Omosessualità e infezione da Hiv in Italia Prevenzione e educazione alle relazioni
Va rilevato che negli scorsi anni fra i destinatari dei programmi di prevenzione (in realtà, per la maggior parte operazioni di sommario contenimento) sono state privilegiate frange marginali e talora degradate di soggetti con condotte omosessuali (prostituzione, travestitismo e tossicodipendenza).
La quasi totalità delle iniziative rivolte ai gay da parte delle Associazioni settoriali si sono comunque limitate all’offerta di profilattici e alla distribuzione di opuscoli volti a rassicurare i destinatari (e i curatori) circa la conservazione del diritto alla gratificazione sessuale.
D’altra parte, le casistiche indicano la frequenza di diagnosi e di sieroconversioni in omosessuali con livello di istruzione elevato e appartenenti a fasce sociali medio-alte, testimoniando che il problema non può essere attribuito alla carenza di informazioni né confinato nelle aree periferiche o improduttive della società (il che implica un aggravio in termini di perdita anche economica per la collettività). Proprio nei confronti di tali soggetti è importante l’attuazione di interventi mirati e articolati sul piano della motivazione tramite il lavoro relazionale educativo e psicologico.
Va altresì presa in considerazione la questione della difficoltà di realizzazione e progettualità affettiva delle persone omosessuali, in ragione delle barriere socioculturali e dei limiti di personalità dei singoli. Il fatto stesso che l’omosessualità come orientamento o identificazione prevalente interessi una minoranza della popolazione, costituisce di per sé una limitazione oggettiva all’assortimento affettivo. Non vanno perciò trascurati o sottovalutati la fragilità e il delicato equilibrio sottesi a molte coppie omosessuali, prive di modelli positivi e di sussidi sociali (anche nell’ambiente gay), nonché in carenza di riferimenti certi nei Servizi per la presa in carico o l’orientamento per l’accesso a terapie di tipo sessuologico e sistemico.
Appare significativo il rilievo dell’aumento della probabilità di contrarre una o più malattie di origine sessuale, oppure di forme più gravi di contagio, in periodi di depressione successivi alla cessazione di legami sentimentali, durante i quali l’individuo si abbandona a condotte disordinate e ad abusi di vario genere, sovente con dichiarato o comunque intenzionale scopo auto-lesivo.
L’esperienza mostra che sono piuttosto frequenti nelle coppie in cui un membro è Hiv positivo (noto, non noto o non rivelato) fenomeni di trasmissione colposa e dolosa del virus sulla base di dinamiche patologiche di dipendenza e fusionalità; a volte anche per un malinteso e deforme solidarismo, che spinge il soggetto sano a pro-vocare o accettare il contagio, nel tentativo di riuscire a normalizzare e quindi illusoriamente annullare la malattia mediante la mescolanza confusiva delle vite/identità e la presunta quanto generica capacità di amare. L’esito prevedibile è soltanto un raddoppio dello squilibrio delle personalità e del dominio della morte ove pure si presume di essere guidati dall’amore.
Conviene ribadire che la prevenzione presuppone un modello culturale e un approccio globale alle problematiche della salute, con finalità diverse nella sostanza da quelle della sorveglianza epidemiologica e del contenimento del rischio o della riduzione del danno. L’uso del profilattico costituisce soltanto un elemento minimo di riconoscimento del contesto sociale attuale e non indica in alcun modo una coscienza della sessualità e delle sue implicazioni relazionali.
La maggioranza degli uomini, in effetti, percepisce il sesso come un dato di fatto della vita collocabile al di fuori della dimensione storica e delle concrete opportunità ambientali (intendendo con ciò i fattori biologici e quelli socioculturali). Ci si aspetta, quindi, di praticarlo senza applicarsi a un lavoro di conoscenza e di riflessione su se stessi; valutazioni, ragionamenti e analisi sulla propria natura sessuale, sui bisogni espressi nella sfera sessuale ed affettiva, sui limiti soggettivi e sulle limitazioni oggettive, sono visti con sospetto e giudicati negativamente in quanto psicologicamente dispendiosi e destinati a rendere meno “naturale” e “spontanea” la sessualità (a meno che non si tratti di apprendere le parole d’ordine della divulgazione sessuologica sulle zone erogene e sui mille espedienti per incrementare il piacere o le conquiste!).
Va comunque sottolineato che il preservativo per ridurre il rischio di contagio può essere accettato senza far ricorso ad altro che ad una motivazione egoistica, in assenza di qualsiasi riconoscimento del significato dell’esperienza sessuale e dell’analogo diritto altrui all’integrità.
