cancro, omosessuale, eccetera. Tener conto costantemente della "differenza" nei rapporti interpersonali è una fatica ai limiti della sopportabilità: tener conto degli altri in noi e di noi negli altri.
Non è un problema di altruismo o di egoismo, che sono presenti in tutte le azioni umane, bensì di consapevolezza dell'irriducibilità dell'alterità: io non posso essere nella condizione dell'altro, eppure non posso vivere senza tener conto delle cose che l'altro rappresenta anche per me. Il problema dell'identità si traduce dunque in un lavoro artigianale che dura una vita e non finisce con la morte, perché una parte continua con coloro che rimangono.
Da che mondo è mondo la coscienza dell'identità e della morte è causa di un'angoscia specifica per l'uomo, benché si possa affermare che l'inconscio non conosca la morte e per esso valga una sorta di a-mortalità. L'immortalità infatti presuppone la consapevolezza e l'elaborazione di una strategia rispetto alla morte. Nei suoi fondamenti biologici la vita procede con "noncuranza" creando una resistenza al confronto vero e proprio con la morte. La coscienza della mortalità non distrugge comunque la convinzione "profonda" della continuità che si radica nell'appartenenza al mondo animale. La coscienza di sé conduce l'uomo alla problematica dell'auto-riconoscimento, dell'accettazione e della valorizzazione, della pietà o dell'odio di se stessi.
Da qui il tentativo di cambiare oppure di adattarsi o rassegnarsi al proprio patrimonio, poiché non è dato di realizzare tutto ciò che si pensa o si desidera. A dispetto delle nostre fantasie e consolazioni, le possibilità di "grandezza" sono poche. Ci confortiamo con i "se volessi" e "se voglio posso", ma nel tempo le opportunità si riducono drasticamente. Il possibile è vasto solo per poco e si ridimensiona inevitabilmente, mentre dovrebbe aumentare la possibilità di scegliere tra concrete occasioni di vita: l'imperfezione reale in cui possiamo vivere e realizzarci.
La coscienza di sé è coscienza della propria finitezza: io sono io e non posso essere un altro. Al contempo è illuminazione della propria libertà: la mia storia in parte dipende da me. Il problema morale relativo alla responsabilità esistenziale è ineludibile e nessun tecnicismo psicologico o sociologico può risolverlo. Quanto e cosa nella mia vita dipende dalle mie scelte? Quanto sono cosciente della mia interiorità?
I più cercano vie di fuga per sottrarsi alle domande. Ciò spiega anche una parte dei vissuti di colpevolezza associati alla sieropositività e non determinati dalla discriminazione sociale. Nell'accettare di vivere vi sono precise responsabilità, vivere è più un dovere che un diritto, rispondiamo dell'uso del patrimonio che ci è stato affidato e non abbiamo scelto. Molti si trovano, come in una novella di Pirandello, davanti ad una porta di casa che non riconoscono: non hanno sbagliato porta, hanno sbagliato vita. Improvvisamente si rendono conto di aver vissuto una vita impersonale o di aver sospeso nel nulla la propria esistenza per lunghi anni.
Nella tossicodipendenza sembra tipico continuare ad avere per anni e anni solo pseudo-esperienze, trascinarsi in una vita in cui non accade nulla a livello emozionale profondo; quando cessa la dipendenza, dopo la comunità, la persona pare tornare al punto in cui era prima di ricorrere alla droga pur avendo imparato la lezione dell'addestramento a una condotta "normale". Quegli anni di droga paiono una parentesi, una specie di "sospensione" del percorso esistenziale, un tentativo di frenare o fermare il ciclo vitale e maturativo.
La coscienza di sé non può che portare alla coscienza della propria mortalità: la vita inizia e si conclude dopo aver descritto una parabola. La fine enfatizza il senso del tragitto tra la vita e la morte. Quanto vale e che senso ha il cammino? Che dono effimero è la vita, e come è difficile spenderla bene senza consumarla vanamente e senza rifiutarsi di usarla come dotazione!!! L'obiettivo di ogni maturazione, infatti, è quello di arrivare a decidere l'assunzione della responsabilità della propria esistenza.
