Ove osano le margherite: Emily Dickinson secondo natura
• Ove osano le margherite - Umbria Green MagazineAmherst, Massachusetts, 150 chilometri a ovest di Boston, novanta metri di altitudine, nella valle del Connecticut River (Pioneer Valley), la frontiera occidentale del New England, all’epoca con circa tremila anime e attualmente con poco meno di trentottomila. Vi passava la diligenza dipinta di giallo a quattro cavalli e la caratterizzavano due eventi annuali: la fiera del bestiame, nella quale in un’occasione Emily viene premiata per un tipo di pane di sua fattura, e il Commencement nel College, fondato da suo nonno e poi amministrato dal padre e dal fratello, tanto che la consegna delle lauree era per lei “la festa del Papà”.
L’Accademia era una delle migliori scuole dello Stato, Ralph Waldo Emerson, in visita nel 1823, l’aveva definita un Ercole bambino. Il filosofo aveva pure alloggiato nel 1857 a casa di Austin, primogenito Dickinson, nella bella villa all’italiana chiamata Evergreens adiacente alla casa di famiglia, la Homesteade o il Palazzo, la residenza più prestigiosa del posto.
Emily è soddisfatta di essere un prodotto a denominazione di origine, come il pettirosso e il ranuncolo locali, fosse nata in Gran Bretagna disdegnerebbe le margherite, l’inverno privo del tableau nevoso sarebbe menzogna: “Perché vedo alla maniera della Nuova Inghilterra - / e la regina discerne come me - / provincialmente” (n. 285, 1861). Cresce in un milieu periferico ove giunge attutito il rumore assordante del mondo civilizzato, le tradizioni oppongono refrattarietà ai mutamenti, i pomeriggi estivi possono dilatarsi a dismisura, le giornate invernali trascorrono nella pigra lentezza scandita dalla pendola, con candele e lampade a olio, a cherosene dagli anni Cinquanta.
Un paese e un campanile garantiscono uno scenario costante e ordinato, che non cambia o al più evolve con biblica lentezza, tiene il conto di chiunque ne sia stato “figlio”, finanche nel camposanto. Fatti e fatterelli, le fioriture, i raccolti, la nascita di bestiole da compagnia, concerti di uccellini, sono i più degni di attenzione corale, perché la dimensione della grandezza non pertiene alla storia, bensì al paesaggio, le cui caratteristiche plasmano e vengono assimilate dagli abitanti. In parallelo al panorama da cartolina, tuttavia, il campionario di tipi psicologici e condotte è limitato, una piccola comunità può opprimere con mentalità ristrette e conservatrici.
Emily, come accade per le donne non maritate, non si stacca dal parentado di origine per entrare in quello acquisito, non ha l’esigenza di andar via, sfuggire restrizioni, usi e costumi, esportare altrove tratti privati sofferenti. Eppure, relegata nella quotidianità, grazie all’estro poetico rilegge con una lente d’ingrandimento il poco offerto dal contesto e possiede il dono dell’ubiquità, le basta consultare un atlante o un libro per accedere a visioni e impressioni indelebili di viaggio.
Nel giugno del 1869, quando ha già all’attivo un migliaio di poesie, rispondendo all’invito a recarsi a Boston al Women’s Club, Emily fa sapere al giornalista e letterato Thomas Higginson che le farebbe piacere ricevere una sua visita, ma non si muoverà: “io non mi spingo oltre il giardino di mio padre, non vado a Casa di nessuno, non vado in nessun’altra città”.
Predilige il porto sicuro nel quale rimanere ormeggiata, il miglior posto per tutelare la biografia, un’ospitalità trovata che esenta dalla necessità di accasarsi e associarsi, per concepire un progetto di realizzazione in cui il corpo è statico e a muoversi è la coscienza, puntando non a fare passi avanti ma a crescere in statura mentale e morale.
Per lei conta sostare nel Luogo concreto e simbolico della venuta al Mondo, non sradicarsi e trapiantarsi, bensì far quadrato con le mura, tracciare e ritracciare il perimetro, disegnando le mappe di un isolotto esplorabile a piedi. “Noi siamo gli uccelli che restano”, rivendica, quelli che non migrano verso latitudini migliori, perché vivere duole più di morire, la morte è dietro la porta (n. 335, 1862). E ribadisce che è una sua deliberazione, specie nel cambio di stagione, quando la natura parte verso sud e le lascia un fiore decrepito (n. 1324, 1874). La sua stanzialità trova conferma e rinforzo nell’immobilità del patrimonio vegetale e minerale, persino gli animali si muovono solo per soddisfare bisogni primari, le cose in-sistono, sono in situ, a meno che si verifichino eventi particolari o eccezionali.