Per troppi rassegnarsi a farne uso per necessità (mai per scelta!) sarà l’impegno massimo profuso in una dimensione come quella sessuale idealizzata quale spazio di diritti unilaterali e di pretese assolute di gratificazione, in cui non sono ammesse sconfitte né previste imboscate (se non quelle programmate in proprio!). A quel punto il preservativo sarà al contempo barriera meccanica contro il potenziale danno biologico correlato all’incontro con un altro essere umano e lasciapassare simbolico per sentirsi autorizzati a evitare qualunque rapporto emotivo ed affettivo con i partner; un modo, in ultima analisi, per sostituire o ignorare la conoscenza, la comunicazione, la partecipazione alle relazioni in quanto persone intere. Ciò nonostante, con o senza “precauzioni”, siamo sempre passibili di ferite e in ogni caso latori di messaggi.
Una riprova del diverso senso dato alle precauzioni dai vari individui, si ha quando si tratta di usare il preservativo per non trasmettere ad altri virus ed infezioni. In tal caso è l’elemento altruistico a essere in primo piano, dovendo far appello al senso del dovere per non far pagare agli altri i propri problemi e avendo cura di tutelare i partner persino dalla loro stessa incoscienza.
In secondo luogo, si misurano allora con precisione la capacità di autogoverno e le motivazioni di ciascuno, dovendo affrontare per forza compiti gravosi: saper imporre a se stessi limitazioni, accettare frustrazioni, inserire in una prospettiva più ampia il gesto di intimità sessuale, elaborare strategie relazionali.
È importante, tuttavia, ricordare che spetta ad ogni persona il riconoscimento e la presa d’atto dell’esistenza di un rischio implicito nella vita sessuale, corrispondente all’assunzione della responsabilità di adulto (che prevede oneri e doveri, non soltanto potere e diritti). Non si dà, infatti, una sessualità senza rischi e senza costi, poiché essa è sempre accompagnata da un’ipoteca creativa o generativa (a livello individuale e interpersonale), sia che venga praticata sia che venga sublimata o repressa.
Dobbiamo tener presente, infine, che le terapie e le profilassi hanno modificato la diffusione, il decorso e le sequele organiche delle malattie veneree (benché meno di quanto si creda, perché è ancora elevatissimo il loro prezzo in termini di salute generale e riproduttiva), ma non hanno cambiato gli aspetti simbolici della sessualità e le sue implicazioni etiche, nonostante lo scenario attuale possa far pensare il contrario.
Analogamente, la realizzazione di un vaccino e la produzione di farmaci efficaci per bloccare o impedire l’infezione da Hiv e le altre malattie trasmesse sessualmente, non potranno comunque eliminare il problema della coscienza e della responsabilità nei confronti dei comportamenti più rilevanti in termini sociali, implicanti la sessualità e l’aggressività.
Indipendentemente dall’Aids e dalle varie patologie veneree, gli esseri umani sono e restano capaci di procurarsi intensi piaceri e grandi dolori, spesso contemporaneamente; come sono pure in grado di sostenersi nella vita con impegno e coraggio o di darsi l’un l’altro la morte con assoluta leggerezza.
Aids e umanizzazione
Se nel mondo occidentale si ha ormai una visione dell’Aids come di un’epidemia immobilizzata, comoda e rassicurante, è perché la catastrofe annunciata riguardo alla diffusione eterosessuale del virus non si è verificata e anche perché l’equazione Aids uguale droga, disgregazione sociale e povertà si è imposta con la forza dei grandi numeri e con la complicità del pregiudizio.
Nel costante e raramente incruento processo di contrattazione tra società e individui, l’Aids ha rappresentato per gli omosessuali sia una minaccia di annientamento (di eco biblica e secolare) sia un’opportunità di mutazione antropologica, avendo portato all’estremo limite la consapevolezza delle potenzialità e dei pericoli insiti in una sessualità priva di vincoli e allo stato puro.
Quel che è accaduto dopo l’identificazione di una patologia quasi fatta su misura per i rappresentanti della trasgressione organizzata (intorno ai due principali buchi neri della liberalità moderna, la droga e il sesso), al punto da poter sembrare creata ad arte, non poteva prescindere dalla storia della ridefinizione della sessualità in atto nell’ultimo secolo e dei suoi risvolti in termini di controllo sociale.