La sieropositività e l'Aids trovano una specificità drammatica nella continuità della coscienza. Poche esperienze, soprattutto negli ultimi decenni nel mondo occidentale, sono associate a una tale costrizione ad essere coscienti di sé, della possibilità di finire, della morte annunciata. E per un tempo così lungo, un tempo utile per la prevenzione delle malattie e per la tutela della salute, però anche un tempo di costante e sistematica coscienza.
L'incertezza non viene mai meno nella vita di ogni uomo, ma in questo caso c'è un qualità diversa di consapevolezza. Tutti sanno che si muore e ne hanno una percezione minimale ineliminabile; la persona con Hiv è tuttavia costretta a un pensiero brutale e imponente sulla propria morte di cui discorrono pubblicamente gli altri con molta disinvoltura. La continuità della coscienza è qualcosa di più e di diverso dalla coscienza estemporanea che ci coglie in momenti di lucidità o di dolore. Le molte prove della sofferenza ci derivano dagli assaggi di morte rappresentati dalla crudeltà, dalla ingiustizia, dalla privazione, esemplificazioni della lotta per la sopravvivenza che fa da sfondo all'esistenza. In tali momenti percepiamo e comprendiamo la verità, ma non si tratta di una percezione duratura, continuativa come accade nell'Aids.
Alcune persone con Aids, per varie circostanze (personali, famigliari o sociali), riescono a intraprendere il lavoro di accettazione della consapevolezza e a ricavarne elaborazioni e conquiste non solo private. Di fatto, viviamo sempre immersi in un ambiente e quindi molte possibilità o impossibilità dipendono dalla "circolazione" di sensazioni, di aspettative, di contenuti. Allora un altro grande problema è il ponte, cioè la vicinanza-distanza e il collegamento tra l'uno e gli altri.
L'identità è una forma di solitudine e la coscienza di se stessi è anche coscienza della impossibilità della fusione con gli altri: qualunque cosa accada e qualunque sia il sentimento provato, noi restiamo dis-giunti, in una condizione di solitudine radicale. Con la nascita si determina una separazione che resta per tutta l'esistenza il segno della identità. Un tempo il termine "individuo" significava non divisibile dal resto, oggi invece significa ben distinto dalla massa. In realtà, sono validi entrambi i significati perché, pur vivendo sempre in relazione con gli altri, esiste comunque una separatezza, una solitudine ontologica che è impossibile compensare.
Siamo spesso terrorizzati dalla consapevolezza di essere isole , raggiungibili a nuoto o con imbarcazioni di fortuna ma comunque isole, anche quando si vive circondati da un mare di generosità (cosa del resto rara). Molti fanno di tutto per non percepirsi distinti e lontani dagli altri soprattutto fisicamente. Si dà, del resto, molta importanza alla possibilità di comunicazione attraverso il corpo e ci si aspetta uno sconfinamento non realistico. Come per ogni tipo di materia, la corporeità rende possibile soltanto una parziale vicinanza.
Emergono dunque il tema della esclusione dalla società in generale, che non vuole fare i conti nella quotidianità con i malati; la sfiducia-fiducia negli altri; il non sentirsi più accettabili ed integrabili; non poter più trovare partner sessuali o l'amore, eccetera. Come faccio ad avvicinarmi agli altri essendo "proiettato" lontano?! Non è solo la reazione della collettività e dei singoli a scagliarmi a distanza; è anche la coscienza che ho di me stesso perché essa mi fa individuare come persona "sola e lontana", mi fa percepire quanto possa essere vasto lo spazio tra gli uomini.
Alcuni cercano allora di "aggrapparsi", di risolvere fisicamente il problema della separatezza, magari mediante la sessualità, oppure si avvinghiano emozionalmente ai congiunti. Altri radicalizzano la separazione e la lontananza ritenendosi ormai irraggiungibili: tutte le corde lanciate dagli altri cadono nel vuoto, i segnali sono ovattati, inutile parlare o tentare di comunicare.
