Offrire e dare solidarietà
AIDS: I ruoli e le responsabilità delle Istituzioni pubbliche e private nella lotta all’Aids,
Istituto Scientifico Ospedale San Raffaele, Europa Scienze Umane Editrice, Milano, 1991
“Io avevo di mira due cose: costruire uno spazio spirituale in cui potessi respirare e vivere, a dispetto di tutto il veleno diffuso nel mondo, e in secondo luogo dare espressione alla resistenza dello spirito contro la forza della barbarie” (Hermann Hesse)
L’Aids chiude la bocca della persona malata, ma scioglie le lingue dei professionisti del bene e del male, dei trasformisti della politica, degli scienziati più o meno in buona fede e naturalmente dell’opinione pubblica.
Difficile prendere la parola fra tanti che si “occupano” di Aids per articolare un discorso come persona e sulle persone, laddove contano solo la vanagloria e l’opportunismo. Quando si tratta di solidarietà si vorrebbe sperare in un atteggiamento insieme sentimentale e ragionevole, essendo in gioco il bisogno di un incontro esistenziale, che nessuna capacità tecnica o professionale può soddisfare e determinare.
Tutti i dati “oggettivi” esibiti dagli addetti ai lavori (relazioni, documenti, cifre) raggiungono esattamente lo scopo degli autori, benché in un senso opposto, cioè di risultare scevri da elementi parziali e soggettivi. Ciò giustifica l’impressione che se ne ricava di assenza di un soggetto vero e proprio. Essi coprono la mancanza di una soggettività autentica, che è l’essenziale: una persona interessata a capire.
La solidarietà, infatti, è anzitutto un modo di pensare e di essere, che si esprime attraverso un pensiero e una pratica molto personali. Ogni solidarietà implica una presa di posizione (di parte), specie se calata nella vita concreta e finita. Tutt’altra cosa è quella a buon mercato verso soggetti marginali o emarginati, collocati al di fuori dello scambio sociale e della realtà quotidiana abituale.
In tal caso l’identificazione è accompagnata da un sentimento filantropico (ci si rassicura circa la propria umanità) e non comporta per lo più modifiche nella concezione d sé e del mondo. È questa la solidarietà con chi è “lontano”, che consente e si realizza mediante un vissuto di vicinanza. Quando l’altro è molto “vicino” (prossimo in senso letterale) diventa complicato accorciare le distanze e viene vanificato in buona parte l’effetto dell’autocompiacimento.
Tutti coloro che hanno o vogliono avere un ruolo nel campo dell’Aids dovrebbero chiedersi: come si possono trattare i bisogni esistenziali prendendosi cura degli individui senza manipolazioni e strumentalizzazioni? Senza chiedere in cambio null’altro che l’arricchimento umano? Come aiutare senza appropriarsi, se-durre o ri-durre a sé l’altro? Come fare spazio invece di farsi spazio con l’ideologia, la fede, la politica?
Alla persona sieropositiva si chiede di rassicurare la maggioranza sana e regolare come pure le minoranze sane e rispettabili; di confermare teorie e previsioni statistiche o confortare studi catastrofici sul disagio mentale. Il soggetto viene pensato e usato come superficie d’intervento del senso civico dell’attivista laico, terreno di applicazione del dettato religioso dell’intraprendente cattolico, giardino in cui coltivare la pianta della bontà del caro volontario.
Servirà per dimostrare questa o quella concezione filosofica o sociologica. Per “gli altri" sarà occasione di riscatto o riabilitazione morale, rafforzamento della propria autostima e immagine, l’emarginato che permette di portare avanti le proprie battaglie politiche, l’ultimo che assicura a chi è accanto il privilegio del primo.
In un contesto così povero dal punto di vista umano e spirituale risalta la ricchezza luminosa (come il tesoro delle favole) delle persone che si sono assunte e si assumono il compito di riflettere sulla questione del come vivere con l’Aids. Nell’assenza di ospitalità sociale e di disponibilità a convivere culturalmente con l’Aids (e quindi con chi ne è coinvolto), nell’oscurità prodotta dalla mancanza di un pensiero originale, costruttivo e accogliente, nel baccano delle voci dei tanti tecnici e operatori, si può ascoltare, volendo, un messaggio straordinario e fondamentale che si fa largo a fatica ma con determinazione: la condizione di persona con Aids può essere vissuta e accettata, cioè scelta come dotata di valore per chi la vive.
Ne discende che la solidarietà consiste nell’applicarsi a concepire come vivibile la condizione esistenziale, lavorare per arrivare a pensare che si possa essere persone con Aids, che sia umanamente e realmente possibile.
È quel che si è cercato di fare in questi anni all’interno della Associazione Solidarietà Aids di Milano. Tale “possibilità” è il dono più semplice e grande che la gente, gli operatori, i congiunti, tutti potrebbero offrire ai soggetti sieropositivi. Se fossero aiutati e incoraggiati in tale senso, e non istigati al crucifige o al massimo alla commiserazione.
Il pensiero collettivo è catastrofico e volto ad evidenziare l’impossibilità. Tale ambiente negativo condiziona pesantemente l’esistenza di tutte le persone sieropositive e dei collaterali. La nostra personalità, infatti, è “responsiva”, sensibile come un sismografo alle invisibili presenze della comunità che ci circonda, come ha ben descritto a suo tempo Virginia Woolf: « Queste influenze, e intendo la consapevolezza di altri gruppi che interferiscono su di noi; l’opinione pubblica, ciò che dicono e pensano gli altri; tutti quei magneti che ci attraggono per farci simili o ci respingono rendendoci diversi ».