Nelle pagine di Dickinson cogliamo l’humus del territorio, sorvoliamo gli spazi ancestrali delle Green Mountains del Massachusetts, il Connecticut River che scorre dal Canada verso sud e attraversa le città di Holyoke e Springfield. La vista si fa visione, ciò che è a due passi e al di là dell’orizzonte è vissuto e trasformato dall’immaginario, l’occhio interiore più che scattare istantanee dipinge quadri.
Il prato, le siepi di biancospino e genzianella, gli alberi di mele rosse e ciliegie, le coltivazioni floreali sue e della sorella Lavinia (primule, gerani, peonie, gigli tigrati, iris e narcisi). I campi col grano e le zucche, nei quali Emily si aggira da piccola e da ragazza col cane, un ruscello, le colline e i monti sullo sfondo, viali ombrosi, paludi, foreste, magnolie, aceri, platani, faggi e abeti canadesi.
Molti dei fiori, alberi e località citati provengono da una conoscenza indiretta, cioè dai testi consultati, per esempio Flowers of North America, atlanti di geografia, volumi di biologia, geologia, in gran copia dalla lettura di romanzi e raccolte di poesie. Ed ecco apparire i vulcani Etna e Popocatépetl, le cime del Chimborazo delle Ande e di Tenerife nell’isola delle Canarie, il mar Caspio chiuso e incantato, i boschi di tamarindo e le palme africane. Lei che può annoverare tra i viaggi avventurosi appena una gita in barca con la sorella sul fiume Potomac, durante la visita al padre a Washington nel 1855.
La sua fisionomia è indissociabile dai luoghi di appartenenza, coi loro ritmi lenti, un modus vivendi più ecologico e rurale, non si può immaginare una Dickinson newyorkese o urbana. Il suo, però, non è naturismo, non è “ritorno alla natura”, perché vi è dentro e accanto, si sente inclusa e ne fa la terra promessa in senso religioso, chiedendo di poter leggere l’enciclopedia vivente e trarne ispirazione.
Vive “secondo natura” perché sa cos’è il deficit inscritto nel temperamento, il male fisico che si riverbera nello spirito, sentendosi chiamata a tener fede alla propria diversità, dettata dal creatore. E si vota alla sua unica vera missione, fare cultura (scrivere e poetare), escludendo procreazione e maternità.
Consapevole della sovra-determinazione biologica, prende appunti e lascia segni grafici sul margine libero di un foglio già quasi tutto scritto. In ciò è favorita dall’appartenenza a una famiglia benestante e dal livello di istruzione, e ancor più dal tenersi a distanza di sicurezza dal principale pericolo, l’uomo, specie in gruppo.
Emily non aderisce al consorzio sociale e all’attualità, avvertendo intensamente gli effetti patogeni della vita associativa, non ritrae alcun buon selvaggio e ben pochi umani in generale. La sua natura è guardata da una finestra e da una certa angolazione, addomesticata, più salubre e meno nociva (ove non han timore di andare le margherite e gli uccelli posano il volo - n. 51, 1858), cornice di alto artigianato e fondale immutabile di un mondo abitato e produttivo, con alcuni conforti materiali pur nella frugalità. Non sono le immensità dell’America, bensì i dintorni circoscritti, oppure le latitudini esotiche (Africa, India).
È attenta e partecipe, ma distaccata e studiosa, segue lezioni all’aperto (ne prende e ne dà), fa esperimenti in laboratorio, non si perde o trova nel naturale, resta al riparo in una stanza. Percepisce, concepisce e ricrea nella sua mente, trova somiglianze e differenze, fa associazioni e calcoli, reinterpreta in modo singolare e a scopo comunicativo, parla e fa confidenze a “parenti” muti che non possono rispondere.
Sola con se stessa, in presenza di testimoni permanenti, che superano confini e calendari, si incorona regina di una monarchia illuminata, un regno esteso all’infinito, annettendosi simbolicamente continenti, deserti e oceani lontanissimi. Rinchiudendosi e rendendosi non raggiungibile, paradossalmente si ritaglia un più ampio spazio vitale, con più silenzio, per contenere ed esprimere una personalità ingombrante, debordante.
È nessuno per la società, però è qualcuno per il giardino e la serra, si circonda di bellezza per ingentilire la solitudine nel suo personale paradiso ed estenderne i benefici agli amici. Difatti, l’ultima volontà è di essere portata al cimitero passando per i campi, non dalla via principale. Questi giorni febbrili - portarli alla foresta - dove fresche acque serpeggiano intorno al muschio - e solo l’ombra devasta il silenzio a volte sembra possa esser tutto (n. 1441, 1878)
Mattia MorrettaFebbraio 2021