Le due risposte principali alla minaccia della morte sono le medesime nel corso dei secoli: più avere o più essere, più corpo o più spirito. Il discorso sulla castità, in effetti, non riguarda propriamente l'astensione dagli atti sessuali, ma la posizione che l'uomo assume rispetto alla propria identità nella relazione con il mondo. La sessualità è uno strumento di relazione tra le persone, nonostante molti la considerino un "valore" in sé, quindi costituisce uno dei ponti che possono mettere in comunicazione e avvicinare. Tante volte si tratta di un falso ponte, che mantiene intatte le distanze e conserva l'estraneità nonostante il congiungimento fisico.
Al contrario, può verificarsi intesa e comunicazione anche a grande distanza fisica, con trasformazione del sentimento di solitudine. Il pensiero "dedicato" (tra cui anche la preghiera) produce sempre qualcosa grazie ad una speciale capacità di attenzione che richiede una dedizione sia materiale sia spirituale.
La coscienza di sé nella malattia è pure coscienza di essere pieni di cose cattive e vuoti di cose buone. Ci si trova svuotati della salute, del benessere, della sessualità, della seduttività, del potere, cioè di tutti quei "beni" che ci vengono indicati come carte da giocare per vincere nella vita. Inoltre, al contempo ci si riempie di tutto quello che nessuno vuole: patologia, dolore, diversità, vergogna, morte, debolezza.
Ciascuno di noi ha avuto e ha nel corso dello sviluppo il problema di venire a patti con le cose "cattive" dentro di sé (la sporcizia, i sentimenti sgradevoli, l'odio, l'invidia, la gelosia), ma in questo caso il male è concretizzato e condensato nell'esperienza di essere abitati da un "nemico" con cui si rischia di identificarsi. Alcuni vissuti universali acquisiscono una immediatezza tragica, perché rendono materiali molti fantasmi e incubi. Tutta la personalità finisce per confluire nel male attraverso l'imbuto dell'Aids.
Uno dei lavori più importanti perciò è separare il problema della sieropositività da quelli che sono gli aspetti della personalità, fare ordine in tale groviglio. Tutto sembra convergere in questa materializzazione del male: sono posseduto dalla sofferenza, dalla deformità, dalla morte, mentre perdo salute, beni, vita. I malati per la strada e nei luoghi pubblici mostrano i segni inequivocabili della sofferenza e fanno paura perché ricordano che essa esiste, ovunque, con l'uomo. Esiste anche in chi non ne porta i segni distintivi e non è malato.
La materializzazione della “macchia” interiore che appare in superficie inquieta sino al terrore, può diventare occasione di una metamorfosi perché nella dis-grazia c'è sempre nascosta una grazia. La sventura che viene "dedicata", di cui la persona si appropria, diventa una chiave per sé e per il mondo. È difficile, non impossibile: la realtà è anche intessuta di fiabe. L'Aids è una tragedia composta di tanti elementi, tra cui la possibilità della grazia che passa attraverso il riconoscimento e l'accoglimento del destino.
Molto importante è il tema della punizione enfatizzato dall'aspetto della sessualità diversa e dalla tossicodipendenza, che paiono segnali di una "volontà" di sperperare la vita. Tantissime persone con Hiv ancor prima faticavano ad accettare le regole e si attardavano in trasgressioni caricaturali. Questa è senz'altro una aggravante, perché i malati più svantaggiati sono quelli che non sono riusciti a venire a patti con la propria identità e la responsabilità esistenziale.
Il problema della colpa esiste comunque ed è sempre esistito nella malattia, tutta l'epoca pre-moderna ne è stata pervasa: l'uomo malato ha commesso qualcosa che ha scatenato l'ira degli dei o ha portato disordine nel cosmo. La vita è governata da un insieme di forze complementari, che si contrastano e si compensano di continuo. Il significato pedagogico della malattia è chiaramente delineato nel cristianesimo e in altre religioni, quale via d'accesso ad una dimensione sacrale. Cosa dice la malattia di quest'uomo? E' possibile tramutarla in qualcosa d'altro? La malattia mette in comunicazione con energie superiori che vanno ben al di là dell'esperienza del singolo individuo, vulnerabile e minuscolo nel gioco di forze che lo sovrasta.
