Quesiti più diffusi su Omosessualità
Si può ritenere valida l’ipotesi che l’omosessualità dipenda da fattori ormonali o comunque biologici?
Negli ultimi decenni la ricerca scientifica si è nuovamente dedicata ad accertare se l’omosessualità sia dovuta a “cause” biologiche, con l’ausilio di tecniche sofisticate nel campo della endocrinologia, della embriologia e della genetica. Alcuni autori sostengono che siano state riscontrate prove convincenti dell’influenza dell’ambiente ormonale del feto su particolari modelli di comportamento sessuale.
In diverse specie animali, infatti, la manipolazione ormonale durante la delicata fase di differenziazione sessuale può determinare nella condotta adulta copioni sessuali interpretabili come simili a quelli dell'omosessualità umana. La tendenza omosessuale in questa ottica deriverebbe da uno squilibrio ormonale nel corso della vita fetale.
Esperimenti condotti su cavie castrate avrebbero accertato la presenza di centri cerebrali “maschili” e “femminili” sui quali si può agire attraverso dosaggi ormonali nella fase critica di passaggio. L’endocrinologo G. Dorner ha addirittura dichiarato che “si avvicina il giorno in cui le donne potranno avere, a volontà, un figlio omosessuale o eterosessuale”.
Resta da chiedersi se il comportamento “omosessuale” delle cavie sia omologabile a quello dell’essere umano, nonché se l’omosessualità coincida con l’adozione di un ruolo nel coito o con un atteggiamento.
D’altra parte, Robert Kolodny, direttore della sezione endocrinologica dell’Istituto Masters & Johnson, afferma che: "Non ci sono indizi che anormalità endocrine risultino nella maggioranza degli omosessuali”.
Del resto, tutte le indagini in materia sono viziate da limitazioni metodologiche e dal basso numero di soggetti esaminati. Non è facile accettare senza riserve qualsivoglia risultato, si può soltanto ammettere che in alcuni casi le predisposizioni possono interagire con fattori sociali e ambientali nella strutturazione di un orientamento omosessuale.
Omosessuali si nasce o si diventa?
Le ipotesi fatte finora per “spiegare” l’omosessualità sono fondamentalmente tre: una, di derivazione psicoanalitica, fa riferimento ad una particolare rapporto con la madre e al fallimento nel superamento nel complesso edipico; un’altra, di carattere sociologico, chiama in causa le esperienze nella pubertà e in gioventù; la terza la attribuisce a fattori biologici.
Secondo la psicoanalisi gli elementi in gioco sarebbero la perturbazione dei processi di identificazione, il narcisismo, il timore della perdita dell’identità sessuale (angoscia di castrazione), le modalità del rapporto con la madre nel primo anno di vita. Tuttavia, numerosi individui assolvono le condizioni citate pur essendo eterosessuali.
Da parte sua, la sociologia suppone che si diventi gay in seguito a “condizionamento”, cioè per apprendimento del comportamento omosessuale in seguito all’incontro con partner del proprio sesso in certe fasi della vita. Alcuni resterebbero così condizionati alla sperimentazione dello specifico piacere.
Il più recente studio sull’acquisizione delle preferenze sessuali sembra però smentire queste teorie. Nessuna delle classiche variabili utilizzate per spiegare l’omosessualità appare confermata. Per esempio, un padre freddo e ostile può costituire più una reazioni al figlio percepito come “diverso”, che un motivo di mancata identificazione da parte del figlio.
Per contro, quasi tutti gli eterosessuali indagati hanno avuto esperienze omosessuali (non necessariamente veri e propri atti genitali) prima di intraprendere una attività eterosessuale.
Ciò che sembra profilarsi è la dimostrazione della nettezza e della precocità con cui si manifesta la predisposizione sessuale, anche quando il comportamento può smentire la tendenza. Anche parecchi gay, infatti, vivono rapporti con partner del sesso opposto, la differenza sta nell’intensità emozionale che caratterizza le relazioni con i due sessi.
La chiave dell’identità sessuale è nei sentimenti profondi piuttosto che nella condotta. Gli omosessuali, in effetti, provano forti sensazioni omosessuali ed emozioni “diverse” parecchi anni prima di avere i rimi approcci omosessuali veri e propri. L’omosessualità è dunque in qualche modo innata? Forse.
Certo essa non è un aspetto superficiale o secondario della personalità, bensì qualcosa che partecipa della più intima struttura dell’individuo. Naturalmente, seppure esista una tendenza innata, le vicissitudini e i fattori ambientali possono incidere su di essa determinando, per esempio, l’ampliamento della pratica sessuale (bisessualità), oppure il modo più o meno nevrotico di vivere la propria natura omosessuale.
