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Mentale e corporale

Dovrebbe essere tutto così semplice e invece non c’è niente di più complicato. Una battaglia senza esclusione di colpi viene spesso combattuta dentro di noi, persino a nostra insaputa, è quella insensata fra la mente e il corpo, le parti alte e le parti basse, la ragione e l’emotività, la razionalità e la fisicità.

Ciò che diciamo con le parole è molte volte in contrasto con quel che comunichiamo con i gesti, la mimica e la pelle. Talvolta riusciamo a percepire che qualcosa in noi non vuole seguire la strada intrapresa dalla coscienza, fatichiamo a capire che esistono altre possibilità di conoscenza oltre a quelle prospettate dal pensiero. Allora per paura e per orgoglio mettiamo a tacere i dubbi e le sofferenze, ma prima o poi i nodi interiori chiedono di esser sciolti.

L’inimicizia

Il corpo sembra destinato a una lunga serie di separazioni e riconciliazioni. Lo concepiamo infatti solo come polo di una antitesi: corpo-anima, corpo-cuore, corpo-mente, concetti per lo più fumosi, che rimandano a entità non ben definite o definite grazie a un gioco di opposizione. La storia corporea è costellata di prigionie, ricatti, ingiunzioni al silenzio, e di converso ribellioni, riscatti e grida.

La nostra cultura si è edificata sull’abiura della corporeità identificando in essa l’elemento da sacrificare per garantire l’evoluzione e il progresso. È nell’antica filosofia greca che troviamo l’origine di una “condanna” che ancora scontiamo, poiché è il pensiero platonico ad aver dichiarato l’in-essenzialità del corpo e ad aver fissato nell’anima (psiche) la sede dell’identità. Il cattolicesimo ne ha fatto poi il nemico da battere (e flagellare), l’involucro spregevole, la prigione dello spirito.

La scienza moderna non gli ha riservato sorte migliore rendendolo oggetto da misurare, sezionare, studiare ed interpretare. Ogni disciplina scientifica ha avuto il proprio organismo da leggere e manipolare, sicché quando pensiamo al corpo adottiamo i modelli precostituiti della chimica, della fisica, della biologia, della medicina e così via.

Il corpo bloccato in uno schema, per quanto magnificato per le sue meraviglie, resta però qualcosa di estraneo o di morto, rispetto al quale la coscienza si pone come uno studioso apparentemente imparziale. Il corpo vissuto e che vive, in effetti, per noi è un problema. Che fare di questo miscuglio di carne e sangue, di questo ammasso di organi e apparati, di questa promessa di cenere? Le risposte prevalenti in passato sono state: espellerlo, ridurlo all’obbedienza o studiarlo, in ultima analisi tenersi a distanza, restarne al di fuori, sospettare dei suoi messaggi.

Il c’era una volta della corporeità racconta tuttavia di un mondo primitivo in cui l’identità umana si fondava sulla sua sostanziale indivisibilità. L’uomo è un corpo e con esso si esprime, direttamente, una realtà evidente nei primi anni di vita del bambino, durante i quali regna una totalità indivisa di movimento, gestualità e sessualità. L’identità si costruisce attraverso molteplici esperienze in cui soltanto a fatica e per esigenze didattiche possiamo individuare ambiti slegati dalla corporeità. Col corpo il bambino conosce, ama, manifesta sentimenti, con esso e in esso vive. Ben presto però si delinea il compito di differenziarsi e costruire un’Io basato sull’opposizione rispetto alla fisicità, col rischio di fare del corpo una minaccia, ripetendo nel caso individuale una vicenda vecchia di secoli.

Una mente senza corpo

Fucina della passione e dell’odio, luogo del piacere e del dolore, il corpo finisce per rappresentare paradossalmente un ostacolo per lo sviluppo e per l’inserimento sociale. Verrà allora avvertito come una forza che cerca di trattenere nella natura, apparentando l’uomo all’animale e riducendolo a pulsioni o appetiti sconvenienti. Invece di costituire il veicolo privilegiato per immettersi nel mondo si trasforma in una inciampo.

La concezione religiosa del peccato, per esempio, nella sua traduzione divulgata non riesce a trovare una collocazione formale alla "carne”, che non sa resistere a desideri e tentazioni, in particolare sessuali.

Più ancora dell’ideale ascetico, che vuole l’anima prigioniera del corpo, è l’intellettualismo nelle sue estremizzazioni a sembrar aspirare a poterne fare a meno, per cui la mente, emersa dalla materia vulcanica e dalle acque primordiali, vorrebbe liberarsi dalla zavorra organica, non esser più condizionata da esigenze biologiche di sopravvivenza né disturbata da affetti. In tal caso non resterebbe che il cervello, unico organo perfetto, adatto per la conquista di nuovo sapere e per trasformare l’ambiente. È ciò cui pare tendere talora la scienza: l’uomo “di testa” vuole che l'idea non sia più impedita nei suoi voli dal peso del vivere, dal fare i conti con miserevoli bisogni fisici ed emotivi. In tale sogno di onnipotenza, in cui si spalancano le porte dell’eternità, l’ideale diventa l’automa freddo e senza vincoli di sorta.

Eppure, come ha scritto Norman Brown, “l’Io non può liberarsi del corpo: può solo negarlo e in questo modo affermarlo dialetticamente”. La mente può divorziare dal corpo a patto di trasferirsi in una dimensione in cui il concetto stesso di vita non ha più significato.

La morte nella vita

Il corpo non è esclusivamente il centro del nostro universo, è anche lo strumento della relazione con gli altri, il nostro modo di essere al mondo e di creare rapporti. Se esso è l’attualità dell’uomo, ritirarsi nella torre d’avorio della pura coscienza equivale a vivere “fuori di sé” e pertanto a non percepire la vita. Si smarrisce il valore dell’esperienza vissuta, la capacità di coinvolgersi e di sentirsi pienamente partecipi di un rapporto interpersonale. Ne deriva un senso di inaridimento e di vuoto interiore a dispetto delle altezze raggiunte dal pensiero.