Nella visione moderna la malattia diventa patologia, le "cause" vengono cercate, trovate e spiegate nel mondo fisico (o psichico) senza rapporto con significati metafisici. Il segno di quanto insoddisfacente sia il modo scientifico di interpretare le malattie è la diffusione della superstizione in questa epoca di orgoglioso razionalismo. L'idea del malocchio, per esempio, esprime la convinzione che le intenzioni malevole diano origine a "energie negative" che circondano e influenzano chi ne è l'oggetto, potendo addirittura provocarne la morte.
Il fenomeno non è riducibile a una questione di arretratezza culturale o di ignoranza, anche perché modernità non è una parola magica e non apre migliori prospettive di comprensione. Vi sono in ogni caso fantasie e pensieri centrati sulla "punizione" e che agiscono nella vita dell'individuo Hiv positivo anche quando ne è inconsapevole; al punto da indurlo a mettere in atto esorcismi e gesti volti a ridurre il maleficio. Molte delle risorse degli Hiv positivi sono dedicate a situarsi in una dimensione magica, mediante atti ritenuti capaci di influenzare la sorte e correggere la rotta, modificando gli equilibri sulla bilancia.
La speranza comunemente intesa fa appello a un viraggio della ruota, ma rimane interna alla logica e alla realtà nelle quali si è verificata la sventura. Affidarsi all'insperabile, invece, è un'altra cosa, perché dà per scontato che non c'è speranza e invoca una dimensione che supera la necessità delle cose. Speranza, del resto, è una parola che viene usata a sproposito in molte circostanze. L'idea che si possa vivere senza speranza e senza disperazione non è ritenuta di solito abbastanza consolatoria. Eppure, chi vive nell'ottica della speranza soffre nei fatti moltissimo a causa di un sottofondo di disperazione.
Senza una chiave di lettura diversa da quella puramente scientifica sfuggono e risultano incomprensibili molte cose fondamentali. Occorrono allora altre prospettive in cui, per esempio, il significato pedagogico e personale della malattia schiuda opportunità di crescita sul piano psicologico ed etico. La patologia è uniformante ed omogeneizzante, rende tutti i pazienti simili e interessa proprio perché sulla base dei sintomi comuni consente di assemblarli riducendo la componente individuale e soggettiva.
Ne deriva la passione per la statistica e la casistica, grazie alle quali oggi si fanno molte profezie di morte.
Che senso ha profetizzare morte o salvezza delle persone mediante un linguaggio scientifico?! Ha davvero senso affidarci alla medicina e alla scienza che, mentre ci liberano dall'ignoranza, ci incatenano alla superstizione mascherata? È molto difficile recuperare controllo ed equilibrio quando si è malati e allora può fare comodo spostare sulla relazione con il medico e con i parenti il problema della responsabilità. Su questa strada, però, difficilmente possono verificarsi cambiamenti costruttivi.
Cosa accade, in effetti, dopo la diagnosi di sieropositività o di Aids? In genere, solo tentativi di porre riparo, rammendi e ricuciture dell'integrità perduta, perché si presume che quella di prima fosse integrità e non sia più possibile restaurarla. Altrimenti, sono attese solo ripetizioni e involuzioni, specie quando già in precedenza la "normalità" era impossibile. Tuttavia le crisi sono grandi occasioni di mutamento, sono il segnale della necessità del cambiamento.
Le crisi esistenziali e psicologiche rappresentano momenti in cui diviene necessario e quindi possibile un mutamento profondo: o si ritorna allo pseudo-equilibrio di prima mettendo a tacere il nuovo, oppure si procede verso un equilibrio più complesso attraversando lo squilibrio guidati dalle voci di dentro. La maggior parte delle persone con Hiv ripete, tende a comportarsi in modo conservativo e inerziale.
La prima reazione infatti è ricorrere alle difese abituali e auspicare un ritorno allo stato antecedente: voglio essere come ero ieri, ritrovare la normalità. La normalità è concepita però in maniera idealistica (normali come sono gli altri in generale, normale come deve essere la vita!!). Alcuni preferiscono mettere in campo il trasformismo al posto del processo di cambiamento, perché cambiare è più difficile e doloroso. Rientrano in tale meccanismo una serie di tattiche (per es., l'alimentazione, la religiosità, ecc.) che, pur sembrando rivelatrici di una motivazione al cambiamento, restano per lungo tempo giochi di prestigio e simulazioni gravati da un fatalismo granitico di fondo.