In un certo senso, infatti, per gli omosessuali l’Aids ha solo comportato la trasformazione da gruppo socialmente disprezzato (ritenuto composto da individui malati nel corpo o nella mente e corrotti dal punto di vista morale) a gruppo socialmente a rischio in quanto ricettacolo di patologie infettive e con alta probabilità di morte prematura.
Persino negli USA il National Research Council ha di recente sostenuto che l’epidemia ha e avrà “un effetto irrilevante sulle strutture e sul futuro delle istituzioni sociali”, nonostante la decimazione di decine di migliaia di gay professionalmente attivi ed economicamente produttivi, a dimostrazione del fatto che gli omosessuali non erano e non sono considerati rilevanti per la società, cioè non vengono visti come partecipi del lavoro di costruzione e sostegno della struttura di fondo della comunità umana.
La connotazione di “gay” situa il soggetto e l’intero gruppo al di fuori della realtà comune e della quotidianità, tanto che anche la ricollocazione avvenuta per opera della malattia si presenta con i caratteri di una allucinazione, in quanto fenomeno eccezionale, comunque non ordinario e in qualche modo artificiale, talvolta addirittura associato alla mondanità (casi di Aids tra personaggi del mondo dello spettacolo o della letteratura).
È il pericolo messo in luce da vari intellettuali gay riguardo alla visibilità transitoria imposta dalla ragedia dell’Aids, correlata ad una morte imminente che al contempo sembra promettere l’invisibilità duratura per una specie ormai segnata.
L’Aids si delinea così sempre più quale croce dei gruppi con minore potere economico, politico e sociale, non solo nel terzo mondo, ma anche nel nostro. Il rischio è che anche l’Aids passi senza lasciar traccia dei concreti tentativi di evoluzione dei modelli di vita sociale, sperimentati da alcuni gruppi omosessuali in molti paesi occidentali.
In Italia, la recente normalizzazione di ogni genere di sessualità, superficiale quanto rapida, si è solo sovrapposta alla nostra arretratezza esistenziale e culturale insieme, rendendo la situazione dell’omosessualità particolarmente complessa e confusa. La verità è che gli omosessuali italiani costituiscono effettivamente un gruppo debole e povero, privo di strumenti culturali adeguati alla sfida della trasformazione sociale e quindi esposto soprattutto alla violenza disgregatrice dell’Aids senza poterne utilizzare la valenza ideale.
Il ghetto gay rappresenta davvero una sorta di periferia marginale dell’umanità, in cui regnano il degrado e la miseria relazionale, assimilati fatti propri e trasmessi da tutti coloro che vi accedono, sollecitati dalla propaganda di settori specifici di mercato e persino di associazioni, nella convinzione di dare in tal modo espressione ai propri bisogni sessuali ed affettivi nell’ambiente più adatto. I circuiti commerciali e i luoghi d’incontro per gay divengono allora un mondo popolato di individui senza scrupoli, spietati e brutali nei loro contatti intimi: “uomini” come sono o sanno esserlo coloro che si sottraggono all’obbligo di uniformarsi alle regole della società, in libera uscita dalla identità di cittadini adulti.
I “quartieri” gay si rivelano popolati da controfigure e da morti viventi che come bulldozer spianano tutto quel che trovano sulla loro strada nell’aspirazione al godimento e all’affermazione di fantomatici diritti. In simili contesti indifferenza, egocentrismo e opportunismo fanno da padroni e da cattivi maestri in assenza di qualsiasi riferimento a concreti esempi di maturità e civismo, e in mancanza di un serio lavoro nei circoli territoriali sulla creazione di modelli improntati alla solidarietà e alla moralità.
Sottratti a clamorose costrizioni, non più forzati a sposarsi, a fingere o mentire, per di più liberati da colpevolizzazioni ed esemplari punizioni sociali, i più si ritrovano abbandonati alle loro presunte aspettative e voglie in quanto “gay”, costretti a pensare solo a se stessi, travolti dalla corrente delle possibilità illimitate di divertimento, indecisi tra il dedicarsi esclusivamente all’hobby del sesso o l’erotizzare tutti gli interessi e il tempo libero.
Per molti non c’è neppure la responsabilità verso terzi (coniuge e figli, per esempio) a fare da freno all’escalation dell’egoismo obbligatorio, cosicché i bisogni pur legittimi di piacere e libertà individuale divengono facilmente pretese che assorbono tutte le energie rischiando di distogliere le risorse da altri compiti altrettanto importanti.
