Offrire gigli a chi è nel fango. L’arte di fare cultura Intervista a cura di Sara Durantini
• Umbria Green Magazine, agosto 2021Mattia Morretta, psichiatra e sessuologo nel Servizio pubblico, membro della Commissione Psicoterapia dell’Ordine dei Medici di Monza, una vita di costante impegno sociale: ti sei occupato sin da giovane, in tempi difficili, di tematiche controverse e ad alto impatto emotivo, come Aids e omosessualità, e hai promosso iniziative originali di formazione per studenti e operatori sanitari. In parallelo hai sempre avuto cura della testimonianza scritta con numerosi documenti e più di recente con cinque libri in rapida successione. Come si sposa la tua professione con la scrittura saggistica e come si è evoluta nel corso degli anni?
A ben guardare la psicologia e i percorsi terapeutici insegnano a ri-scrivere la storia personale, per dar luogo a una nuova edizione dell’identità, rilegata con attenzione dopo aver a lungo stampato minute e fogli volanti nell’agone del vivere.
La narrazione delle fasi di sviluppo nella famiglia di origine, il restauro degli oggetti “esterni” e “interni” (come si usa dire in psicoanalisi), il recupero alla coscienza del materiale prezioso sepolto nell’inconscio, è un modello che mi ha facilitato nell’approccio alle tematiche sociali e intellettuali, guidando il mio progetto scritturale su due strade: la sociologia del comportamento sessuale e la critica letteraria.
Si tratta pur sempre di far tesoro del passato e di proiettarsi nell’avvenire, a maggior ragione nell’era delle iniziative “senza precedenti” in cui domina l’istante e il relativismo estremo. L’attività professionale e quella saggistica ruotano infatti intorno al perno dell’autenticità, cioè l’importanza di conoscere e affinare la propria natura fino a farne cultura, per essere sé stessi in maniera più onesta e generosa, un impegno che fa maturare e porta a rendere un servizio anche al prossimo.
Nell’ultimo decennio ho cercato di collocarmi nella scia di una tradizione di sapere di ampio respiro, perché ritengo importante dare il massimo e non il minimo di contenuti, anzi “offrire gigli a chi è nel fango”, per citare Garcìa Lorca, aprendo la mente al simbolismo più raffinato. Mi preme perciò far conoscere meglio personalità esemplari trascurate oppure date per scontate, proponendo di estraniarsi dal contesto e dal momento, poiché aderire all’attualità significa vivere in superficie, perdendo contatto con la profondità che collega a livello sotterraneo le epoche e le esistenze.
Se si prescinde dall’individualità contingente, sbiadisce l’Ego e si giunge a sussurrare, come Dickinson, “io sono Nessuno”. Consapevoli di dover devolvere ogni conquista all’umanità a venire, al pari di Fedro, che conclude il suo Prologo al Libro Terzo delle Favole con le parole indirizzate a Eutico: “Se leggerai, ne sarò contento / se no, saranno i posteri a giovarsene”.
Tra di noi l'oceano. Modernità di Emily Brontë ed Emily Dickinson è il libro che hai pubblicato lo scorso maggio col Gruppo Editoriale Viator. Per la prima volta, nel panorama italiano, un saggio che approfondisce contemporaneamente due figure mitiche della letteratura e poetica, inglese e americana. Come è nata l'idea e quale è stato il lavoro che ha accompagnato la stesura?
L’autore di biografie e traduzioni è una sorta di ventriloquo, un medium che ridà voce agli assenti, ma è inevitabile la proiezione di elementi del proprio mondo interiore, facendo eco si sottolineano toni e timbri altrui nei quali ci si riconosce. In effetti, il mio studio della figura e dell’opera delle due Emily nasce da una vera affinità spirituale, un incontro avvenuto nel lontano passato e perfezionatosi con la consuetudine, sulla base di una coincidenza di attitudini verso il linguaggio, la solitudine, le relazioni. Le ho scelte perché rappresentano ai massimi livelli la potenza della parola poetica, “opere di bellezza”, secondo la definizione di Kavafis, in apparenza inutili e al contrario necessarie per sostenere spiritualmente la vita. E ne illustro con ammirazione le fisionomie essenziali e severe, oggi che sono di moda gli esempi corruttori dei grandi personaggi visti nei loro vizi e non nella forza del coraggio e delle convinzioni.