La degradazione associata all’Aids fa della persona una vittima muta e paralizzata. La mortificazione è assicurata prima e dopo la morte.
La maggioranza di fatto soccombe al carico sociale (di disprezzo o pietà) connesso alla malattia. La vergogna imposta sbriciola le vite dei diretti interessati. Il degrado istituzionalizzato dalle letture sociologiche, politiche, morali del fenomeno, anche quando non c’è dal punto di vista sociale, c’è comunque dal punto di vista umano.
La persona allora dovrà prima risalire la china dell’umanità per potersi sentire essere umano a tutti gli effetti; prima, se fortunata, di presentarsi in modo integro e unitario, con tutte le sue risorse a disposizione, all’appuntamento con la malattia e la mortalità. Per questo la negazione è così frequente e massiccia in chi è malato di Aids.
Chi potrebbe accettare d’essere tanto indesiderato e di vivere una condizione tanto complessa e devastante come quella descritta dai medici e immaginata dalla “gente”? Il degrado impedisce l’identificazione e scoraggia la voglia di comprendere o avvicinarsi; troppo faticoso e costoso elaborare un pensiero alternativo al riguardo, riprende perciò a prestito quello fornito da stampa e medicina, oppure ci si affida al buon senso e al cristianesimo, come ancore di salvezza e spiegazioni a portata di mano, sempre valide.
La solidarietà ha bisogno di uno sfondo culturale e di una impalcatura spirituale. Quali valori connotano il gesto? Quali concezioni dell’essere umano sottendono e implicano le stesse teorie e filosofie di accompagnamento o sostegno?
Nel caso dell’Aids più che mai è importante partire dal riconoscimento della comprensibilità dell’esperienza. A ciò deve far seguito la scelta di conoscere attraverso la partecipazione, il coinvolgimento personale. Esattamente il contrario quindi del culto della distanza e della estraniazione quali mezzi per evitare il contatto emotivo inteso come fuorviante; l’esito è difatti per lo più l’indifferenza.
Per capire occorre un processo di adattamento intenzionale in cui si assume un transitorio pregiudizio positivo nei confronti dell’altro, l’accettazione e la valorizzazione della condizione di persona con Aids quale presupposto basilare per un rapporto autentico. Si tratta di dare valore all’altro in quanto se stesso, dunque per ciò che vive e in quanto è come è.
Medici, volontari e operatori possono capire la persona con Aids solo attribuendo valore a ciò che essa è, per quello che è nella sua totalità, compresi i suoi limiti e le implicazioni di malattia e morte.
La malattia e la morte sembrano togliere senso a tutto, annullando ogni sforzo di realizzazione e qualsiasi ricerca di qualità e memoria. Trovare un senso ed un valore è perciò prioritario, è vitale per uscire dalla dimensione costrittiva e mutilante della pura e semplice necessità, e al fine di aprire orizzonti di significato, offrire opportunità per trascendere la situazione, non potendo essere “risolto” il problema della vita e della morte.
Grazie al metodo della immedesimazione io mi adatto a ridurre la distanza dall’altra persona per vivere dentro di me ciò che essa vive. Faccio uso dell’empatia come percorso caratterizzata dal movimento verso l’altro quale punto di riferimento e di interpretazione, ciò che Francesco Campione ha definito amare il prossimo come “se stesso”, cioè per come è e in quanto lo è. La modalità più efficace, nonché più rispettosa e autentica, di conoscere ed amare quando si è di fronte a malattie gravi o potenzialmente letali, che impongono al soggetto il giogo della coscienza della finitezza e temporalità della vita.
Il rischio di una “crisi della presenza”, una alienazione dell’individuo rispetto a se stesso (perdita di parti di sé) può essere scongiurato o ridotto proprio grazie ad una concezione, uno sguardo e una disposizione d’animo improntati all’onestà e all’amore.
Chi sta accanto deve poter accettare di essere nei panni altrui, comprendendo nella concezione di sé e nella propria prospettiva la malattia e la mortalità. Così facendo può riuscire ad aiutare la persona con Aids ad amarsi come se se stessa, a scegliere la necessità della sua condizione esistenziale.
Ci si educa in tal modo alla convivenza, dentro e fuori di noi, con le verità tragiche ed inevitabili dell’essere umano. Allora sarebbe effettivamente possibile parlare di contesto di vita: un mondo, piccolo o grande che sia, in cui poter vivere in modo pieno e dignitoso, sentendosene parte integrante, grazie alla relazione con altri esseri umani interessati a pire e ad amare.
Enrico Barzaghi, che pure poteva contare su una famiglia amorevole e “spaziosa”, qualche giorno prima di morire, riferendosi all’esperienza in ASA, mi ha detto: « Senza una comunità intorno sarei già morto! ».
Come ha scritto Oliver Sacks, in effetti, « l’affinità è risanatrice, siamo medici l’uno per l’altro ». Il nostro senso di realtà, fiducia e sicurezza dipende in maniera determinante dai contatti umani. Anche un solo rapporto “buono” equivale a « una stella polare nell’oceano di guai ».
Mattia Morretta (1991)