Come vanno interpretati i comportamenti e le fantasie omosessuali durante l’adolescenza?
Il contatto erotico fra maschi nella fase puberale è una evenienza assai diffusa in ogni cultura. La condotta omosessuale in tale periodo, fatta di masturbazioni reciproche o giochi genitali più o meno spinti, viene considerata fisiologica e rispondente allo stato di ambiguità sessuale proprio dello specifico stadio di sviluppo. Più che rivelare tendenze omosessuali, queste attività riflettono il contributo che la componente omosessuale offre al processo di iniziazione alla vita adulta.
Il desiderio sessuale è potente, la vulnerabilità e l’ambivalenza altrettanto. Dato che le prime informazioni sul sesso e sulla masturbazione vengono scambiate tra coetanei, è agevole il passaggio all’atto grazie alla facilità con cui la pulsione si appoggia alle affinità psichiche tanto determinanti per la creazione di una immagine di sé e di una identità.
Molto spesso si tratta di rapporti “imitativi”, una sorta di apprendistato nei confronti della futura relazione con l’altro sesso. Il bisogno di esorcizzare la paura della anormalità e di rassicurarsi sulla propria mascolinità costituisce per i più il movente principale. Questi giochi nella pubertà pertanto non condizionano l’orientamento sessuale successivo. Comunque sia, in genere in adolescenza che si acquisisce la convinzione circa l’orientamento omosessuale.
Lo psichiatra americano Harry S. Sullivan ha fatto notare che sono propri i soggetti omosessuali nella vita adulta a non aver partecipato per lo più a contatti erotici con coetanei nella preadolescenza. Egli arriva a consigliare che l’intimità tra preadolescenti sia tanto intensa da permettere ad entrambi gli amici di conoscere praticamente tutto l’uno dell’altro. Ciò porrebbe rimedio alla sensazione illusoria o morbosa di essere diverso dagli altri e contribuirebbe al raggiungimento della sicurezza personale.
L’effeminatezza durante la fanciullezza predice l’omosessualità adulta?
Almeno sui grandi numeri pare che l’unica differenza statisticamente significativa fra omo ed eterosessuali sia la manifestazione di “non conformismo al genere” nella fanciullezza; il fatto cioè che molti omosessuali mostrino sin da bambini una tendenza per giochi ed interessi considerati non maschili. Parecchi ragazzi preomosessuali risulterebbero meno tipicamente virili dei coetanei, per lo meno nell’immagine che hanno di se stessi.
Ciò dipende senza dubbio dall’impostazione culturale di una società che ha teso ad evidenziare i caratteri tradizionalmente maschili e femminili degli individui. Di norma, infatti, i maschi devono fare attivamente determinate cose per dimostrare di essere virili, mentre le femmine devono farne alcune per dimostrare di non essere femmine. La qualifica di mascolinità va meritata, quella di femminilità è più data per scontata.
È dunque probabile che una predisposizione, ammesso che tenda a manifestarsi precocemente, possa esprimersi durante l’età evolutiva tramite l’adozione di comportamenti meno congrui con il sesso di appartenenza.
Tuttavia, la scelta dei giochi, la tipologia di interessi e di gusti costituiscono un ambito che muta in rapporto al costume e ai valori culturali. Oggi non si separano più in maniera rigida attività e modelli comportamentali a seconda del sesso, le aspettative riguardo ai ruoli sono più elastiche: i maschietti possono giocare con le bambole e le femminucce con i trenini elettrici, senza che crolli il mondo. Questo significa che forse in futuro la “diversità” di un bambino preomosessuale potrebbe manifestarsi con altri canali espressivi.
L’omosessuale si riconosce sempre dall’aspetto esteriore?
Un luogo comune molto radicato vuole l’omosessuale effeminato, con atteggiamenti e psicologia tipicamente femminili. Nel XIX secolo Karl Heinrich Ulrichs parlava di “anima femminile racchiusa in un corpo maschile”. Per reazione alla cristallizzazione di tale immagine negli ultimi decenni è comparso sulla scena gay il fenomeno “leather” (cuoio): un omosessuale virile nell’aspetto e nei modi, anzi, ipervirile grazie ad un abbigliamento in pelle oppure a jeans o divise militari.
Molto più semplicemente, è assurdo credere che tutti gli omosessuali abbiano lo stesso modo di vestire, “quel” gesticolare o “quella” inflessione vocale cui si è abituati da certa sottocultura barzellettistica. Gli omosessuali differiscono tra loro per cultura, problemi psicologici, maggiore o minora adattamento al loro orientamento, immagine esteriore, gusti sessuali e così via, in maniera analoga agli eterosessuali.