Sullo sfondo un Ottocento leggendario per la letteratura e il progresso, Brontë e Dickinson, diafane e indecifrabili, hanno saputo dare alla luce nel silenzio e nel ritiro domestico, in grigi scenari provinciali, una qualità artistica e concettuale di portata universale. Ambedue senza “profilo sociale”, un contenuto enorme in un contenitore modesto e non conforme allo standard di fascino estetico imposto dalla società. Niente da vedere, un’interiorità esorbitante a fronte di un’esteriorità non pervenuta. Al riguardo è emblematica la mostra più completa su Dickinson organizzata dal Museo Morgan di New York nel 2017. Oltre al noto quadro di Bullard che ritrae i fratelli da fanciulli, il dagherrotipo che risale all’adolescenza, la cartina geografica di Amherst, tutto il resto erano bacheche con fogli, buste, ritagli di giornale fecondati con i semi verbali, l’italic seed che Emily nomina nelle liriche. Di Brontë abbiamo ancor meno e può andare all’asta giusto quel che rimane di una biblioteca. Prova “tangibile” della fertilità alternativa del germoglio di un cervello che trova un solco in quello altrui, attivando comunicazioni mentali che possono sopravvivere e durare potenzialmente all’infinito. Non a caso Christopher Isherwood si chiedeva a proposito di Virginia Woolf, considerando che era molto più vecchia e molto più giovane della sua età: “A quale secolo apparteneva? A quale generazione?”. Tre parole per identificare il percorso che potrà condurre il lettore alla scoperta delle due Emily attraverso il tuo libro: lingua, natura, memoria. Sono temi strettamente correlati, perché è in gioco una creatività che parte dall’adattamento alla “casa” fuori e dentro di sé, integrando emozioni e percezioni, fasi ormonali e lunari, vacuità fisiche e metafisiche (con un pericoloso crinale depressivo). Corrispondenze sensibili con ritmi e cicli naturali, vibrando in sintonia con fiori, piante e animali. Difatti ognuna ha una corona floreale e si accompagna a un cane di grossa taglia, alter ego e tramite della comprensione dei misteri cosmici. La loro penna è intinta nella psiche e nella fisiopatologia, il mare di inchiostro (an inky sea ) di cui parla Brontë, nel quale convergono tre fiumi, uno d’oro, uno di sangue e il terzo di zaffiro. Il linguaggio scritto è per le due Emily, in una condizione limitativa di vita e di salute, un lasciapassare per un’altra dimensione, che arricchisce e innalza il poco di cui si accontentano. Esse sfruttano appieno l’opportunità di studiare, col dizionario e la libreria a portata di mano, “i parenti dello scaffale” come li chiama Dickinson, una dispensa ove l’intelletto trova l’alimento di cui ha bisogno. E con che cura riscrivono in bella e custodiscono rime e testi, consce che la vena poetica è l’azimut della sublimazione dell’istinto, assunzione della massima responsabilità dialogica che richiede la selezione meticolosa di vocaboli e spazi bianchi.
