Partner e congiunti di Hiv positivi Legami a rischio, ASL Milano, 2000
Presupposti e metodologia del Progetto Congiunti
Il progetto sperimentale attuato in collaborazione tra NOPA e Unità di Terapia Familiare tenta per la prima volta in Italia, in modo strutturato e sistematico al di fuori del contesto ospedaliero, di concentrare l’attenzione sui congiunti dei soggetti Hiv positivi, ricorrendo a strumenti originali di raccolta di dati significativi per la messa a punto di interventi educativi di prevenzione o di sostegno e terapia.
Si tratta anzitutto, concettualmente, di una integrazione e di una correzione dell’abituale ottica assistenziale o solidaristica, che prende in considerazione i congiunti per favorire l’adeguamento dell’entourage ai bisogni della persona Hiv positiva; l’ottica preventiva, infatti, impone di porre al centro i bisogni e l’interesse del partner e del familiare, aiutando questi ultimi a definire la situazione a partire da un punto di vista autonomo sia per quanto attiene l’aspetto della profilassi sia per quanto concerne le altre aree.
Nel progetto, unitamente al colloquio personale e alla scheda per la richiesta del test Hiv, sono state utilizzate due schede specifiche, elaborate in proprio dai curatori e distinte per soggetti Hiv positivi e congiunti (partner, ex-partner, familiari), allo scopo di ottenere informazioni validabili e confrontabili su diversi elementi: natura e profondità del vincolo; motivo dell’accesso al servizio; fattori critici oggettivi o soggettivi; problemi concomitanti (di tipo logistico, occupazionale, finanziario, sanitario); aree problematiche nella relazione; grado di psicopatologia preesistente e attuale; manifestazioni del disagio (in termini di sintomatologia e di meccanismi di difesa); modificazioni nella sfera sessuale (a livello di pratica e di rappresentazione psichica); uso di sostanze e di psicofarmaci; contatti con strutture specifiche di cura, altri servizi correlati e con organizzazioni sociali; figure di riferimento e condivisione della problematica a livello sociale o privato; indicazione per interventi consultivi, di sostegno o terapia; disponibilità dell’utente all’attuazione; rinvio o invio ad altri servizi.
Nell’ambito del NOPA, nel corso del 1998 e del 1999, è stato offerta in modo sistematico all’utenza in oggetto la possibilità di usufruire di colloqui di consulenza, concepiti come spazi per osservare e riconsiderare in compagnia di un operatore competente le problematiche della relazione con un soggetto Hiv positivo (vuoi come partner vuoi come familiare), raccogliendo dati su aree di disagio e nello stesso tempo restituendo alla persona una visione più articolata della realtà e, se possibile e desiderato, delle opportunità di cambiamento. Inoltre, è stata offerto un lavoro più strutturato di sostegno, in rapporto a situazioni di crisi o di bisogno già definito, mirando a creare una relazione significativa benché non continuativa nel tempo (ciclicità o periodicità in base all’accesso all’Ambulatorio per il test). Il coordinamento con l’Unità Terapia Familiare ha poi consentito l’invio diretto alla consulenza e alla terapia di tipo sistemico nei casi compatibili.
Considerazioni sul campione
Tipologia delle relazioni
L’utenza si è rivelata composta quasi in egual misura da partner ed ex-partner e da maschi e femmine (più della metà dei maschi è costituita da omo/bisessuali). Le donne sono risultate più coinvolte in relazioni di lunga durata (spesso coniugali), mentre per gli uomini sono risultate più frequenti le relazioni di breve o media durata e i rapporti occasionali con Hiv positivi accertati.
Sono stati considerati partner i membri di coppie in formazione (< 6 mesi), recenti (< 2 anni) o stabili (> 3 anni); ex-partner i soggetti che hanno fatto parte di coppie di durata breve (< 1 anno), media (< 3 anni), lunga (> 5 anni), eventualmente terminate per decesso del membro Hiv positivo, nonché coloro che hanno riferito esperienze non strutturate od occasionali con individui dichiaratisi o rivelatisi in seguito Hiv positivi.
Le articolazioni della catena di trasmissione eterosessuale dell’Aids, per altro rilevante sin dagli inizi dell’epidemia (poiché gli stessi casi imputati allo scambio di siringhe hanno sempre rappresentato concrete occasioni di diffusione dell’infezione per via sessuale), appaiono più evidenti se si considerano alcuni sottogruppi degli ex-partner: da un lato, coloro che vengono a conoscenza a distanza di tempo dello stato di positività per l’Hiv o di malattia, se non addirittura della morte, di soggetti con cui hanno intrattenuto relazioni in genere brevi o discontinue; d’altro lato, coloro che (soprattutto maschi) riferiscono notizie o voci sulla sieropositività per l’Hiv di ex-partner occasionali, dando conto così al contempo sia di fenomeni proiettivi individuali e collettivi sia dell’estensione dell’idea di contagio al di fuori dei cosiddetti gruppi a rischio.
