Lo stato delle cose e dell’arte sulla terra

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Lo stato delle cose e dell’arte sulla terra

La poesia come miglior vita

Parabola sull’umano vivere tra veglia e sonno, la seconda raccolta di versi (Così vanno le cose sulla terra, Ibiskos Ulivieri) pubblicata da Caterina Galizia, psicoterapeuta e scrittrice milanese originaria della Calabria, è un inventario di memorie viaggianti “sul legno ambrato” della poesia. Un libro votato alla duplicità e alle differenze, composto da cinque sezioni che sono stanze nelle quali si è invitati a entrare per un attimo, socchiudendo gli occhi.

Prima dell’esilio mostra le cartoline del passato remoto nel regno onirico della Locride, col testo a fronte in dialetto. Distanze interiori fotografa le cesure relazionali e le lontananze in noi congenite. Morza’ i cori (Pezzi di cuore) fa suonare il carillon della maternità, dal canto di morte del primo concepimento alle ballate dei figli successivi. La goletta svela il fine comunicativo poetico: affidare alla corrente delle pagine la lettera-testamento per la propria genia, confidando di giunger un domani a più estese rive. Parole non astratte o accademiche, bensì distillate dal quotidiano per far rifiorire la vita nell’avvenire. Tra ricordi e amnesie infine, muove nell’adesso i passi del “valzer del doman perduto” e della “libertà di non restare”.

Con l’ausilio della bacchetta magica Galizia duplica patrie, nomi, case, professioni, nonché approcci e letture, nord e sud dei costumi e della psiche. E pone sotto il segno della gemellarità astrale l’attitudine al doppio registro, che tiene i conti della coesistenza degli opposti, senza mescolanze o trasformazioni, se mai passaggi a nuoto tra due rive del medesimo fiume.
Magnifico incanto delle premesse e danno irreparabile in agguato, parvenza etica della vita e sua feroce immoralità, “brutalità del reale e dolcezza del sogno” generano l’esigenza di ritrovare senso compiuto e tonalità affettiva grazie alla morale di una favola.

L’autrice rivela difatti di aver saputo sin da bambina cogliere il Bello e per tale via desiderare il Bene. Compreso che un attimo è al contempo “stupefatto di sole” e “imploso di dolore”, d’istinto si è data il compito di vedere nell’orrore l’errore, che prima l’immaginazione e poi il linguaggio ambiscono di correggere. Perché l’artista, più che creare qualcosa di nuovo, vorrebbe rimediare, accomodare, migliorare il prosaico e luttuoso reale.

Di particolare fascino il gioco delle parti tra italiano e calabrese, mondi paralleli logici e verbali, preistoria e storia, versioni che non è possibile giustapporre. Il dialetto arcaico, roccioso, assolato, gravido di malocchio e di silenzio “profumato di miele” che spaura, produce un ulteriore sdoppiamento, lo specchio non riflette fedelmente, introduce variazioni, parla e dice altro di sua iniziativa. Sfumature di significato e di suono, visioni prodotte da un groviglio di vocali o di consonanti.

Perché la nostra terra, ci ricorda la saggia Galizia, è un luogo sacro come un tempio sull’orizzonte dell’eternità: “Tornerà, torneremo / Àvi a tornari, / avimo tutti a tornari / Succhieremo dai fichi / dolci lattici impuri”.

Mattia Morretta