Le accomuna pure la predilezione femminile per la comunicazione nei legami affettivi, ma i loro non sono mai sentimenti solo privati, bensì reciproche attestazioni di esistenza e di valore nella “sorellanza”. Le api regine nell’alveare di campagna sono circondate da una piccola comunità di donne che si incarica del passa parola, consolidando nel tempo una tradizione e un culto. Scrive Dickinson a Susan Gilbert nel 1884, dopo più di trent’anni di amicizia: “Mostrami l’Eternità, / io ti mostrerò la Memoria - / Entrambe giacevano in un unico involucro / e si rialzarono per tornare”. Mnemosyne , la dea della memoria, è la madre di tutte le Muse, se viene meno anche le arti e l’ingegno si smarriscono e infine non nascono più. Grazie all’eredità culturale e spirituale ci si ritrova enormemente ricchi e si partecipa dell’immortalità. In un tuo scritto, accolto tra le pagine di questo magazine, dici, a proposito di Emily Dickinson: "Il suo esistere è nudo e semplice, nella completa solitudine dell'essere, uno stato ridotto all’essenziale e perciò di eccezionale profondità". Parole che potrebbero descrivere alcune sfumature del carattere di Brontë. Restando nel perimetro della solitudine dell'essere, quali sono le assonanze ravvisate nelle due Emily? Il fermo immagine più significativo di Emily Jane è una ragazzina che siede solitaria alla finestra o giace su una collina nel meriggio soleggiato. Perché, se Dickinson chiude la porta della stanza per avere più libertà di espressione, Brontë aspira a non avere nessuno accanto per trasformarsi nel puro spirito che permea l’universo e radicalizza l’isolamento per non disperdere energie in interazioni umane superflue. Tesaurizzando le vicissitudini drammatiche della fanciullezza, si concentra sul compito di ri-crearle con l’immaginazione, un’occupazione totalizzante che fa “dimenticare” disagi materiali, malattie, mancanza di gratificazioni fisiche e conferme altrui. Per essere fedele a sé stessa volta le spalle al richiamo della passione e dà uno scopo alla sua selvatica volontà. Del resto, come afferma in Cime tempestose , si può piantare una quercia in un vaso da fiori e aspettarsi di vederla prosperare? Più in generale, la riservatezza estrema delle due Emily concorre allo sviluppo lineare delle loro potenzialità, è un habitat coerente con la vocazione artistica e conforme al temperamento costituzionale. La separazione e la distanza sono cioè funzionali a ridurre interferenze e contaminazioni, enfatizzando la capacità di cogliere la nudità delle cose, se non lo scheletro per Brontë. L’ideale assoluto, dice Dickinson, richiede il coraggio di una vita di silenzi. A conferma cito nel saggio una frase di Ovidio, che aveva pagato con l’esilio l’esposizione pubblica: “Vive bene chi sa stare nascosto”. D’altronde Balzac sottolinea che il poeta capisce se è ammirato o incompreso con la medesima prontezza con cui una pianta avvizzisce o rifiorisce a seconda che si trovi in un ambiente nemico o amico. Non ultimo, l’atto di scrivere, analogamente a quello di leggere, presuppone l’isolarsi e il tacere. Se dovessi fissare, per un momento, le due Emily attraverso le loro opere, quali testi sceglieresti? Non è facile avendo ri-tradotto e amato il corpus poetico, sebbene la rilettura personale faciliti l’identificazione della cifra di ciascuna e del tratto in comune. Per Dickinson propenderei per una lirica del 1864, che ha dato il titolo a una raccolta stampata nel 1914 dalla nipote Martha, figlia del fratello Austin e di Susan Gilbert, con una selezione di 147 poesie inviate alla madre. È una sintesi efficace della scelta di lucidità che non ammette deleghe nel reggere il peso identitario: Questa coscienza che ha contezza
del nostro prossimo e del sole
sarà l’unica consapevole della Morte -
e che proprio lei da sola sta attraversando l’intervallo
tra l’esperienza
e il più profondo esperimento
affidato al genere umano - Quanto adeguato a sé medesima
si rivelerà il suo equipaggiamento
in prima persona e senza nessuno
dovrà fare scoperta. Avventura estrema fino a sé stessa
l’Anima è condannata a essere -
scortata da un singolo Segugio
la sua propria identità./br>
(n. 822, 1864) Per Brontë scelgo una composizione intitolata Simpatia (n. 119), attribuita all’autunno del 1839. Versi che appaiono un manifesto per la dignità e la consapevolezza, con l’intento di incoraggiare l’accettazione delle contraddizioni e degli opposti, del male grazie al bene e della morte in virtù della vita, dell’esistenza come viaggio da affrontare senza illusioni o facili consolazioni, ma pure senza perdersi d’animo, pronti a far la propria parte fino in fondo: Non dovresti disperare per te
mentre splendono ogni notte le stelle,
la sera versa la sua rugiada silenziosa
e la luce solare indora il mattino.
Non dovresti cedere alla disperazione - benché lacrime
possano scorrere a fiumi.
Gli anni più amati non fanno forse cerchio
al tuo cuore per sempre? Le cose piangono, tu piangi, dev’esser così;
sibilano i venti come tu stai sospirando,
e l’inverno versa la sua neve di dolore
ove son cadute le foglie d’autunno;
eppure, queste rivivono, e dal loro fato
il tuo non può venir separato:
dunque, vai avanti, se non con entusiasmo,
nondimeno, mai con cuore avvilito.