Area dei congiunti
Per quanto riguarda i congiunti in senso lato, sono stati presi in considerazione i familiari (genitori, fratelli, figli) e altri collaterali (parenti e amici intimi), con forte predominanza di donne (tra cui numerose sorelle) e registrando nel tempo un aumento significativo del gruppo nel suo insieme. Non si tratta solo dell’esito di una valutazione più accurata della richiesta di test, ma anche della concreta rilevazione degli effetti del fenomeno di diffusione della presenza dell’AIDS nella società attraverso le conseguenze del rapporto diretto o indiretto (parentale o amicale) con i malati: la distribuzione dell’infezione da Hiv nella città si configura come una realtà più quotidiana, capace di condizionare in modo materiale e non puramente astratto o teorico la vita di relazione e la percezione del rischio di contagio. Tra i congiunti, va posto in rilievo il sottogruppo dei figli di Hiv positivi, costituito non da bambini nati da madri o coppie di sieropositivi bensì da adolescenti o giovani i cui genitori (uno o entrambi) si sono contagiati per lo più per via sessuale molti anni dopo la loro nascita.
Rapporto con le strutture sanitarie ed effettuazione del test
Nonostante la periodica effettuazione del test nei Centri di screening, la quasi totalità dei congiunti mostra di non aver mai affrontato in modo approfondito in tale sede i problemi specifici (neppure per la componente che parrebbe ovvia delle pratiche sessuali); d’altra parte, non sorprendentemente, alcuni manifestano una evidente impermeabilità alla ritenzione e integrazione di informazioni utili per la tutela della salute.
In linea generale, il partner ed il familiare paiono esser stati considerati e trattati dagli operatori sanitari quali assistenti o elemento accessorio del soggetto HIV positivo, soprassedendo su ogni tipo di bisogno o domanda al di fuori delle notizie indispensabili sul decorso dell’infezione e sulle più elementari norme di profilassi. Del resto, il continuo avvicendamento di personale non strutturato nei Centri di screening ha impedito la creazione di referenti per l’utenza capaci di agire con cognizione di causa sulla base della conoscenza dei percorsi esistenziali e clinici dei singoli.
La superficialità del rapporto tra il medico e l’utente, costitutiva del contesto di screening a libero accesso in anonimato, ha senz’altro contribuito a conferire alla richiesta del test un significato riduttivo e sovente magico esorcistico, chiudendo gli spazi di comunicazione e di rielaborazione aperti dal timore del contagio.Ciò ha finito per determinare rafforzamento delle sommarie operazioni di negazione e delle attitudini negative di parti consistenti di tale utenza (fatalismo, vittimismo, autolesionismo, eroismo sacrificale, atteggiamento controfobico, etc.). Si tratta di un’ulteriore dimostrazione del fatto che l’effettuazione pur periodica del test non serve a prendere coscienza e non esprime in sé una scelta di consapevolezza.
Di norma, il test offre al congiunto quel tanto di rassicurazione e di sfogo dell’inquietudine cumulata negli intervalli, che gli consente la ripresa delle abitudini comportamentali e degli schemi cognitivi antecedenti sino al successivo ingorgo emozionale. Il test, quindi, non solo non mette in discussione il sistema spesso minimale e fallimentare di difesa strutturato dall’individuo o dalla coppia per reggere alla minaccia immanente, ma può amplificare i fenomeni di scissione e rimozione e la sottostante disperazione senza sbocco.
Ne sono testimonianza drammatica i partner che, pur sottoponendosi regolarmente al test, non hanno mai usato precauzioni nei rapporti sessuali, facendo dell’esame un controllo a posteriori della invulnerabilità o della sfida, ma qualche volta anche un modo per uscire dalla spirale della attesa di un evento che non erano in grado di prevenire (sperando, perciò, in una sieroconversione, non intravedendo alternative ed essendo impraticabile o inconcepibile una separazione dal malato).
Per la gran parte dei congiunti (familiari compresi) fare il test costituisce l’unico mezzo per tener conto e al contempo ignorare il legame con le problematiche vissute e rappresentate dal soggetto sieropositivo; è un gesto, dunque, che permette un compromesso tra il desiderio di fuga e salvezza e l’intenzione di condividere e restare in contatto.
Grazie all’esame del sangue (ricerca dei segni tangibili dell’invasione e del danno), molti possono sentirsi in parte fuori dalla situazione effettiva pur senza dover rinunciare a restarvi dentro; al posto, in definitiva, del cambiamento richiesto per un reale processo di adattamento e che solo può condurre al miglioramento delle condizioni di vita dell’individuo e della coppia (sia come partecipazione responsabile sia come separazione consapevole).
Mattia Morretta (novembre, 2000)