La vita del singolo gay appare chiusa su se stessa, priva di apertura verso la dimensione pubblica e segnata dalla mancanza di veri legami formali di tipo interpersonale, che raccordino l’individuo alla collettività; di fatto, la stessa coppia gay è per lo più talmente paritaria da escludere l’interdipendenza e da funzionare come contratto privato rinnovabile e facilmente scindibile.
Come accade ogniqualvolta l’uomo è “libero” di rispondere solo a se stesso, la misura dell’individualismo è facilmente perduta per strada insieme al senso delle conseguenze della propria vita e della propria fine. Avendo la sensazione di pagare solo in proprio e di essere padrone assoluto della propria esistenza, non riconoscendo o non percependo vincoli di sorta (né con la specie né con la comunità), è quasi inevitabile la tentazione di spendere e perdere tutto fino all’annullamento di sé, anche senza ricercare giustificazioni o cause, nobili o ignobili che siano.
Non deve stupire se ne derivano disperazione e malattie, che a loro volta spingono a rincarare la dose e a proseguire a testa bassa nell’ebbrezza distruttiva dell’autolesionismo travestito da originalità e orgoglio. Il comportamento che qualche decennio fa gli americani chiamavano “vivere sulla corsia di sorpasso”, è oggi aggravato nel nostro paese dalla mancanza di sanzioni interne ed esterne all’ambiente gay.
Tocca, infatti, esclusivamente al singolo individuo darsi limiti e fare scelte, dato che non gli è possibile contare su una cultura d’appartenenza che valorizzi l’autoderminazione responsabile e l’auto-aiuto. Proprio per questo molti cercano qualcosa che blocchi il loro girare a vuoto sulla giostra della diversità intuendo la sua seconda natura di ruota della morte. Frequentemente è l’Aids lo sbocco e la meta di strade oscure e a senso unico. La realtà tenuta fuori dalla porta della propria vita, resa in tal modo caricaturale e vuota nonostante il trucco, la palestra e i sorrisi di circostanza, torna sulla scena prepotentemente e chiede di essere riconosciuta. Può non essere troppo tardi per recuperare umanità, ma non è compito alla portata di chiunque.
Ecco perché si può affermare che l’Aids ha dato e dà al sesso tra uomini una gravitas che non è solo carico e peso, ma anche importanza e valore. I rapporti tra gay ne hanno infatti ricavato consistenza e spessore. È come se si fosse verificato il trapasso dal sesso alla sessualità, in corrispondenza del mutamento sociale dell’identità gay: acquisendo fisionomia di persone (uscendo dalla zona d’ombra dell’anonimato), gli omosessuali diventano capaci di azioni vere e proprie anche nell’ambito sessuale e non soltanto di atti.
La sessualità è, infatti, caratterizzata dagli aspetti di responsabilità che si aggiungono agli elementi ludici; conseguenze, progettualità, valenza sociale, scambio e contrattualità ne sono il corollario. Entra dunque in campo qualcosa che introduce anche nelle relazioni omosessuali la tematica generativa.
Gli eterosessuali sono da sempre costretti a fare i conti con l’eventualità del concepimento e quindi a sentirsi responsabili di questioni di vita e di morte. I rapporti omosessuali e gli omosessuali sono stati invece considerati fino alla comparsa dell’Aids una zona franca, in cui era possibile giocare sfuggendo al dovere nel sesso, come se esistessero solo crediti e nessun debito.
Se la sessualità è il discrimine tra adulto e pre-adulto, è perché poco dopo la pubertà non è più possibile il puro gioco col corpo e con i genitali; la soddisfazione sarà autentica, dopo un periodo di prove e apprendistato, solo a condizione di fare sul serio, cioè di riconoscere la serietà della gestione del patrimonio sessuale quale strumento di piacere e quale mezzo che ci collega al ciclo della vita e della morte (sul piano della specie e su quello della società umana).
In questo senso, chi non è in grado di accettare l’idea della morte implicita nell’identità sessuale e nel potere di agire la sessualità, non è neppure in grado di “trasmettere” la vita e dare/ricevere piacere, ma può soltanto dedicarsi ad una sorta di autismo sessuale ed è votato alla dispersione del seme tanto quanto alla sterilità esistenziale.
Tutto ciò riguarda e riguarderà sempre più le persone omosessuali, se non verrà perduta o dispersa la consapevolezza della propria umanità integrale, alla cui definizione anche l’Aids ha contribuito.
Mattia Morretta (novembre 2000)