Che alcuni aspetti di “femminilità” possano avere a che fare con meccanismi psichici collegabili all’omosessualità è un’ipotesi valutabile. Pretendere però che l’omosessuale possa o debba esprimersi unicamente con modalità femminili è un errore grossolano e banale. Un tipo con baffi, barba, muscoli, oppure il comune uomo della strada, hanno uguali possibilità di essere omosessuali del giovane efebico.
La maggioranza degli omosessuali è, in effetti, del tutto indistinguibile dall’eterosessuale medio. Ciascuno dovrebbe avere la libertà di esprimersi e apparire nel modo più congeniale al proprio essere.
La condotta omosessuale è sufficiente per definire l’orientamento?
Non esiste una vera frattura tra omo ed eterosessualità, ma un continuum che si articola in numerosi stadi intermedi. È nota la scala Kinsey che valuta il comportamento sessuale per gradi da 0 a 6.
I due estremi corrispondono all’eterosessualità e all’omosessualità esclusive, il livello 3 al bisessuale che agisce il sesso con entrambi i sessi indistintamente, gli altri livelli si riferiscono a individui con condotta prevalentemente etero o omosessuale, con frequenti od occasionali sortite nel campo opposto.
Le statistiche di Kinsey, datate eppure tuttora punto di riferimento, rivelano che soltanto il 50% della popolazione è esclusivamente eterosessuale nella vita adulta e solo il 4% esclusivamente omosessuale. Ne risulterebbe che nel corso dell’esistenza circa la metà di soggetti pratica attività sia etero che omosessuali o reagisce psichicamente nei confronti di persone d’ambo i sessi.
Se si considera che il 37% dell’intero campione maschile, dall’adolescenza in poi, ha almeno alcune esperienze omosessuali spinte sino all’orgasmo, si comprende come non sia sufficiente la condotta per definire l’orientamento di un individuo e quanto arduo sia contrapporre nettamente omo ed eterosessualità.
L’omosessualità non è un fenomeno unitario più di quanto lo sia l’eterosessualità. Vi sono soggetti che accedono ad esperienze omo in date circostanze (non per forza i canonici collegi o le risapute carceri), senza sentirsi per questo omosessuali e senza avvertire la necessità di ripetere l’esperienza. Di converso, esistono autentiche tendenze omosessuali censurate o tenute a freno per considerazioni di ordine religioso, morale o sociale.
I motivi che spingono il singolo ad avere un rapporto omosessuale possono essere i più vari, ma non basteranno l’occasione, per quanto frequente, né la preoccupazione, per quanto ossessiva, a determinare l’intima percezione di essere omosessuale. Il comportamento è in fondo una faccenda quantitativa, l’identità invece è una questione qualitativa.
Preferire sessualmente e sentimentalmente membri del proprio sesso non riguarda la maggioranza, però neppure una esigua minoranza. Infine, acquisisce una identità omosessuale non chi fa puramente sesso, bensì chi sente nel profondo di esserlo e arriva a tradurlo in parole.
La prostituzione maschile è simile a quella femminile? Cliente e prostituto sono entrambi omosessuali?
Sui marciapiedi in posizione strategica o in locali esclusivi, giovani e adolescenti sbarcano il lunario offrendo prestazioni sessuali ad acquirenti affezionati, non sempre col portafogli pieno. I bar specializzati vedono schierate due popolazioni piuttosto tipiche: da un lato ragazzi virili e un po’ rozzi, dall’altro lato, uomini di mezza età o anziani, omosessuali ma insofferenti dell’erotismo coi loro simili, cultori della bellezza selvaggia e della cosiddetta bisessualità “naturale” del maschio latino.
Indipendentemente dalle motivazioni addotte dagli uni e dagli altri per spiegare la particolarità del comportamento, ciò che li accomuna è il tramite del contatto e del desiderio: denaro sonante.
Sulla strada, invece, si dividono il mercato giovani più o meno palesemente gay e giovani maschi di provata fede eterosessuale, o più modestamente bisessuale. Per quanto si faccia spesso ricorso all’ipotesi di una omosessualità mal accettata o da giustificare a se stessi e agli altri, la chiave per comprenderne la vita sessuale è proprio il denaro. Se i clienti hanno bisogno di pagare, le “marchette” hanno bisogno di ricevere, guadagnare, talora estorcere e depredare.
