A rischio
Omosessualità e infezione da Hiv in Italia
Il loro compiacersi li accusa Il loro vizio non sta celato È una Sodoma proclamata Anime maledette! Si attirano addosso il male (Il libro del profeta Isaia , 3,9)
Campagne di informazione e conoscenza dei destinatari
In Italia la popolazione omosessuale, nonostante le apparenze e le convinzioni degli stessi addetti ai lavori e dei tecnici, è stata trascurata dalle campagne di informazione istituzionali a livello sia nazionale che locale; inoltre, essa è stata penalizzata da interventi poveri in termini concettuali e strategici, centrati sulla distribuzione di profilattici e di depliant da parte di Associazioni per lo più molto connotate politicamente e prive di un forte radicamento territoriale, nonché di credibilità presso il cosiddetto target.
In effetti, non esistono nel nostro Paese veri opinion leader e referenti autorevoli per gli omosessuali, trattandosi di un insieme di individui altamente disomogeneo e frammentato oltre che disperso, non sufficientemente definito neppure dal punto di vista culturale non potendo contare su di un sentimento storico di appartenenza.
Le iniziative di prevenzione sono state pertanto attuate dai vari enti sulla base di una conoscenza generica e superficiale dei destinatari, che li ha portati a delegare, mediante un finanziamento economico discontinuo e contrattato su base politica, i sedicenti rappresentanti di un ipotetico soggetto sociale, soprassedendo sull’assenza di una reale identità e comunità degli omosessuali, come evidenziato anche dalla parziale e precaria aggregazione degli stessi intorno ad istanze rivendicative (i tanto nominati diritti civili).
Si è così finito per sostituire al pregiudizio negativo della censura e della patologia che ha caratterizzato l’omosessualità sino alla fine degli anni Settanta, il pregiudizio positivo dell’ideologia politica o del politicamente corretto di importazione americana, che assomma ai tipici difetti della rappresentatività democratica la mistificazione a proposito dell’inesistente potere contrattuale di una lobby virtuale.
È degno di nota il fatto che, a venti anni dall’inizio dell’epidemia da Hiv, la conoscenza del gruppo omosessuale, anche solo dal punto di vista delle malattie sessualmente trasmesse, sia cresciuta solo in modo minimale, al punto di non avere determinato né ricadute in termini di sorveglianza sanitaria né nuove specifiche progettualità.
Sarebbe d’altronde sconfortante per gli stessi omosessuali ritenere lusinghieri i dati ricavabili dalle dichiarazioni di intenti riguardo all’uso del preservativo nei vari questionari di indagine, se si considera quanto in altre nazioni il fenomeno Aids abbia contribuito all’evoluzione della loro immagine e la spinta impressa all’elaborazione di modelli di socialità gay non centrati sul sesso.
Sorprende, inoltre, l’approccio ancor oggi enfatico da parte delle Organizzazioni e della pubblicistica gay alla questione delle precauzioni nella vita sessuale, trattata soltanto come un prodotto negativo dell’epidemia contingente e quindi come una forzatura repressiva e transitoria, vuoi da coloro che tentano di imporre il profilattico con la minaccia della morte vuoi da coloro che si adoperano per renderlo gradito presentandolo come passaporto per la libertà erotica.
La sottolineatura dell’estraneità del preservativo rispetto alla sessualità gay o della eccezionalità dello sforzo richiesto per adottarne l’uso, manifesta il prevalere di una concezione antistorica francamente preoccupante in chi si occupa di problematiche sociali. Sconcerta altrettanto l’insistenza sulla necessità di un linguaggio “esplicito” per far giungere il messaggio preventivo ai gay, i quali in genere si ritengono e sono ritenuti brillanti, intelligenti e creativi, oltre che “tanto sensibili”, tranne quando si tratta di recepire informazioni sul sesso e sull’Aids!
Non ci si rende conto della pervicacia del pregiudizio antiomosessuale implicito nel reputare opportuno o persino indispensabile il ricorso alla gergalità sessuale per farsi intendere; con quanta noncuranza si ignora la squalifica di molte campagne mirate che rendono gli omosessuali dei destinatari degradati alla pari dei tossicodipendenti abituali e “irrecuperabili” o di altri emarginati, per i quali l’unico intervento previsto è la cosiddetta riduzione del danno.
Viene invocato il pragmatismo per giustificare un’operazione sommaria di rassegnazione ad una visione svilente della sessualità; la terminologia e le immagini “dirette” pretendono di descrivere e registrare il dato di fatto dell’omosessualità ed invece prescrivono un copione e veicolano una grossolana mistificazione, in cui la brutalità delle parole bara sulla banalità del pensiero sottostante.
La reiterazione sempre più formale e sempre meno motivata delle iniziative di “sensibilizzazione” (informazioni riciclate e ovvie, profilattici gratuiti e a costo mentale zero, invito all’effettuazione periodica del test di screening), esprime la svalutazione e la scarsa considerazione in cui sono tenute le vite delle persone omosessuali da parte di tutti i soggetti coinvolti.
Quel che ci caratterizza nel contesto anche solo europeo è l’assoluta mancanza di dibattito e di messaggi sugli stili di vita, visti dagli esponenti dei gruppi gay organizzati come attentati alla libertà di azione sessuale (soprassedendo sulla plateale assenza di libertà di pensiero nella sottocultura omosessuale!). Sicché, l’esecuzione rituale del test può apparire una maniera “attiva” e persino “militante” di affrontare il problema, mentre al contempo vengono dati per scontati rischi, inerzia comportamentale, inamovibilità di abitudini apprese, impossibilità di elaborazioni alternative e di strategie diversificate.
