Enrico Barzaghi: Vedi alla voce amore
Babilonia N. 76, 1990
Enrico è stato molto più di quanto avessi mai potuto immaginare o elaborare nel tentativo di disegnare un’immagine positiva della persona con Aids. Mi ha sempre e comunque sorpreso, perché non solo ha indossato con grande disinvoltura e proprietà i panni di quella figura da me abbozzata, ma l’ha anche arricchita di originalità adattandola alla sua misura di uomo fuori dall’ordinario e l’ha sospinta oltre le mie supposizioni più azzardate.
Nel volgere di pochi mesi dal suo ingresso nell’ASA ha bruciato tutte le tappe divenendo prima rappresentante delle persone sieropositive e poi vicepresidente, cariche in precedenza vacanti e puramente virtuali. Non ha soltanto ricoperto incarichi, ha pure creato nuovi spazi e si è dato da fare come nessun altro per aggregare persone e raccogliere fondi in ambito privato.
Ha impresso all’Associazione un’accelerazione nel processo di definizione degli obiettivi e della propria identità sociale, permettendoci di uscire dall’atmosfera provinciale e retrograda del fenomeno Aids in Italia, proiettandoci a livello internazionale con l’aspirazione di parificare la nostra attività a quella di Paesi più organizzati nella battaglia contro l’Aids (il suo nome compare nelle mainlist di tutte le principali organizzazioni aids-correlate del mondo!).
Uno dei suoi intenti fondamentali è stato quello di operare una “normalizzazione” dell’Aids, cioè relegare sullo sfondo gli aspetti di marginalità, devianza, miseria e pericolosità associati alla malattia dalla stampa e da molti politici. Tali caratterizzazioni infatti hanno reso sempre difficile l’adozione di un atteggiamento da parte della gente comune, potendo suscitare al massimo commiserazione e assistenzialismo.
Enrico era un omosessuale “normale”, mentalmente e moralmente “sano”. Il suo modo di vivere e praticare l’identità gay manifestava con quanta naturalezza sia possibile realizzare il proprio orientamento sessuale in armonia con l’ambiente circostante. Avrebbe dato del filo da torcere a molti teorici dei disturbi di sviluppo degli omosessuali; ma avrebbe e ha anche disatteso le elucubrazioni di tanti esponenti delle organizzazioni politiche gay italiane (che aveva disertato tenendosene ad una ragionevole distanza di sicurezza).
Insieme siamo stati la teoria e la pratica dell’Aids. Abbiamo lavorato instancabilmente spalla a spalla, alla pari, con una sorprendente sintonia di idee e vissuti. Non mi è mai capitato di dover spiegare il significato o il perché di un’iniziativa o una proposta. E viceversa, mi è stato sempre chiarissimo il senso di quanto faceva o diceva. Seduti l’uno accanto all’altro, realmente e metaforicamente, ci scambiavamo sorrisi e sguardi d’intesa comunicando sovente solo in virtù della contiguità, soprattutto spirituale ed emozionale.
Ho presto compreso che Enrico poteva rappresentare l’amico ritrovato, quella metà che restaura la completezza. Tant’è che talora lo rimproveravo: dov’eri prima? Perché mi hai lasciato a lavorare da solo per così tanto tempo? Ho dovuto tenere a bada la tentazione dell’esclusivismo affettivo e a tal fine ho dovuto accentuare, a volte artificialmente, la nostra distanza nella quotidianità, lasciando molto spazio a disposizione per i suoi numerosi interlocutori. Al contempo ho giocato con me stesso in modo da concedermi la sua compagnia come un lusso, un piacere eccezionale, una mela gigante o un libro raro.
Enrico era un uomo solo, come tutti gli eroi. Inaccessibile forse, al di là della disponibilità a lasciarsi saccheggiare. Da un certo punto in poi è stata la stessa forza degli eventi a trascinarlo lungo la corrente impetuosa di un destino di “gloria”. Il personaggio tuttavia non è mai stato inautentico. Anzi, egli era “persona” nel senso proprio e pieno del termine.
Alcuni hanno messo in dubbio il suo equilibrio, ritenendolo più esibito che posseduto. Ma si sbagliavano, pur se a volte poteva dare l’impressione di idealizzare la serenità. Non rifiutava le sue debolezze, si sottraeva però all’obbligo di manifestare solo la fragilità, come vorrebbero molti avvoltoi che non vedono l’ora di precipitarsi sui corpi e sulle anime delle persone con Aids facendone scempio.
Enrico Il Grande era per me anche particolarmente bello, il sarcoma di Kaposi non ha mai avuto ragione del fascino del suo volto in cui hanno regnato sino alla fine due occhi straordinari, vitali, intelligenti e suggestivi.
E ha dimostrato quanto sia produttivo e quali conseguenze derivino dall’occupare il proprio posto nel mondo. Come il presente possa tramutarsi in una fucina di passione e di concretezza. Stando con lui ogni giorno andava aggiunto e non sottratto dal calendario. Non ha mai fatto il conto alla rovescia (meno dieci, meno nove…), al contrario ha capito che l’oggi andava considerato un’occasione in più da far fruttare. Basta dare uno sguardo all’immenso patrimonio del suo ultimo anno e mezzo di vita.
Così, ha potuto diventare per tante persone sieropositive l’oasi che non sconfigge il deserto ma disseta. Il sole di notte.
Mattia Morretta