Facile trovare tra loro adolescenti sbandati, senza arte né parte, tossicodipendenti in cerca di un facile profitto, ragazzi insicuri e d’incerta identità. Tutti possiedono una personalità fragile e sono molto ambivalenti nei confronti dell’attività svolta e della stessa omosessualità. A meritare attenzione non è tanto il comportamento specificamente sessuale, quanto la loro vita affettiva, costellata per lo più di fallimenti e frustrazioni, e il loro disadattamento sociale.
La pederastia riguarda soprattutto omosessuali?
Episodi eclatanti di prostituzione e pornografia infantili portano l’attenzione del grande pubblico su un fenomeno sommerso ma certo non nuovo. Del resto, l’abuso dell’infanzia in generale emerge in maniera sempre più preoccupante da quando si è abbattuto il muro di silenzio che lo circondava. Solo in Italia vengono denunciati ogni anno decine di migliaia di casi di maltrattamenti, botte e sevizie ad opera di genitori o adulti; migliaia sono pure le violenze sessuali, per lo più consumate tra le mura domestiche.
La pederastia è comune equiparata all’omosessualità, forse come retaggio dell’uso indistinto dei due termini in passato. Si dovrebbe in verità parlare di pedofilia quando l’attrazione è rivolta verso bambini prepuberi e di pederastia quando si tratta di soggetti tra gli 11 e i 16 anni. Di sicuro gli omosessuali in quanto tali non sono pederasti e meno ancora pedofili. Lo testimonia del resto l’ostilità dimostrata da gran parte dei gay nei riguardi dei pedofili.
Varie ricerche, condotte su casi segnalati alla giustizia, stabiliscono che la percentuale di casi omosessuali è modesta: il 52% concerne rapporti con ragazze, il 22% con ragazzi, il 5% con i due sessi e il 20% sono casi di incesto.
Così commenta lo psichiatra René Schérer: “Un pregiudizio diffuso assimila pedofilo e omosessuale. Il fatto è che i rapporti tra un uomo e una bambina, anche se vengono condannati dalla legge quando vengono denunciati, non sono affatto condannati allo stesso titolo dall’opinione pubblica. Il che dovrebbe dimostrare che il termine pedofilia è ben lungi dal designare una classe uniforme di fatti”.
Si può curare l’omosessualità?
L’omosessualità è stata derubricata dall’elenco delle malattie dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, ma era stata già cancellata dalla classificazione delle patologie mentali nel 1973 dall’Associazione degli Psichiatri Americani e nel 1975 da quella degli Psicologi Americani. Anche l’organismo dei Terapisti Comportamentali ha consigliato di desistere dall’intraprendere programmi terapeutici volti a modificare l’orientamento sessuale di un soggetto adulto.
Di fatto è insensato ed eticamente incomprensibile prospettare una “cura” dell’omosessualità. Non si può che pensare con raccapriccio a fantomatici interventi di psicochirurgia inventati da oscuri studiosi.
In una famosa lettera Sigmund Freud ebbe a dichiarare: “Se vostro figlio è infelice, nevrotico, torturato da conflitti, inibito nella sua vita professionale, la psicoanalisi gli apporterà l’armonia e la pace dello spirito, anche se il suo orientamento sessuale resterà immutato”.
Nondimeno, negli ultimi anni l’Istituto Masters & Johnson ha intrapreso trattamenti cdi “conversione” (per soggetti con minima o nulla esperienza eterosessuale) e di “reversione” (per soggetti con esperienza eterosessuale considerevole) su un limitato numero di candidati omosessuali insoddisfatti, in base a rigorosi criteri selettivi e con la collaborazione di partner di sesso opposto.
I due autori sottolineano che la motivazione non può essere solo la reazione alle pressioni ambientali o famigliari, oppure dettata da considerazioni socio professionali, ma deve corrispondere a un desiderio intimo e radicato. Essenziale, poi, è che sia disponibile una persona di sesso diverso, perché la terapia è fondamentalmente di coppia. Viene segnalata una percentuale molto elevata di fallimenti, pur definendo “incoraggianti” i risultati.
Nonostante tutti i distinguo e le preoccupazioni etiche di non ledere la dignità del paziente e non imporgli il sistema valoriale dominante o del terapeuta, rimane il dubbio che simile interventismo si spinga oltre il consentito.
Infatti, chiunque viva in condizioni di svantaggio sociale ed esistenziale può attraversare momenti in cui arrivare a desiderare un cambiamento del proprio stato in favore di un altro. Un bisogno di normalità, però, non può essere confuso con un bisogno di eterosessualità.
Mattia MorrettaFascicoli n. 23 e n. 24 Enciclopedia Amare, Gruppo Editoriale Fabbri, 1986