Sotto a chi tocca (l'Hiv)
Non lo si sente mai dire, eppure per un omosessuale medio, frequentatore abituale o meno di locali e luoghi di svago sessuale, la probabilità di incontrare un partner Hiv positivo è ai nostri giorni decisamente più elevata rispetto a 5-10 anni fa, per non parlare di 15-20.
In questa fase sono molti di più i gay Hiv positivi in circolazione (per giunta sovente ignari come belle addormentate nel bosco del proprio stato) rispetto alla fine degli anni 90. Allora, infatti, si infettavano più persone ma il tasso di mortalità era molto più alto e diverse circostanze riducevano la probabilità di una vita sessuale attiva e continuativa da parte dei sieropositivi (stigmate fisiche più evidenti e patologie invalidanti dei malati, prudenza per egoismo o per paura da parte degli altri, diffidenza generalizzata e “occhio clinico” nell'occasionalità, etc.).
Inoltre, la cronicizzazione dell’infezione e il miglioramento della cosiddetta “qualità della vita” rendono ovviamente possibile un’agibilità sessuale un tempo impensabile, proprio mentre la sostanziale de-responsabilizzazione dei pazienti Hiv, in atto da anni col contributo indiretto di parecchi medici (interessati soltanto alla “compliance” farmacologia) e delle stesse ONG (focalizzate sulla non discriminazione e sull’erogazione di servizi assistenziali), aumenta i comportamenti pericolosi e talora distruttivi di chi è già stato contagiato.
Se si aggiunge che l’utilizzo massiccio di farmaci ha creato/crea virus resistenti e quindi capaci di dar luogo a infezioni più aggressive, il quadro è completo.
Il ritmo di crescita dell’infezione è senz’altro diminuito a confronto del passato (e ci mancherebbe altro), ma tra gli omosessuali non come si attenderebbero gli esperti; i quali, va precisato, tendono ad attenersi alle dichiarazioni politiche dei leader gay e perciò a ritenere “educata” in proposito la minoranza gay, sino a prova contraria.
Giovani e persino giovanissimi si ritrovano sieropositivi dopo aver agito di fatto come se non esistesse alcuna patologia sessualmente trasmessa ed essersi limitati a sommarie cautele o finte precauzioni. Chi si astiene per qualche mese per poi recuperare il tempo perduto in un fine settimana, chi non usa il profilattico da subito perché “innamorato” o dopo qualche settimana perché ormai “ci si conosce”.
Chi non chiede e non dice perché è comodo e comunque sia non saprebbe come e di cosa parlare con un partner sessuale o un alter ego altrettanto narcisista. Chi non nomina l’Aids perché oramai non lo fa nessuno e non vuol fare brutta figura, tanto ci sono i preservativi oppure la profilassi, eccetera eccetera.
Li attendono anni di controlli sanitari, di trattamenti con effetti collaterali a volte drammatici, disagi e preoccupazioni di ogni genere, e tuttavia, per lo più, non fanno una piega, non versano più una lacrima, al momento della diagnosi e in seguito.
Altri equivoci e malintesi, in termini di clausole del contratto costitutivo di molte coppie omo, cioè il dichiarato o implicito libero esercizio del sesso senza complicazioni al di fuori del rapporto “sentimentale” (quanta approssimazione nell’uso delle parole!), danno ragione di molti casi di contagio di uno o di entrambi i membri di relazioni probabilmente “fisse” o “stabili”, però di certo non monogamiche e non fondate sulla lealtà e la responsabilità.
La catena della prigionia nella colonia penale dell’Aids si allunga attraverso incoscienze e mistificazioni grossolane, talvolta vere e proprie imposture e calcoli, vendette e ritorsioni: chi non vuol sapere, chi preferisce evadere e dimenticare, chi fa del sesso una maniera di maltrattarsi, chi la fa e l’aspetta, chi gioca al “ce l’hai”, chi si affida al “a chi tocca tocca”… Una prece.
Mattia Morretta (ottobre 2005)