Per questo S. Freud a proposito della sete di ricerca di Leonardo da Vinci ha scritto: “Non si ama né si odia più veramente quando si è pervenuti alla conoscenza; si rimane al di là del bene e del male. Si è indagato anziché amare”. Si può essere dunque poveri e soli nonostante i trionfi razionali. Una volta scalata la montagna si fanno i conti con la mancanza di ossigeno.

Il dispotismo della razionalità impedisce di essere protagonisti dei propri sentimenti, ma anche di attingere alle fonti della fantasia e della creatività nella profondità dell’essere. La coscienza che cerca di tagliare i ponti con l’emotività e l’inconscio diviene infatti un deserto.

Non si tratta d’altronde di opporre allo strapotere della mente un potere del corpo. L’attuale industria della fisicità, che va dalla dietologia alla aerobica e dalla ginnastica ai massaggi, nasconde dietro l’apparente rivalutazione delle esigenze corporee la perpetuazione del concetto di un essere umano scisso o a pezzi. Del resto, il corpo “curato” oggi è un mezzo per conquistare prestigio, successo e denaro, serve più a coprire e ingannare che a svelare e comunicare. Al posto delle persone si incontrano immagini e maschere, non c’è che l’involucro. E guai a voler cercare un contenuto dentro il contenitore! Si sa, sotto il vestito e la pelle, niente!

Dar lustro all’aspetto fisico sembra un modo come un altro per sfuggire ai problemi che il corpo pone in termini di vita emozionale. La contrapposizione fra corpo e mente non ha a che fare con una maggiore o minore cura del fisico. In fondo, il risultato della moderna affermazione della fisicità non è molto diverso dal fine perseguito da chi non riesce a convivere con la corporeità e rifiuta di abitare il corpo. Resta in ogni caso irrisolta la questione della realizzazione dell’intimità con gli altri, poiché la disarmonia e la scissione dominano anche all’interno di se stessi.

Più ci si tiene a distanza dal corpo, più diventa difficile avvicinare qualcuno e lasciarsi avvicinare. Non rimane per molti che rifugiarsi nelle stanze “superiori” a coltivare sogni di grandezza che l’invidia corrode inevitabilmente. Accettare il corpo significa accettare il divenire della vita e quindi anche la realtà della morte. Proprio questo, invece, pare inaccettabile per l’uomo.

La mente immagina di conseguire il premio dell’immortalità liberandosi del corpo mortale. In tutta la cultura, occidentale soprattutto, c’è un anelito a sconfiggere la morte e a scongiurare il tempo: “La sete di gloria e quel bisogno insito in ciascuno di non rimanere sconosciuto dopo la fine della vita, tutto si risolve in un ardente bisogno di immortalità” (Platone). Il desiderio di essere immortale conduce però spesso a morire nel presente, che è la dimensione del corpo.

L’uomo come entità psicosomatica

Un cattivo rapporto tra mente e corpo comporta sempre un profondo disagio nella sfera sessuale e nello scambio affettivo. Sovente ci troviamo di fronte a due tipi ben definiti di schiavitù, a ben guardare due facce della stessa medaglia. Entrambi esprimono uno squilibrio che limita le capacità di espressione e libertà dell’uomo.

Vi sono persone che sono di continuo prese da bisogni istintivi concreti, fisici ed emotivi, la sessualità è una sorta di impulso incoercibile, quasi una forza estranea. Non riescono a fare del corpo un mezzo e non solo un fine, in pratica ne sono vittime. Sembrano incapaci di sviluppare una piena consapevolezza di ciò che provano, facoltà razionali e pensiero paiono carenti. Tuttavia è proprio la rigidità del loro schema mentale a determinare la vittoria della “materia”. Pensare sembra loro pericoloso perché non riescono ad aprire un varco nella barriera tra le idee e le emozioni. La potenza sproporzionata della corporeità è già il prodotto di una rottura dell’equilibrio originario.

Altre persone cercano di scacciare gli elementi che contrastano con un’immagine di sé idealizzata, scevra da istintualità. La “volgarità” è per costoro inaccettabile perché minaccia l’ideale estetico dell’Io. Il corpo in tutte le sue manifestazioni è un vero peso, le espressioni sessuali sono “sporche”. Il sesso è la punta di un iceberg la cui parte sommersa è costituita dall’intero universo pulsionale ed emozionale, avvertito come inconciliabile col sistema di coscienza. Eppure, quel mondo continua a rappresentare un polo inconscio di attrazione, la drastica censura della vita emotiva e istintuale alla lunga non fa che alimentare il potere irrazionale di quest’ultima, che continua a condizionare molti comportamenti senza che l’interessato ne sia consapevole.

Il nodo emotivo e corporeo rischia di strangolare lo sviluppo della personalità, perché soltanto l’accettazione della materia che è in noi permette un’armonia fra i vari aspetti e un percorso di trascendenza o evoluzione. In caso contrario si diventa facilmente schiavi di quanto si cerca di eliminare da noi stessi e dalla nostra coscienza.

Le vie della razionalità e dell’emotività, del mentale e del corporeo, devono avere ponti ed intersezioni in maniera da permettere un libero passaggio. L’uomo è un’entità psicosomatica e ha bisogno di favorire il dialogo dentro di sé, una mente senza corpo non esiste, “la pura intelligenza”, ha scritto lo psicoanalista Sandor Ferenczi,“è in linea di principio follia”.

Mattia Morretta (1987)