Domina, in verità, tra i gay una sostanziale passività fino al vero e proprio fatalismo riguardo alle malattie legate all’esercizio del sesso, essendo per molti la catena di montaggio della gratificazione erotica l’unica modalità conosciuta e riconoscibile di manifestare la propria omosessualità.
Non deve stupire, allora, che MTS e Aids finiscano per diventare in qualche modo “un rischio del mestiere”: per un numero consistente di individui fare l’omosessuale vorrà dire esporsi con orgoglio alle prove e ai pericoli della sessualità, nonché portarne con disinvoltura i segni e le cicatrici (medaglie al valore?!).
Non può neppure meravigliare, di conseguenza, che vi siano (sull’esempio, purtroppo, dei paesi in cui il mercato gay è più strutturato) individui che rinunciano da tempo a precauzioni pur minimali confidando sulle terapie efficaci e sull’aspettativa di vita dopo la diagnosi di infezione da Hiv (come era già accaduto per altre malattie veneree, per esempio la sifilide). In parte, sono atteggiamenti favoriti dalla propaganda “ottimistica” del conservatorismo omosessuale, che ha posto l’accento sul vaccino e sulle cure come fine dell’incubo Aids.
Il discorso delle precauzioni, d’altra parte, andrebbe comunque valutato nel quadro del generale aumento della agibilità sessuale su scala mondiale e con sempre minori barriere culturali, poiché essa impone e imporrà, volenti o nolenti, il ricorso a nuovi dispositivi di sicurezza e contenimento degli effetti collaterali di una “libertà” a torto ritenuta gratuita e priva di conseguenze.In questo senso il ricorso al profilattico dovrebbe già rappresentare un corollario pratico della più globale nozione di autotutela e responsabilità civile per chiunque scelga modelli di comportamento che prevedano molteplicità e facilità dei contatti fisici, mobilità o nomadismo affettivo.
Il preservativo, pertanto, andrebbe concepito come un presidio sanitario alla stregua delle norme e dei prodotti validi per il turismo o il transito in determinate aree del pianeta, oltre che uno strumento utile per organizzare in maniera consapevole e realistica la soddisfazione di differenti bisogni riguardanti l’area sessuale (come un tempo gli uomini sapevano di dovervi ricorrere quale spartiacque concreto tra la gratificazione estemporanea e privata e le incombenze connesse al ruolo familiare e sociale).
Ciò dovrebbe valere a maggior ragione per i sostenitori dell’ideologia che fa del sesso un bene di consumo e al contempo una moneta corrente di scambio interpersonale, in un mondo trasformato in un villaggio globale ove gli individui sono progressivamente più privi di “frontiere” e più esposti a mescolanze indiscriminate (comprese quelle microbiologiche).
Servizi territoriali e organizzazioni sociali
La delega dell’informazione alle Organizzazioni Non Governative, assai poco dinamiche e soprattutto scarsamente aggregative in Italia, ha amplificato e coperto le carenze delle strutture sanitarie dedicate alle Malattie a Trasmissione Sessuale sul piano della preparazione e della competenza nella relazione con l’utenza omosessuale. Tale trascuratezza è dimostrata dall’assoluta assenza di programmi formativi ed educativi centrati sul rapporto tra operatori e pazienti omosessuali, a fronte degli innumerevoli (e quasi sempre ripetitivi) progetti con relativi ingenti finanziamenti sui temi della tossicodipendenza e della marginalità.
Obbiettivamente non sono state dedicate risorse né sono stati forniti strumenti per migliorare la percezione e la conoscenza della popolazione omosessuale nella prospettiva di una prevenzione più efficace da parte del personale addetto ai Centri di Screening, nonché degli Ambulatori ospedalieri di infettivologia, accettando l’opinione convenzionale sulla capacità di autoeducazione del gruppo omosessuale pensato come già sufficientemente attivo ed equipaggiato in proposito.
In ultima analisi, l’epidemia di Hiv non è stata utilizzata proficuamente per arricchire il bagaglio culturale degli enti e degli operatori riguardo ai cittadini omo-bisessuali; invece di creare le condizioni per garantire in modo stabile un approccio adeguato a tali soggetti come parte integrante del lavoro sulla salute, si è finito per ribadire la reciproca estraneità e l’incomunicabilità.
Le presunte iniziative di “collaborazione” tra ASL, Comuni e ONG, susseguitesi nello scorso decennio, non solo non hanno prodotto circolazione e scambio di effettivo sapere tra pubblico e privato, ma hanno persino allargato il solco tra le due realtà. Lo schema del contatto, infatti, sembra fissato una volta per tutte sui livelli politici e burocratici delle istituzioni (Ministero e Regioni), il che ha impedito evoluzione del linguaggio, delle metodologie e degli strumenti di intervento, nonché effettive verifiche di utilità ed efficacia delle iniziative attuate.
In particolare, le Associazioni gay sono prese in considerazione solo come referenti ideologici o sindacali per l’area omosessuale, per motivi di convenienza o appartenenza politica, mentre non sono riconosciute ed esse stesse stentano a porsi come soggetto sociale.
L’approssimazione e l’inerzia intellettuale con cui gli attivisti trattano le problematiche della identità e degli stili di vita gay, appaiono forse come il segno più tangibile delle conseguenze della negazione o omissione culturale che caratterizza l’omosessualità nel nostro Paese.
I servizi pubblici e i gruppi gay distribuiti sul territorio rimangono di fatto distanti e sclerotizzati su posizioni di rivendicazione o di pseudo-confronto: i primi si sottraggono facilmente all’impegno (non sostenuto in sede istituzionale) di studiare e analizzare la problematica, i secondi richiedono soprattutto il riconoscimento politico e abdicano altrettanto facilmente al compito di produrre e trasmettere cultura.
Mattia Morretta (novembre 2000)