Non si cambia in fretta, neppure dopo un trauma che arrivi alle radici dell'essere. Non è vero naturalmente che l'Aids faccia diventare "buoni" o "migliori". La malattia e la sofferenza probabilmente fanno diventare tutti più "cattivi", poiché nulla come la sventura produce egoismo e sentimenti sgradevoli con cui è anche gravoso convivere. Non si capisce perché da sani dovrebbero esserci meno motivi per essere buoni rispetto alla malattia.
L'aiuto reciproco nel disagio è molto raro, perché la comprensione nella disgrazia è ostacolata dall'enfasi su di sé come vittime. È vero però che il dolore scava in profondità, e nel corso dello scavo possono emergere, insieme ai sassi e ai rifiuti, anche degli oggetti preziosi, se si concepisce l'idea di tale possibilità. Quasi nessuno però pensa che vi siano tesori nascosti nella condizione dell'uomo malato. L'umanità viene radiografata dalla malattia, che si rivela una vera prova del nove della personalità. È facile apparire in modo positivo quando si è sani, belli, giovani e potenti. I fili di cui è composto il nastro della personalità individuale si rivelano quando si comincia a soffrire e a decadere.
Non ci si deve stupire perciò delle violenze e degli abusi che si verificano nei rapporti interpersonali nel corso della malattia, il che non significa accettarli supinamente. La differenza sostanziale tra piacere e dolore riguarda le conseguenze in termini di interrogativi: il piacere non chiede perché, il dolore sì, sempre. Perché soffro? Perché esiste la sofferenza? Tali domande aprono spiragli di comprensione e fanno del dolore sempre un problema di senso.
Che lo si affronti con tecniche mediche o psicologiche, il dolore rimane una problematica esistenziale, quindi filosofica. Karl Jaspers in uno scritto autobiografico sostiene che il malato ha soprattutto un problema di libertà. Quando la malattia occupa il tempo della vita, diventa vita, è vita malata, non essendoci più estraneità tra l'una e l'altra. Come si può essere liberi nella necessità, sani nella malattia?
Nella sieropositività la medicalizzazione spinge a vivere in attesa di un evento catastrofico o concentrati nel tentativo di prevenirlo. Diventa un'impresa pertanto dedicare tempo ed energie a trovare e mantenere un equilibrio tra i due estremi della identificazione totale e della estraniazione totale rispetto alla malattia. Da un lato c'è chi rifiuta la malattia negando di essere malato: non ho niente a che fare con la malattia, la mia essenza è altrove. Dall'altro lato c'è chi si identifica fino in fondo con la malattia: sono malato, è finita. Tutti giungono a toccare ciascuno dei due poli per un periodo più o meno lungo nel tentativo di trovare un adattamento, e si pongono il problema di come fare a restar sani e far progetti di crescita senza dimenticare la malattia e la morte.
Ci può essere progresso emozionale, psicologico, umano, mentre si regredisce da tutti i punti di vista?! Che la persona malata lo voglia o no, e che lo vogliano o no i congiunti, ci sono momenti in cui il processo di umanizzazione traspare senza possibilità di equivoco. Le verità e i contenuti che il malato ha appreso si colgono nella comunicazione, anche senza il ricorso alle parole. Non ci sono parole, del resto, per alcune verità e consapevolezze.
Ogni malato ha da scongiurare un pericolo speciale: quello dell'impoverimento, della riduzione al vuoto comunicativo. La sfida di ogni malattia è adattare la croce a se stessi, affinché sia possibile portarla con dignità. Molte persone con Aids sono state distrutte da croci spropositate per le loro spalle in quanto costruite da uomini ostili corsi in aiuto del destino. Adattarsi alla croce su cui si è o si viene crocefissi è un compito che riguarda tutti, nessuno escluso.
Mattia Morretta (5 Aprile 1994)