PPE, ovvero la profilassi postuma: le pillole del giorno dopo per i rischiatutto
Terrence Higgins Trust, la storica Associazione gay inglese di lotta all’Aids, da tempo pubblicizza esplicitamente la Profilassi Post Esposizione (per gli anglosassoni PEP: Post Exposure Prophylaxis), scegliendo l’immagine di una bombola antincendio rosso fiamma su campo giallo con la scritta giganteggiante HIV in nero a mo’ di tappo.
Il testo dell’etichetta dice: “Adesso c’è il trattamento che previene l’infezione da Hiv dopo l’ingresso del virus nel corpo, efficace solo se intrapreso entro 72 ore dall’esposizione”. Quindi si ricorda che si tratta di assumere farmaci per un mese e che gli effetti collaterali possono includere diarrea, nausea e forti cefalee. Infine, un blando monito: la profilassi non è un sostituto dei condom!
Da noi se ne parla poco, perché non esiste più alcuna vera iniziativa o tentativo di rinnovare la comunicazione sulla “prevenzione”. In Lombardia, per esempio, esistono protocolli per l’effettuazione della profilassi in questione con criteri più restrittivi di quelli in vigore in città come Parigi, Londra e Berlino, ove il livello di promiscuità e la concentrazione di gay sono tali da richiedere un pragmatismo spicciolo, misure concrete per arginare la diffusione oltre un certo limite delle patologie a trasmissione sessuale.
Si può credere, però, che l’invito a utilizzare il preservativo prevalga sull’opzione dell’intervento a posteriori? Prevenire costa di più all’individuo, curare costa soprattutto alla società. L’inerzia, il fatalismo e il compiacimento masochistico incentivati nell’ambiente gay mettono di continuo in discussione quel minimo di vigilanza ottenuta a furia di seguire passo passo i frequentatori di locali hard e i partner di Hiv positivi.
Davvero non vi sono alternative al tamponamento delle falle della nave di questi spensierati gaudenti in crociera, che si dirige come il Titanic incontro al disastro?!
Riflessione retorica. Quando fare sesso o conoscenze implicava una fatica fisica e psicologica, nonché un rischio in termini di reputazione o di controllo da parte delle forze dell’ordine, il contenimento sessuale era pressoché inevitabile, le condizioni oggettive dell’esperienza si rispecchiavano in quelle soggettive inducendo moderazione nella maggioranza degli omosessuali.
Soltanto pazzi scatenati e autolesionisti all’ultimo stadio si lasciavano andare a condotte scriteriate e abbuffate periodiche o metodiche di cibarie sessuali ancorché non commestibili.
Qualcuno andava all’estero per togliere il guinzaglio al mister hyde interiore generato dalla non integrazione dell’orientamento sessuale, oppure per permettersi l’espressione di gusti e preferenze che in patria sarebbero stati impresentabili o impraticabili.
Certo, le regole erano dettate dalla società e chi metteva in atto comportamenti omosessuali poteva scegliere solo il padrone da servire (la famiglia, la pavidità, il calcolo, l’ipocrisia o l’impostura, l’esposizione reattiva, la militanza).
Da quando nei centri urbani più industrializzati sono proliferati i luoghi deputati a favorire lo scambio sessuale, è come se fosse stata spianata la collina o perforata la montagna, anzi la salita è stata sostituita dalla discesa, perché quasi chiunque può accedere, s’intende a pagamento, a banchetti e festini organizzati nei discount gay.
Superato lo scoglio della dichiarazione dei dati personali per la tessera dei club, si verifica paradossalmente il via libera alla perdita dell’identità e alla frammentazione del corpo proprio e altrui.
La propaganda è martellante, gli slogan insistenti, nessuna voce contrastante, tutti d’accordo sulla naturalezza e giustezza della perdizione sessuale.
Qualcuno c’è che si spaventa o ribella, ritornando con nostalgia ai viali del tramonto dei giardini pubblici e dei cimiteri o lungo le sponde dei fiumi, sperando in un recupero sia del limite sia della personalizzazione dell’incontro (risuonano ancora le classiche parole di circostanza? “hai da accendere?” o “che ora è?”).
Ai più deboli e sprovveduti, ma anche ai più orgogliosi per partito preso, non rimane che l’asservimento alla logica del consumo e della dispersione di se stessi e del tempo. Come tener conto delle malattie veneree e dell’Hiv, quando per contratto un buon pezzo del percorso di “socializzazione” va compiuto con gli occhi bendati e un altro pezzo sotto effetto di sostanze afrodisiache, tra allettamenti e ingiunzioni, carote e bastoni erotici?!
Allora arrivano i rinforzi delle unità di strada per la riduzione del danno, il che equivale a mettere un cuscino per terra per attutire il colpo di chi barcolla vittima di un trauma cranico auto-provocato. Chiamate l’Ambulanza, per favore, e toglietegli il martello dalle mani…
Mattia Morretta (febbraio 2006)